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Impazzire può essere una risposta alla realtà? – Recensione dei due libri di Benjamín Labatut ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ e ‘La pietra della follia’

Benjamin Labatut ci offre una visione lungimirante di quel che potrebbe attenderci se solo lasciassimo spazio al genio irrazionale e a volte incomprensibile

Di Elisa Scaringi

Pubblicato il 15 Feb. 2022

Benjamin Labatut nei suoi libri tenta quasi di riappacificare il mondo, soprattutto quello istituzionale e potente, con la forza dirompente di menti geniali che non sono state capaci di comunicare, o hanno preferito non farlo per paura di venirne sopraffatti.

 

C’è un momento nella storia passata in cui l’uomo ha smesso di capire il mondo? Per Benjamín Labatut accade con l’interpretazione di Copenaghen, quando la meccanica quantistica si accorge di essere «una teoria chiusa, i cui presupposti fisici e matematici non sono più suscettibili di modifiche» (Labatut, 2021a), incapace di studiare il mondo reale che la circonda. È il 1927, ma Heisenberg e Bohr danno già la loro versione della scienza contemporanea: «La realtà, dissero ai presenti, non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un oggetto quantistico non ha proprietà intrinseche. Un elettrone non si trova in nessun luogo finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare. Esiste in modo determinato solo quando viene rilevato da un determinato strumento. Tra una misurazione e l’altra non ha alcun senso chiedersi come si muove, cos’è o dove si trova. Come la luna per il buddhismo, una particella non esiste: è l’atto della misurazione a trasformarla in un oggetto reale» (Labatut, 2021a).

‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ di Benjamín Labatut

Uscito in Cile nel 2019 col titolo originale di Un verdor terrible, Quando abbiamo smesso di capire il mondo è arrivato in Italia nel pieno della pandemia. Anche solo guardando la copertina Adelphi sembra che il libro voglia essere profetico: quella macchia di blu di Prussia, da cui ha inizio la narrazione, ricorda lontanamente la forma che assume il virus letale e pericolosissimo nella serie tv danese The rain, che diffonde morte e oscurità in un mondo che sta morendo. Anche lì, sebbene il contagio sia partito dalla pioggia, la malattia allontana gli umani, rendendoli sospettosi e incapaci di toccarsi come prima, sullo sfondo di una terra che piano paino volge all’oscurità.

Labatut ci offre una visione lungimirante di quello che potrebbe attenderci se solo lasciassimo spazio al genio irrazionale, e a volte incomprensibile, che abbiamo deciso di soffocare. Lo dimostrano tutte le storie che si intrecciano in un testo che non possiamo chiamare né romanzo né saggio, dalle trame di scienziati incalliti alla genealogia di colori inaspettati. Il blu di Prussia, quello che compare «nella Notte stellata di Van Gogh e nelle acque della Grande onda di Kanagawa di Hokusai», porta nella sua struttura chimica «la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche» (Labatut, 2021a). Il verde smeraldo, il colore preferito da Napoleone, con cui si tingono giocattoli e dolciumi nell’Europa di fine Settecento, è in realtà il composto del cianuro: il cosiddetto «acido prussico», che significa «fegato spappolato, il corpo ricoperto dalla testa ai piedi di vesciche purulente, e paralizzato per l’accumulo di liquido nelle articolazioni» (Labatut, 2021a). Colori che sono bellissimi, ma terribili allo stesso tempo, per la loro nascita fatta di casualità e morte. Come il carminio, «che si ottiene triturando milioni di esemplari femmina di cocciniglia» (Labatut, 2021a), o il «nero d’ossa», ottenuto dai «crani di trenta milioni di bisonti massacrati nelle praterie americane» (Labatut, 2021a), triturati nelle fabbriche americane che producono fertilizzanti.

