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L’ombra dell’oggetto tra lutto e depressione

Per distinguere gli eventi psichici della depressione e del lutto si può considerare come elemento discriminante il vissuto autosvalutante e autopunitivo

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 31 Mar. 2022

In molti casi il vissuto doloroso del lutto può essere sovrapposto a quello della depressione: in ambedue gli aspetti troviamo la perdita di un oggetto amato, il dolore conseguente a tale perdita e l’impossibilità di rassegnarsi alla stessa, con un conseguente attaccamento all’oggetto che viene rimpianto, evocato, considerato ancora in vita. 

Aspetti emotivi a confronto

Secondo il modello freudiano, l’eziopatogenesi della depressione prevede la compresenza imprescindibile di tre elementi: aggressività verso l’oggetto perduto, regressione ad uno stato narcisistico, percezione simbiotica e indifferenziata tra il Sé e l’oggetto. Tutto questo rende il melanconico incapace di disinvestire, e dunque di differenziarsi, dall’oggetto perduto. Da qui il vissuto di dolore insanabile e senza oggetto, tipico della depressione e del lutto patologico.

Tra lutto e depressione: connotati patologici

Il lutto sottende una dimensione di perdita, di privazione, di scomparsa definitiva di un oggetto affettivamente rilevante, da cui si origina un vissuto di dolore intenso e pervasivo. Una morte, una separazione, un distacco improvviso, ma anche la fine di un rapporto affettivo, di una situazione lavorativa stabile, il termine di un’unione matrimoniale, possono proiettare in una dimensione di sofferenza tale da modificare il rapporto col Sé individuale e relazionale.

In molti casi il vissuto doloroso del lutto può essere sovrapposto a quello della depressione: in ambedue gli aspetti troviamo infatti la perdita di un oggetto amato, il dolore conseguente a tale perdita e l’impossibilità di rassegnarsi alla stessa, con un conseguente attaccamento all’oggetto che viene rimpianto, evocato, considerato ancora in vita.

Sarebbe tuttavia erroneo ipotizzare una parificazione tra depressione e lutto ipso dicto. Sebbene le conseguenze psicologiche dei due eventi possano mostrarsi per molti aspetti analoghe, la psicologia clinica si è premurata in più di un’occasione di stabilire le differenze tra queste due condizioni, delle quali l’una si fa portatrice di una componente patologica e non transitoria assente nell’altra.

Anche la psicodinamica si è orientata in tal senso, cercando di distinguere gli eventi psichici della depressione e del lutto a partire da un fondamentale elemento discriminante, identificabile nella presenza di un vissuto autosvalutante e autopunitivo (Freud, 1917). Il senso di odio e di misconoscimento della propria natura, fino al desiderio di negazione e distruzione della stessa, non compare infatti nella dimensione di lutto, in cui a predominare sono il dolore, la nostalgia e il rimpianto specificamente scaturiti dalla perdita dell’oggetto.

In particolare, il vissuto di autocolpevolezza presente nella depressione trova origine nell’identificazione che il melanconico effettua tra il Sé  e l’oggetto perduto, al fine specifico di mantenere con lo stesso un legame affettivo. Inoltre, se nel lutto il percetto emotivo dominante consiste in un dolore nostalgico e in una contrizione per la perdita, nella melanconia l’oggetto perduto diviene meta di una pulsione aggressiva derivata dal dolore per l’abbandono subito.

Al contrario di quanto avviene nel lutto, l’oggetto perduto viene odiato, più che rimpianto.

Ma la necessità di mantenere inalterato il legame affettivo è così fondamentale per il melanconico, da spingerlo ad introdurre l’oggetto abbandonico nella propria dimensione egoica, in una sorta di meccanismo introiettivo-identificativo che testimonia altresì la presenza di bisogni orali inappagati.

Lo stesso Abraham (1916) osserva come nell’inconscio del depresso vi sia una tendenza a divorare avidamente l’oggetto, proprio a causa di una correlazione tra oralità e vissuto depressivo.

L’oggetto abbandonato viene introiettato in una pulsione identificativa che risulta talmente forte da annullare ogni possibilità di distanza, di differenziazione, di separatezza: l’oggetto è me, ed io sono l’oggetto. In conseguenza di ciò, è verso il Sé che il depresso dirige i vissuti di risentimento e odio punitivo prima destinati all’oggetto. L’odio rivolto verso l’oggetto abbandonico, diviene così odio verso il Sé (Freud, 1917).

Il melanconico si sente privato della propria dimensione esistenziale, spogliato di pulsioni e sentimenti, senza tuttavia conoscerne il reale motivo. Al contrario, nel lutto la ragione della sofferenza è ben nota, essendo relativa alla perdita definitiva dell’oggetto.

Anche i riferimenti spazio-temporali si mostrano differenti: il soggetto che soffre a causa di un lutto sa esattamente quando e perché il suo dolore è cominciato, mentre il depresso si muove in una dimensione di sofferenza vaga e inconsapevole, per quanto assoluta. E questa impossibilità di dare un nome e una causa al proprio dolore, contribuisce a renderlo ancora più penoso e incomprensibile.

