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Le rappresentazioni della guerra tra clinica e social

Dai discorsi sulla guerra proposti sui social social si può notare come sia impossibile contemporaneamente vivere un evento e raccontarlo

Di Marco Tarantino

Pubblicato il 31 Mar. 2022

Aggiornato il 01 Apr. 2022 13:47

Una caratteristica di questa guerra, che la rende unica rispetto a tutte quelle che la hanno preceduta, è che molti di noi la stanno vivendo anche nella sua proiezione sui social.

 

Quando mi è stato chiesto di mettere per iscritto alcune considerazioni sugli aspetti psicologici (e psicopatologici) della guerra in Ucraina, ho avuto reazioni contrastanti. Da un lato, infatti, mi è parsa una buona idea mettere a fuoco in una modalità discorsiva fluida e non eccessivamente sintetica i diversi aspetti e le diverse riflessioni che questa situazione mi ha sollecitato, e dall’altro mi sono chiesto quanto la mia posizione di persona coinvolta nelle reazioni che vado a descrivere mi avrebbe permesso di mantenere una distanza sufficiente dal fenomeno per poterlo raccontare.

La guerra collocata nel contesto attuale

Il primo problema che ho riscontrato, infatti, nei discorsi che sto leggendo sulla guerra, nei tentativi di analisi, nel modo in cui viene raccontata dai media, è che è impossibile contemporaneamente vivere un evento e raccontarlo. Nel caso dei servizi giornalistici, c’è un tempo tra le riprese e la diffusione, fatto di vari passaggi che da profano conosco solo sommariamente, che permettono questa presa di distanza e conseguentemente l’accomodazione dei fatti prima di renderli fruibili a tutti. Nel caso delle reazioni emotive alla guerra, invece, questo è più difficile, in quanto prendere un temporaneo commiato dal proprio sentire è un’operazione che necessita di una massiccia dose di astrazione, è un cedimento grossolano alla dimensione del “come se”, ossia una finzione (per citare Vaihinger, 1967). Ciò detto, nella “Filosofia del come se” Vaihinger ci insegna che anche le finzioni possono avere una certa utilità nel comprendere il reale, e quindi provo a dire quali sono le questioni principali che vedo in campo.

Parto dalla clinica: viviamo un tempo che ci ha visti già impegnati, negli scorsi anni, ad affrontare una severa pandemia che ha portato la morte nelle vite nostre e dei nostri prossimi, ha limitato le nostre relazioni, frustrato gli affetti, coartato la nostra voglia di socialità, ci ha inserito in un sistema costrittivo, per quanto necessario, di limiti e divieti e, ora che eravamo quasi pronti a lasciarci tutto questo alle spalle, almeno nelle accezioni più gravi, arriva una guerra violenta e inaspettata, alle porte dell’Europa, dai contorni incerti e dagli esiti imprevedibili, e ci troviamo nuovamente esposti alla percezione di pericolo delle nostre vite, con un’angoscia che assume delle tinte marcatamente melanconiche (per dirla con Binswanger, 2001), essendo un’angoscia che origina dalla messa in discussione del nostro continuare a vivere, minacciati da un conflitto nucleare che aleggia tra i discorsi dei potenti di turno.

A questa angoscia, ognuno reagisce come può: tra i pazienti, c’è chi mi racconta che, proprio adesso che aveva ricominciato ad uscire, sono ricomparse paure e pensieri ipocondriaci che spingono a rintanarsi in casa rimandando la primavera a periodi più tranquilli, oppure chi ha fatto scorte di farine e cibo in scatola “perché non si sa mai”, chi progetta di cercare un bunker per sapere dove andare in caso ci fosse bisogno, chi vagheggia di partire per andare lontano (un lontano assai ipotetico, vista la dimensione del conflitto in potenza).

Accanto alla sofferenza nelle sue varie manifestazioni, nel discorso sulla guerra torna prepotentemente un altro topos tipico di quando ci troviamo di fronte a comportamenti abnormi e apparentemente incomprensibili, ossia la supposta “follia” del potente di turno. Non avendo ovviamente alcun elemento per potermi esprimere sulla salute mentale di Putin, e ritenendo tra l’altro che la diagnosi sia sempre un fatto clinico e che perda del tutto di utilità al di fuori di questo contesto, rilevo che la scorciatoia dell’incomprensibilità, nel significato che a questo termine dà Jaspers, sia inutile quando non dannosa, avendo principalmente sempre lo scopo di allontanare da noi, dalle nostre vite, la anche minima vicinanza con l’essere umano Putin, il relegarlo ad un altro universo simbolico.

La rappresentazione della guerra sui social network

Una caratteristica di questa guerra, che la rende unica rispetto a tutte quelle che la hanno preceduta, è che molti di noi la stanno vivendo anche nella sua proiezione sui social. Questo fatto rende ancora più evidenti i limiti e le potenzialità di queste piattaforme di comunicazione: la tendenza alla contrapposizione, la logica binaria del bianco o nero, che si traduce al “sei con me o contro di me”, l’estrema semplificazione, rendono i social non uno strumento privilegiato per fare da contenimento emotivo della situazione, ma piuttosto un amplificatore del conflitto.

Per comprendere questo fenomeno, faccio riferimento al modello dell’Emotion Focused Therapy di Greenberg e Piavio (2000). Secondo questo modello, dobbiamo distinguere diversi tipi di emozioni: le emozioni primarie, che sono in genere adattive e la cui espressione va accompagnata essendo di per sé parte del processo terapeutico di crescita, e le emozioni secondarie, che invece hanno la funzione di bloccare il contatto e l’espressione di emozioni più disturbanti e la cui semplice espressione non porta a nessuna forma di riorganizzazione creativa.

Se prendiamo in considerazione la rabbia, essa è un’emozione primaria che nasce quando siamo di fronte ad una situazione di pericolo o di messa in discussione della nostra integrità (non solo fisica, ma anche psichica e sociale)  e ci permette di mettere in atto dei comportamenti aggressivi che ci permettano di aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza o affermazione. Quando invece la rabbia ha la funzione di bloccare l’accesso ad emozioni più disturbanti, come dolore o paura intensi, allora è un’emozione secondaria.

Credo che, nella rappresentazione della guerra sui social, i fiumi di rabbia che scorrono (nelle varie declinazioni: dalle accuse di filo – putinismo a quelle di essere guerrafondai, la marcata assenza di empatia nei confronti delle vittime ucraine, la totale identificazione con le stesse, fino alle varianti apparentemente più leggere di sarcasmo) siano proprio di natura secondaria: non ci aiutano ad affrontare il presente, ma piuttosto ci incistano in una incomunicabilità che aumenta il nostro senso di solitudine e precarietà.

Un altro meccanismo di contenimento e gestione dell’angoscia, di segno opposto rispetto al precedente, è l’anestesia emotiva, con un uso massiccio di razionalizzazione, nel tentativo di mettere distanza tra sé stessi e una realtà spaventevole.

Questa condizione diffusa mi interroga, come clinico e come frequentatore dei social, e mi piacerebbe proporre una moratoria di quest’uso della rabbia e dell’eccesso di razionalizzazione, al limite accogliendo la paura e provando a condividerla, per ritrovare dei germogli di comunità da nutrire e socializzare, ma questo esula certamente dalle finalità di questo articolo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Binswanger, L. (2001). Melanconia e mania. Studi fenomenologici. Torino: Bollati Boringhieri
  • Vaihinger, H. (1967). La filosofia del come se. Roma: Astrolabio Ubaldini editore.
  • Greenberg, L., e Paivio, S.C. (2000). Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata. Roma: Sovera edizioni.
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