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È stata la mano di Dio, il cinema come terapia all’abbandono – Recensione

È stata la mano di Dio racconta con chiarezza i due tempi nella vita del protagonista: quello della spensieratezza e quello della maturità dopo il lutto

Di Elisa Scaringi

Pubblicato il 08 Feb. 2022

Dopo aver attinto con generosità alla sua biografia, tanto che anche il palazzo dove ha trascorso l’infanzia è esattamente lo stesso, Paolo Sorrentino, con il suo ultimo lavoro È stata la mano di Dio, ci propone un viaggio disincantato e scarno intorno al tema dell’abbandono.

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Rimasto orfano a sedici anni, dopo un incidente nella casa di montagna dove i genitori rimasero avvelenati da una fuga di monossido di carbonio, il regista affida allo sguardo del suo protagonista (Fabio Schisa) la responsabilità di raccontare un dolore insuperabile, attraverso silenzi malinconici e rumori evocativi. Non c’è però autocommiserazione. Anzi, nelle diverse personalità dei tre fratelli vengono messe in luce tutte le possibili sfaccettature che può assumere una perdita: la sorella si nasconde in bagno, il fratello non vuole rinunciare alla giovinezza, Fabio decide di sentirsene responsabile. Così, nel tentativo di rispondere con coraggio alla chiamata nell’età adulta, scappa a Roma per realizzare il sogno del cinema.

Sembra fuggire dal dolore, da una città che lo ha salvato e tradito allo stesso tempo, da un fallimento insuperabile, ma si propone comunque di dire qualcosa, di non tacere su quanto ha visto, perché guardare è l’unica cosa che sa fare. Ragazzo di poche parole, casalingo e affezionatissimo alla famiglia, decide di esprimersi attraverso le trame del cinema. Proprio come Sorrentino: in una intervista a Giovanni Minoli lo disse chiaramente di essere pigro e solitario, legato alla famiglia nonostante il successo e l’Oscar vinto con La grande bellezza.

Sebbene l’autobiografia rappresenti soltanto uno spunto per montare l’intreccio, la pellicola segna con nitidezza i due tempi nell’esistenza del giovane protagonista: quello della spensieratezza in famiglia, fatta di lunghi pranzi goduriosi e le partite del Napoli viste sul balcone, e quello della maturità dopo la perdita, quando la solitudine prende il sopravvento e i ricordi sembrano tormentare gli animi già provati. Anche visivamente si percepisce il divario tra la pienezza della vita vissuta insieme, il massimo della gioia, e lo smarrimento causato dalla perdita, il massimo del dolore.

È stata la mano di Dio è un film profondamente italiano: un omaggio a Napoli, alle origini, alle storie intime e private che possono fare la differenza. «Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città». Un atto di fede verso la vita che deve continuare, nonostante i lutti e le perdite; ma anche una sorta di ringraziamento al ‘divino’: Maradona che arriva al Napoli, i suoi che gli permettono di non partire per vederlo, il caso o la provvidenza che lo salvano dalla morte. La storia è quindi quella di un miracolato che sente il desiderio impellente di incanalare il flusso dei sentimenti verso una forma di comunicazione che gli sia congeniale, non troppo personale e sicuramente creativa. La sua famiglia si è disintegrata: vuole a tutti i costi ricostruirsi una vita immaginaria, uguale a quella di prima.

Sorrentino, dopo vent’anni dal primo film, mette la sua carne a cuocere: si sente pronto a raccontare qualcosa di sé in maniera esplicita, attraverso uno stile che conferma il suo lento procedere nelle trame dei desideri umani. Nella storia racconta tutto quello che fa di un’adolescenza il salto verso l’età adulta: le delusioni negli affetti quando la famiglia affronta una crisi, il senso di abbandono, la malinconia per un tempo che corre veloce, la fascinazione di figure irraggiungibili come la zia bellissima e fragilissima, la scoperta ingenua del sesso con la baronessa del piano di sopra, il desiderio dell’avventura. Al centro, il manifesto di una dichiarazione d’amore ai genitori perduti, accusati apparentemente di aver provocato la sua solitudine, ma in realtà i veri artefici di una dote che pian piano è esplosa.

È stata la mano di Dio segna la maturità di un regista all’apice della sua carriera: un testamento nel quale raccontare le origini di un talento nemmeno tanto cercato, più una via di fuga da una realtà scadente che un sogno coltivato a lungo. Figlio di un banchiere e di una casalinga, con il walkman sempre addosso, confessa di aver visto pochissimi film; ma non per questo si sente meno attratto da un mondo a cui deve la sua rinascita da orfano. Di fronte a un lutto insuperabile decide di non stare fermo: un pigro, iperattivo della mente, affida alla fantasia il compito di tirarlo fuori dalla realtà, deludente e insopportabile, per trascinarlo nelle visioni oniriche di Federico Fellini, di cui Sorrentino è l’erede naturale. E seguendo le orme di Capuano, il maestro degli inizi, riuscirà poi nell’intento di non disunirsi: fare cinema diventa la terapia, il luogo dell’espressione intima, il mezzo con cui guarire la malinconia.

Quindi forse l’unica scelta che abbiamo è decidere che cosa fare quando qualcuno di caro muore. Morire con lui, vivere una vita mutilata. Oppure forgiare, sul dolore e sui ricordi, nuovi adattamenti. Col lutto prendiamo coscienza del dolore, lo sentiamo, sopravviviamo a esso. Col lutto abbandoniamo i defunti e li introiettiamo, col lutto accettiamo i cambiamenti difficili che la perdita deve apportare – e così cominciamo a porre fine al lutto.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Viorst Judith (2004). Distacchi. Sperling & Kupfer.
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