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Lessico Famigliare (2014) di Natalia Ginzburg – Recensione del libro

'Lessico Famigliare' contribuisce alla trattazione degli stili di attaccamento e organizzazioni di personalità in famiglia nella letteratura italiana

Di Elisa Bonafede

Pubblicato il 26 Mag. 2022

Lessico famigliare è un famoso romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, vincitore, nel 1963, del premio Strega. L’autrice e voce narrante descrive dall’interno la vita della famiglia Levi, una quotidianità attraversata anche da eventi storici importanti e da personaggi di rilievo della cultura italiana. 

 

 I romanzi raccontano chi siamo, parlano di eventi ed emozioni universali che attraversano i popoli. È ampiamente condiviso che la letteratura ha un ruolo psicoeducativo importantissimo. Essa ci permette, attraverso le storie raccontate da altri, di narrare anche noi stessi grazie ad un riconoscimento emotivo sempre uguale ma anche sempre nuovo. Sempre uguale perché le emozioni e gli eventi che vengono narrati accomunano tutti gli esseri umani: il dolore della perdita, del lutto o dell’abbandono; la gioia e la rabbia che può attraversare un rapporto di amicizia o di fratellanza; il conflitto nelle relazioni e così via. La letteratura è transgenerazionale proprio perché può attraversare le generazioni mantenendo però un carattere contemporaneo.

Un esempio è Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale), un romanzo distopico di Margaret Atwood pubblicato nel 1985 e tornato alla ribalta ottenendo ancora più successo e consenso grazie alla omonima serie televisiva; tanto da aver avuto un seguito narrativo dopo più di trent’anni attraverso l’uscita de I testamenti.

Per contro la letteratura è sempre nuova perché le sfumature emotive che si rivelano, grazie alla storia raccontata, sono fortemente influenzate dal vissuto del singolo lettore nel qui ed ora, dalla sua particolare sensibilità rispetto alle vicende narrate e dall’aderenza che ritrova in esse.

Risulta evidente, dunque, che nella letteratura è possibile ritrovare le descrizioni delle dinamiche di accudimento con le figure significative nonché i tratti di personalità legati alle diverse organizzazioni di significato. Questo perché lo stile di accudimento, così come i tratti di personalità, rappresentano le basi e le fondamenta di ogni essere umano. Sono concatenate tra loro ed influenzano ogni tipologia di relazione. Per questo motivo i libri e le storie della letteratura sono un terreno fertile anche per la pratica clinica.

Di seguito mostreremo proprio l’emergere di tali contenuti all’interno di una narrazione che nulla ha che fare con la pratica clinica, ma dalla quale è possibile ricavare tutti gli elementi utili per creare un profilo di personalità e uno stile di accudimento.

Lessico Famigliare

Lessico famigliare è un famoso romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, vincitore, nel 1963, del premio Strega.

L’autrice e voce narrante descrive dall’interno la vita della famiglia Levi, una quotidianità attraversata anche da eventi storici importanti e da personaggi di rilievo della cultura italiana.

La narrazione procede come un fiume, in maniera spontanea, priva di una trama e senza una ripartizione equa tra tutti i personaggi. Domina su tutti i componenti della famiglia e su tutte le personalità narrate, per tutto l’intero racconto, la figura del padre della scrittrice, Giuseppe. Un padre che, senza nessuna ombra di dubbio, ha lasciato un segno nella vita dell’autrice.

La figura del padre che si delinea nel racconto mostra delle caratteristiche di parenting riconducibili al controllo privo di affetto che ritroviamo all’interno dell’attaccamento ansioso evitante e dei tratti di personalità tipiche di una organizzazione di tipo ossessiva.

Questo significa che troveremo nella narrazione della Gilzburg un padre che utilizza un controllo opprimente, che impone regole rigide e il rispetto della disciplina come unica modalità di interazione con i figli e spesso anche con la moglie. Manca la dimensione affettiva ed emotiva del legame di attaccamento che anzi è caratterizzato da insensibilità, rigidità e una forte incoerenza educativa. Come è tipico dell’organizzazione ossessiva di personalità, scorgeremo un bisogno costante di avere la certezza di reagire in modo giusto agli eventi, l’inflessibilità anche in situazioni banali, l’ostinazione nel seguire innumerevoli norme morali. Il perfezionismo e il continuo perseguire scelte di valore è, nei soggetti con uno stile ossessivo di personalità, un’adesione puramente formale verso regole astratte percepite come assolute. L’idea di giustizia, di equità e di verità fine a sé stessa e scollata dall’unicità delle situazioni. La preoccupazione primaria rimane l’adesione formale alle regole come strategia di mantenimento dell’unità del sé. La ricerca continua di certezza porta a dubitare di qualsiasi cosa e di chiunque. Le attività diventano ripetitive diventando il più delle volte veri atteggiamenti superstiziosi e aspettative magiche di controllo. Vediamo meglio, attingendo direttamente al racconto, la concordanza tra la parte teorica e gli episodi narrati.

