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Alea iacta est: esperienza traumatica come punto di non ritorno per l’aumento della percezione del rischio, tra guerra e cambiamento climatico

La distanza psicologica è il grado in cui percepiamo che una situazione ci riguardi, costrutto particolmanete attuale nel nostro difficile contesto storico

Di Matteo Innocenti, Lorenzo Ciabini

Pubblicato il 25 Mar. 2022

La distanza psicologica è una teoria che si riferisce alla percezione soggettiva della distanza tra sé e qualche fenomeno o evento e si può suddividere in quattro fattori: distanza spaziale, distanza temporale, distanza sociale e distanza ipotetica.

 

Covid, percezione del rischio e distanza psicologica

Negli ultimi due anni, a causa della pandemia, l’equilibrio mentale globale è stato messo a dura prova. Le immagini sulla nuova misteriosa epidemia che stava colpendo duramente Wuhan hanno imperversato per due mesi sulle tv nazionali di tutto il mondo occidentale. A differenza di altre occasioni, nelle quali le minacce lontane sono rimaste tali, l’epidemia di Covid-19 ha repentinamente colpito a macchia d’olio tutto il mondo, divenendo pandemica. Era successo altre volte negli ultimi anni: disastri lontani che abbiamo vissuto con grande terrore, preoccupati che gli effetti a catena da essi generati potessero raggiungerci e colpirci da vicino, ma che poi sono rimasti lontani. Basti pensare all’epidemia di Ebola o alla guerra in Afghanistan. Poi qualche anno fa, per la prima volta dopo molto tempo, una minaccia che vedevamo lontana, proiettata sugli schermi, invece di rimanere tale si è avvicinata velocemente alla nostra realtà, cambiandola drasticamente. Ma cosa cambia a livello di percezione soggettiva tra un evento che sentiamo come lontano ed uno che percepiamo come vicino? Quello che cambia è la percezione del rischio, ovvero quel processo di valutazione soggettiva del livello di rischio di un determinato fenomeno o evento. La funzione di questa valutazione è di orientare il soggetto a mettere in atto comportamenti coerenti col rischio della situazione da affrontare. La percezione del rischio è un processo relativamente automatico e inconsapevole, che si applica a partire dalle attività quotidiane (attraversare una strada) a quelle straordinarie (imbattersi in una lite accesa tra due persone).

In base all’entità del rischio da noi percepito, orientiamo le nostre decisioni ed i nostri comportamenti coerentemente, spesso in maniera automatica. Ad esempio se percepisco l’interazione con una persona come potenziale rischio di contagio di una malattia infettiva, sarò più orientato a evitare quell’interazione per salvaguardare il mio stato di salute. La ricerca ha sottolineato che in molti casi esiste una discrepanza variabile tra la percezione soggettiva del rischio e la valutazione oggettiva (Slovic, 2001). Può capitare pertanto che gli individui tendano a preoccuparsi per eventi in realtà innocui e che diano per sicure situazioni che hanno una probabilità di causare danni più alta. Pertanto ciò che cambia la nostra percezione soggettiva, e quindi le nostre reazioni emotive e comportamentali, non è tanto il pericolo reale in sé, ma l’interpretazione del rischio a livello prettamente soggettivo. Un esempio può essere quando, durante l’ascolto delle notizie iniziali sulla propagazione del virus, ci veniva comunicato che la probabilità che esso si diffondesse nel nostro paese era basso, di conseguenza, generalmente, avevamo una percezione del rischio minore. Quando poi abbiamo appreso che la diffusione stava assumendo la portata di una pandemia potenzialmente rischiosa, la percezione del rischio di gran parte della popolazione si è incrementata ampiamente: il medesimo virus stimolava risposte di paura e ansia più intense (Ornell et al., 2020; Shafran et al., 2021), così come reazioni comportamentali di evitamenti sociali e di aumento della ricerca di rassicurazioni e sistemi di protezione e prevenzione da un eventuale contatto (Cheng et al., 2020) .