Infine, mentre la pena del depresso appare infinita e dilagante, quella del lutto non preclude la possibilità di un termine.

Obiettivo del lavoro del lutto, secondo Lagache (1938) è proprio quello di “uccidere la morte”, spezzando il legame con l’oggetto perduto e consentendo una nuova fase esistenziale per colui che è rimasto in vita: questo potrà essere possibile solo se, con l’elaborazione della perdita, si opera l’uccisione della morte intesa come fine della pulsione di vita e identificazione con l’oggetto.

Il nucleo dell’elaborazione del dolore sta proprio in questo aspetto. Di fronte alla perdita dell’oggetto, tanto nel lutto che nella depressione, l’Io si trova combattuto in un intenso dilemma esistenziale: se lasciarsi convincere dalle gratificazioni egoiche che lo spingono a restare in vita, e quindi a disinvestire e a deidealizzare l’oggetto, o se al contrario scegliere di mantenere con esso il legame simbiotico, condividendone in toto il destino, compreso quello di morte. Il lavoro del lutto è dunque un “lavoro di liberazione: esso termina allorché non v’è più alcuna confusione tra il morto e il sopravvissuto” (Lagache, 1956, p. 74).

Nella depressione, al contrario, il dolore per la perdita dell’oggetto sfugge ad ogni collocazione specificante, ad ogni possibilità di confinamento o attenuazione. Così come ne è sconosciuto l’inizio, è impossibile vederne la fine. Ed è lo stesso malinconico a difendersi dalla possibilità di intraprendere una dimensione vitale senza la presenza dell’oggetto perduto. Il dolore è definitivo, senza uscita e del tutto egosintonico. Il depresso non accetterebbe di vivere in nessun altro modo.

I tratti narcisisitici della depressione: l’illusione simbiotica e il mancato disinvestimento pulsionale

Per impedire al lutto di degenerare in una condizione depressiva patologica risulta fondamentale disinvestire la pulsione affettiva verso l’oggetto perduto e dirigerla verso legami oggettuali differenti. Tale capacità di de-investimento e re-investimento nella depressione appare deficitaria: l’IO del melanconico non riesce a modificare la meta della propria pulsione, che rimane fissa all’oggetto perduto pur dopo la scomparsa della stesso.

Questa ostinazione di relazione preclude la possibilità di un investimento alternativo: incapace di creare nuovi legami affettivi, la dimensione egoica del depresso preferisce introiettare l’oggetto perduto e identificarsi con esso, in una sorta di identificazione introiettiva (Freud, 1914). Viene dunque replicato il narcisismo primario tipico dell’infanzia, in cui tutta l’energia emotiva è identificabile nella libido egoica e l’unico investimento emotivo possibile è quello rivolto al Sè (Freud, 1914).

Il narcisista rifugge i legami oggettuali, evita qualsiasi tipo di relazione e di dipendenza affettiva. Esattamente come il bambino nelle prime fasi di vita, egli non riesce a compiere un passo verso il mondo esterno, ad uscire da un egocentrismo indifferenziante e a trattare l’oggetto come altro da Sé. Il suo mondo psichico è tutto costruito sulla base di un autoriferimento che, se da una parte lo persuade di una condizione di onnipotenza, dall’altro lo rende inconsciamente fragile e vulnerabile, perché incapace di differenziarsi dall’oggetto cui si sente simbioticamente legato (Ogden, 2007).

Si veda come la componente narcisistico-simbiotica svolge un ruolo importante nella patogenesi della depressione. È anzi possibile affermare che, in assenza di un narcisismo primario, la depressione non potrebbe avere luogo, in quanto è proprio l’incapacità di svincolarsi dal legame simbiotico con l’oggetto perduto a comportare il ritiro pulsionale tipico del lutto complicato e della melanconia (Freud, 1914; 1917).

Un ulteriore tratto condiviso dal narcisista e dal depresso è il profondo vissuto di rabbia sperimentato verso l’oggetto abbandonico, da cui entrambi si sentono profondamente traditi. Lo stesso Freud si sofferma sull’ambivalenza della melanconia, espressa con un vissuto affettivo che vede la compresenza tra forti elementi autosvalutanti e un dolore narcisistico legato alla sofferenza del Sé: “essi si comportano come se fossero stati offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia” (Freud, 1915, p. 108). Quindi, per quanto il depresso disprezzi se stesso, la sua rabbia è in realtà rivolta verso un oggetto affettivo che, abbandonandolo, lo ha ferito irrimediabilmente.

L’odio verso l’oggetto abbandonico è figlio di una dimensione egoica fragile e non coesa, che non è capace di tollerare la separazione, esattamente come accade nel narcisismo primario (Ogden, 2007). E tuttavia ecco l’elemento discriminante: l’abbandono che nel narcisista viene negato dà un senso di onnipotenza distruttiva, nel depresso si tramuta in una realtà inaccettabile.

Il ruolo del legame simbiotico nell’identificazione con l’oggetto perduto

La rabbia verso l’oggetto perduto risveglia nel depresso angosce pregenitali dovute ad un mancato completamento del processo di differenziazione – collocabile nella fase preedipica- e alla regressione verso una fase orale in cui il bisogno introiettivo si mostra vitale (Abraham, 1924).