 L’autrice stessa scrive “vivevamo sempre, in casa, nell’incubo delle sfuriate di mio padre, che esplodevano improvvise, sovente per motivi minimi, per un paio di scarpe che non si trovava, per un libro fuori posto, per una lampadina fulminata, per un lieve ritardo nel pranzo, o per una pietanza troppo cotta.” Quando Alberto e Mario, due dei fratelli, litigavano furiosamente l’intervento del padre era “come ogni sua azione, violento. Si buttava in mezzo a quei due e li copriva di schiaffi. Io ero piccola e ricordo con terrore quei tre uomini che lottavano selvaggiamente.” Come nel caso del padre, anche la rabbia e la violenza che esplodeva tra i fratelli si innescava per futili motivi, come la precedenza per andare a lavarsi. Queste modalità violente di risolvere i problemi vengono vissute dai fratelli come assolutamente normali, tanto che l’autrice racconta: “Una volta che Alberto comparve a scuola con la testa fasciata, un professore gli chiese cosa era successo. Lui si alzò e disse: – Mio fratello ed io volevamo fare il bagno.

Chiamava i figli “salami” e “negri” perché nessuno aveva ereditato la sua passione per la montagna vissuta in verità come una vera ossessione più che un libero piacere; escluso Gino, il figlio maggiore, che l’autrice definisce come il “prediletto” dal padre e che lo soddisfaceva in ogni cosa. In realtà il padre rimane comunque insoddisfatto, nonostante gli innumerevoli sforzi del figlio. Infatti la Ginzburg racconta che “Gino si iscrisse poi in ingegneria e quando tornava a casa dopo un esame, e aveva preso trenta, mio padre chiedeva: – Come mai hai preso trenta? Com’è che non hai preso la lode? E se aveva preso trenta e lode, mio padre diceva – Uh, ma era un esame facile.”

Manteneva nei confronti dei figli e della moglie un atteggiamento svalutante, privo di condivisione dei momenti di allegria e spensieratezza. L’autrice racconta che da bambini, insieme alla madre, amavano recitare insieme una poesia e il padre si arrabbiava e “diceva che facevamo teatrino e che eravamo incapaci di occuparci di cose serie”.

Professore universitario, esplicitava la sua riluttanza verso qualsiasi argomento venisse trattato, “gli unici argomenti che tollerava erano gli argomenti scientifici, la politica e certi spostamenti che avvenivano in facoltà”. Non tollerava le barzellette che Natalia, la madre e i suoi fratelli raccontavano. Accettava di discutere solo di argomenti antifascisti. Si sentiva e diceva di essere poverissimo “lo accompagnò per tutta la vita la preoccupazione di trovarsi, da un momento all’altro, sul lastrico; preoccupazione irrazionale, che abitava in lui unita ad altri malumori e pessimismi.

Diffidente e sospettoso nei riguardi degli estranei “temendo che si trattasse di gente equivoca; ma appena scopriva con loro una vaga conoscenza in comune si sentiva subito rassicurato”.

Egli aveva con il cibo un rapporto a dir poco bizzarro. Infatti Natalia racconta che il padre mangiava moltissimo e molto in fretta, tanto da avere il piatto sempre vuoto. Tuttavia era convinto di mangiare poco e aveva trasmesso questa sua convinzione anche alla moglie che lo supplicava di mangiare di più. Sosteneva invece che il resto della famiglia mangiasse troppo ed il modo che metteva in atto per esprimere questo suo punto di vista era tutt’altro che pacato. “Lui invece sgridava mia madre perché trovava che mangiasse troppo – non mangiare troppo! Farai indigestione!