Quale elemento è cambiato tanto da generare una percezione del rischio così diversa? La vicinanza psicologica allo stimolo è un fattore fondamentale (Rudiak-Gould, 2013). Quanto più emotivamente vicino abbiamo percepito lo stimolo avversivo (il virus), tanto più la percezione del rischio (e le conseguenti reazioni emotive e comportamentali) si è modificata. In prima battuta, una volta che il primo caso è stato identificato in Italia la vicinanza psicologica è aumentata, e ancor di più quando siamo venuti a sapere che un conoscente lo ha contratto.

La distanza psicologica è una teoria che si riferisce alla percezione soggettiva della distanza tra sé e qualche fenomeno o evento (Trope e Liberman, 2011). La distanza psicologica si può suddividere in quattro fattori: distanza spaziale, distanza temporale, distanza sociale e distanza ipotetica. Per distanza spaziale si intende la lontananza tra il soggetto e il fenomeno in termini fisici, la distanza temporale invece rappresenta la differenza di tempo trascorso tra il soggetto e l’evento, mentre la distanza sociale si riferisce alla discrepanza dell’impatto sociale per il soggetto di un dato fenomeno e infine la distanza ipotetica misura il livello di certezza percepito dal soggetto.

In parole povere, la teoria della distanza psicologica spiega che il soggetto può sentirsi coinvolto in una situazione a livello emotivo (alta vicinanza psicologica), oppure al contrario vedersi lontano da essa e pertanto non coinvolto emotivamente (bassa vicinanza psicologica). La distanza psicologica quindi rappresenta il grado in cui noi percepiamo che una certa situazione “ci riguardi” o “ci coinvolga”. Questo livello di coinvolgimento è modulabile in base a come il soggetto percepisce temporalmente, spazialmente, socialmente e a livello di ipotetico vicino quel dato fenomeno. Ad esempio la guerra in Ucraina per noi occidentali europei rappresenta un evento molto più emotivamente vicino (a livello spaziale, temporale, ipotetico e sociale) rispetto a un’altra guerra attuale o passata nel medio oriente (come in Afghanistan, Siria o Iraq), di conseguenza la nostra reazione emotiva (ad esempio paura e indignazione) e comportamentale (come l’attivismo di protesta da parte della popolazione e le misure reattive europee) è molto più intensa nella prima condizione.

Secondo la teoria del livello costruttivo della distanza psicologica (Trope e Liberman, 2011), la percezione di una maggiore o minore distanza psicologica rispetto a un certo evento si ripercuote anche sul grado di concretezza con cui il soggetto percepisce questo evento. Mentre un evento percepito a una distanza psicologica elevata, apparirà astratto al soggetto, avrà pochi dettagli e scarsi correlati emotivi, al contrario, un avvenimento percepito come psicologicamente vicino, sarà immaginato e vissuto in modo più concreto, arricchito da molti dettagli, ricordi personali ed un’elevata emotività correlata.

Dopo una lunga luna di miele, durante la quale il nostro paese si è tenuto distante da eventi dannosi e terrifici, il COVID-19 non solo ha rotto lo stato di quiete e inconsapevolezza, ma ha modificato profondamente la nostra sensibilità al rischio. Il fatto che una minaccia che veniva percepita come lontana, astratta e improbabile, si sia repentinamente avvicinata a noi ha demolito le nostre idee di immunità occidentale a problemi e catastrofi ben presenti in altri paesi (come una pandemia, una guerra o un cataclisma ambientale).

“Bellum quod res bella non sit”