Il depresso sa di non poter sopravvivere senza l’oggetto primario che percepisce come una parte indistinta di Sé, e nel momento in cui se ne sente privato, l’angoscia per l’abbandono subito si tramuta in un terrore di morte, un’angoscia psicotica simile a quella sperimentata dai bambini nelle prime fasi della vita (Mahler, 1968). Amputato letteralmente di una parte di se stesso, e in preda ad uno stato di vulnerabilità insanabile, il depresso non può che tramutare in rabbia il dolore per l’abbandono subito, e dunque odiare prima l’oggetto abbandonico, e poi il Sé che con esso si identifica.

Dire che nella depressione manca un processo di differenziazione primaria significa affermare che il melanconico non rimpiange l’oggetto perduto, ma il Sé senza l’oggetto nel quale aveva narcisisticamente investito. L’altro, dunque, non è che un oggetto- Sé. Un riflesso egocentrico privo di una propria soggettività.

Riconoscere l’alterità dell’oggetto rappresenta anche la capacità di dar vita ad un amore oggettuale più maturo, che ha superato la fase orale ed è capace di condotte accuditive e premurose verso l’altro, del quale riconosce la diversità. Questa maturità affettiva, assente nel depresso come nel narcisista, in entrambi viene sostituita da una condizione patologica di non accettazione dell’alterità, unita ad una non tolleranza dell’abbandono, visto come un attentato alla sopravvivenza del Sé.

Il dolore del depresso come oggetto non trasformativo

Nella dimensione della melanconia si riscontra un vuoto emotivo, una ferita narcisistica inguaribile, laddove nel lutto il dolore è contingente alla perdita e dunque gradualmente risolvibile. A determinare questa differente direzione psicologica è la capacità del soggetto di mostrarsi tollerante e rielaborativo verso una perdita affettiva, grazie a strumenti difensivi più evoluti, ad una dimensione egoica maggiormente coesa e ad una relazionalità affettiva più stabile e differenziata.

Il soggetto che ha superato funzionalmente la fase preedipica, ha costruito la certezza di un oggetto affettivo stabile perché definitivamente introiettato. Al contempo ha consolidato la capacità di tollerare la separazione e il dolore per la perdita, tramutando lo stato luttuoso in una dimensione non distruttiva, ma generativa di una nuova matrice relazionale. La base per nuovi investimenti affettivi.

Questa capacità trasformativa, intesa come possibilità di modificare in senso evolutivo una situazione di perdita, nella depressione si trasforma in un elemento persecutorio incistante e autodistruttivo (Bollas, 1987) ove l’omeostasi non si mostra foriera di stabilità equilibrante, ma di stasi distruttiva.

In questa dimensione di non evoluzione e non progresso, il rapporto simbiotico con l’oggetto affettivo si è chiaramente perpetrato, dando vita ad un terrore di separazione in cui la perdita è intollerabile perché definitiva e distruttiva del Sè.

Non c’è possibilità né volontà di mutamento, nella sofferenza del depresso: soltanto un’impietosa fissità, un abbraccio mortifero che non ambisce alla salvezza, ma che al contrario la rifugge pervicacemente. L’imperativo egoico è volto ad impedire qualsiasi forma di vita in assenza dell’oggetto perduto.

Dunque il discrimen tra lutto e depressione risiede tutto in questo dilemma decisionale: se seguire Eros verso la costruzione di un nuovo vissuto vitale su cui investire la pulsione affettiva, o se al contrario assecondare il vulnus pietrificante ispirato da Tanatos, accettando l’asservimento ad un dolore carceriere che impedisce l’evoluzione, il mutamento adattivo, il replicarsi generativo di nuovi investimenti pulsionali, fino ad comportare, talvolta, la distruzione totale.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Abraham, K. (1916) The first pregenital stage of the Libido, in Selected Papers of Psychoanalysis, New York, Basic Books, 1960, pp. 248-279;
  • Abraham, K. (1924) Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici, in Opere, Bollati Boringhieri, vol. 1, pp. 258-285, Torino, 1985;
  • Bollas, C. (1987)  L’ombra dell’oggetto, Raffello Cortina Editore, Milano;
  • Freud, S. (1915), Introduzione alla psicoanalisi, in OSF, vol. 8, Bollati Boringhieri;
  • Freud, S. (1914) Introduzione al narcisismo, in OSF, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Freud, S. (1917), Lutto e Melanconia, Metapsicologia, in OSF, Vol. 8, Bollati Boringhieri;
  • Khout, S. (1971) Narcisismo e analisi del Sé, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Lagache, D. (1938), Le travail de deuil. Ethnologie et psychanalyse, Rev. F. Psychanal. Vol. 10, pp. 693-708;
  • Lagache, D. (1956), Deuil pathologique, La Psychanal. N. 6, p. 5-54;
  • Mahler, (1968) La nascita psicologica del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1978;
  • Ogden, T.H. (2007) L’arte della psiconanalisi. Sognare sogni non sognati, Raffaello Cortina, Milano.
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