Tutti noi secondo mio padre mangiavamo troppo e avremmo fatto indigestione. Delle pietanze che a lui non piacevano diceva che facevano male; delle cose che gli piacevano diceva che facevano bene. Se veniva in tavola una pietanza che non gli piaceva s’infuriava – perché fate la carne in questo modo! Lo sapete che non mi piace. Se solo per lui facevamo un piatto che gli piaceva s’arrabbiava lo stesso. – Non voglio cose speciali, io mangio tutto. Non sono difficile come voi altri!

– Non si parla sempre di mangiare, è una volgarità! Tuonava se ci sentiva parlare fra noi di una pietanza o dell’altra.

– Come mi piace il formaggio, diceva immancabilmente mia madre quando veniva in tavola il formaggio; e mio padre diceva: Come sei monotona! Non fai che ripetere sempre le stesse cose. A mio padre piaceva la frutta molto matura perciò quando capitava una pera un po’ guasta la davamo a lui. – Ah mi date le vostre pere marce, begli asini.

– Le noci fanno bene. Eccitano la peristalsi.

– Anche tu sei monotono, – gli diceva mia madre. – Anche tu ripeti sempre le stesse cose. Mio padre allora si offendeva: – Che asina! – diceva. Mi hai detto che sono monotono. Una bella asina sei!”

Il timore di una indigestione però, non si tramutava in un reale allarme davanti ad una vera e reale indigestione, in questo caso il signor Giuseppe “sospettava oscure storie di donne”.

L’organizzazione ossessiva del padre tiene lontana la Ginzuburg dalla scuola “mio padre diceva che a scuola si prendono i microbi. Anche i miei fratelli avevano fatto le elementari in casa per le stesse ragioni.” Altro tratto ossessivo emerge nella proibizione di mangiare caramelle e nello specifico l’autrice racconta “mio padre diceva che rovinavano i denti, e non c’era cioccolata, o altri dolci da mangiare in casa nostra, perché era proibito mangiare fuori pasto.” Gli unici dolci che, a tavola, potevano essere mangiati dalla famiglia era delle frittelle molto economiche da preparare ma che, oramai, tutti avevano a nausea.

La lista delle cose che il padre dell’autrice non tollerava appare lunghissima, tra questi anche i segreti, “non tollerava vedere la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano”.

La sorella Paola invece aveva timore del padre a tal punto da non tagliarsi i capelli per la “troppa paura”.

I segreti di famiglia

L’ambivalenza educativa portata avanti dal padre emerge prepotente quando l’autrice affronta il tema dei segreti di famiglia. In particolare sulla morte del fratello della madre, Silvio, aleggiava il mistero: “io ora so che si è ucciso ma non so il perché. Credo che quell’aria di mistero intorno alla figura del Silvio, la diffondesse soprattutto mio padre perché non voleva che noi sapessimo che in famiglia c’era un suicidio, e forse ancora per altre ragioni che ignoro.”

Oltre il suicidio di Silvio in casa vi era un’altra questione avvolta nel mistero che riguardava persone vicine alla famiglia e di cui spesso si parlava ed era il fatto che “Turati e Kuliscioff, non essendo marito e moglie, vivessero insieme. Anche in questa storia di mistero riconosco soprattutto l’intenzione e i pudori di mio padre, perché forse mia madre da sola non ci avrebbe pensato.” L’autrice racconta che sarebbe stato più facile mentire e dire che erano sposati invece le venivano date spiegazioni poco chiare sul perché questi loro due amici venivano nominati sempre in coppia. Così lei si chiedeva e chiedeva se fossero fratelli, marito e moglie, ma appunto le spiegazioni, lungi dall’essere chiare ed esaustive, la lasciavano sempre parecchio confusa rimandandole una sensazione di mistero e di non detto.

Conclusioni

I libri sono un (non) luogo in cui riconoscersi, al di là del tempo e dello spazio. Uno spazio indefinito in cui sperimentare l’empatia e il riconoscimento.

La narrazione di sé attraverso le storie narrate da altri, ma che possono diventare anche nostre. Possono interrogarci, permetterci di comprende dinamiche in cui noi siamo immersi e che a causa di tale profonda immersione non riusciamo a comprendere. Possono diventare chiavi per aprire mondi emotivamente sconosciuti.

Ecco perché diventa importante scegliere le storie giuste, per noi. Perché i libri possono essere un buon esercizio di consapevolezza.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Natalia Gilzburg (2014) Lessico Famigliare. Einaudi, collana Super ET.
  • Vittorio F. Guidano (2018) La complessità del sé. Un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia e alla terapia cognitiva. Bollati Boringhieri
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