Il carico emotivo che ci troviamo a sostenere quando ci confrontiamo con questo conflitto è superiore a quello che avremmo dovuto sopportare se non fossimo stati esposti al Covid. Non solo per il fatto che, negli ultimi anni, sentimenti quali ansia, paura, senso di incertezza hanno campeggiato in tutta la penisola rendendoci più consapevoli, vulnerabili e capaci di immedesimarci nelle disgrazie altrui, ma anche perché la nostra percezione del rischio e la nostra vicinanza psicologica ad esso sono aumentate. Abbiamo più paura della guerra in Ucraina perché la sentiamo più vicina a noi, riusciamo a vederla in modo meno astratto e più concreto, crudo e triste. Non solo siamo più consapevoli, ma anche più impauriti. Il fatto che la minaccia rappresentata dal Covid-19, che percepivamo come lontana e astratta, sia diventata in così poco tempo così vicina e reale, ci mette nella posizione di pensare “Se è già successo, perché non dovrebbe risuccedere?”. Se qualche anno fa ci risultava facile e rassicurante pensare che i pericoli lontani rimanessero tali, adesso facciamo più fatica a farlo; resta difficile non pensare, anche solo per pochi istanti, che il conflitto possa degenerare ulteriormente, allargandosi al resto d’Europa o del mondo. Si è portati a pensare che quello che un tempo non ci avrebbe colpito, adesso può farlo, da un giorno all’altro, quasi con un sentimento di catastrofe imminente. Una minore distanza psicologica infatti ci fa percepire quello che sta accadendo con maggiore immedesimazione all’interno degli eventi e non come dei freddi, cinici calcolatori come lo siamo stati per altri eventi localizzati in aree lontane del globo. L’emergere intenso di sentimenti di impotenza, terrore, rassegnazione sono ancora troppo vividi nella nostra mente per permetterci di distaccarsi psicologicamente, quindi fare un passo indietro dagli eventi e sentirci spettatori esterni: tutt’altro, ne siamo attori.

Distanza psicologica e percezione del rischio come strumenti per un cambiamento

Non tutto il male viene per nuocere. Una minore distanza psicologica ci permette di sentire quello che sta accadendo in modo più immersivo e immediato, questa dimensione più interna agli eventi può essere un punto di forza se ne abbiamo consapevolezza. Siamo meno portati a pensare che quello che vediamo in tv sia un mero prodotto di cronaca, destinato a rimanere relegato in quello schermo luminoso. Siamo diventati tutti più consapevoli del fatto che quello che sentiamo come notizia, avviene realmente. Sembra scontato, ma è un concetto chiave, una svolta epocale. Nell’era digitale, in cui l’uomo passa più tempo guardando uno schermo che assaporando l’agrodolce sapore della realtà, si perde la capacità di distinguere in modo chiaro la differenza tra realtà e finzione. Possiamo fare un esempio con il cambiamento climatico e la diversa percezione che di esso hanno giovani ed anziani: da una parte gli anziani che, più abituati da sempre a stare a contatto con la natura hanno una percezione rigogliosa e sana di essa, generata dai ricordi visivi evocati dal lontano passato, che portano impressi nella loro mente. Dall’altra ci sono i giovani che, non abituati al contatto con la natura e maggiormente esposti alle notizie sul cambiamento climatico, tendono a rappresentarla mentalmente come la vedono nelle immagini che le notizie sul cambiamento climatico gli propongono. Dove sta la verità? Come spesso accade, sta nel mezzo: la natura, soprattutto alle nostre latitudini è ancora in parte rigogliosa e bella come un tempo, ma inizia a risentire di quegli effetti dannosi che stanno, in modo sempre più drastico, colpendo i paesi da cui le notizie che i giovani vedono provengono. Tornando al concetto di percezione del rischio e distanza psicologica, è importante che questi costrutti cognitivi siano congrui con quello che sta succedendo e con la reale entità dei vari rischi. Non dobbiamo più vivere nella bolla in cui vivevamo prima, nella quale avevamo la percezione che niente avrebbe potuto minacciare il nostro mondo, ma nemmeno sprofondare in un senso di disperazione, presi dal terrore che tutto ciò che viviamo possa colpire anche noi, all’improvviso. La ridotta distanza psicologica ci deve servire a percepire gli eventi che colpiscono il resto del mondo in modo più vicino e meno astratto e alla luce di questo, comprenderli più profondamente, viverli con maggiore consapevolezza ed empatia. Questo può spingerci ad intraprendere azioni concrete per contrastare gli eventi negativi, aiutare chi ne viene colpito e lavorare per costruire un futuro diverso. Questo vale per le guerre, ma anche per il cambiamento climatico ed i suoi effetti (Innocenti et al., 2021). Gli addetti al settore, gestendo le risposte psicologiche agli eventi, non devono cercare di ridurre la distanza psicologica, bensì stimolare le risposte comportamentali di tipo adattativo che da essa possono essere generate, cercando, di concerto, di fornire gli strumenti adatti a gestirne le conseguenze e controllando che non diventino tali da determinare psicopatologia.

 

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