I colori non sono altro che il preludio al racconto di vite complicate, di uomini in cerca di approvazione, succubi di una società che spesso ne ha strumentalizzato le scoperte. Come l’azoto, che non serve più per «nutrire le masse affamate, ma per fornire alla Germania la materia prima di cui aveva bisogno per continuare a fabbricare esplosivi e polvere da sparo durante la prima guerra mondiale» (Labatut, 2021a).

Il matematico Grothendieck, invece, si ritira «per proteggere tutti quanti. Nessuno doveva soffrire per colpa delle sue scoperte, ma si rifiutò di spiegare cosa intendesse quando parlava de «l’ombre d’une nouvelle horreur» (Labatut, 2021a). Tutto parla di una ossessione che consuma irrimediabilmente, una scoperta che contraddice il senso comune. Oppenheimer scrive: «non prendetemi troppo sul serio. Io mostro un mondo che non è quello che voi avete in mente quando mi usate» (Labatut, 2021a). Mentre «Schrodinger sapeva che era la scoperta cui aspirava da tutta la vita, ma non aveva idea di come spiegarla. Per ricavare la sua equazione non parte da nessuna formula. Non si era basato su nulla di conosciuto. L’equazione stessa era un principio, e la sua mente l’aveva tratta dal nulla» (Labatut, 2021a).

‘La pietra della follia’ di Benjamín Labatut

Diversamente da quanto accaduto con la profezia di David Quammen sul coronavirus contenuta in Spillover del 2014, il terzo libro di Labatut racconta il mondo di oggi facendo riferimento al recente passato di una scienza sempre più distaccata dalla realtà circostante. «Alla domanda sul perché il nostro mondo sia diventato tanto incomprensibile ci sono risposte ovvie: quando i sistemi sono interconnessi, la loro complessità aumenta e si manifestano fenomeni nuovi, che non era possibile prefigurarsi poiché sono originati da un’interazione, così come la nostra mente e le nostre percezioni. La miriade di connessioni tra aspetti dell’esperienza umana che un tempo erano isolati può portare a un catastrofico fallimento della nostra capacità di comprensione. Ma questa è solo una risposta parziale; qualsiasi sistema nel quale senza sosta viene immessa energia comincia a comportarsi in modo sempre più turbolento. La sua evoluzione diventa imprevedibile. In una parola, è il caos» (Labatut, 2021b).

Lo spiega benissimo ne La pietra della follia, un librettino di appena sessanta pagine, uscito nel 2021 come appendice al successo di pubblico del libro precedente: «Il fallimento della nostra capacità di raccontare su vasta scala cosa significhi vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo e la perdita del dono divino della narrazione, quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola, cogliere il senso di ciò che ci circonda e adottare una storia comune, sono senz’altro le cause del nostro attuale stato di confusione e smarrimento. Ma io sospetto che ci sia dell’altro. Non disponiamo di storie per spiegare noi stessi perché siamo lanciati in corsa, sganciati dal passato e da salde previsioni sul futuro, apparentemente liberi da ogni vincolo, ma fondamentalmente persi. Soggiogati dalla velocità, ci siamo trasformati in alcioni, in martin pescatori che s’immergono a occhi chiusi, storditi dall’impeto dello slancio e accecati dall’impatto con l’acqua» (2021b).

Ne abbiamo avuto una dimostrazione con la pandemia: impauriti dagli accadimenti, abbiamo deciso di buttarci nel futuro. Ma così, solo per fare una nuotata in un mondo che sarebbe potuto essere diverso. Niente più smog e inquinamento, vita sana immersa nella natura, gli animali di nuovo liberi di girare sulla terra, zero spreco alimentare, un cambiamento climatico che accenna qualche passo. Poi ci siamo stancati. Abbiamo finito la vasca col fiatone. E non ci è piaciuto, arenati alla domanda: «ci innalzeremo verso la luce o ci rintaneremo nella caverna delle nostre paure?» (2021b).

Lo ha espresso bene Baricco: «Non so perché, e non mi interessa saperlo, ma, credetemi, sono passati cinque anni in uno. Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno. Dunque, vorrei avvertirvi, siamo nel 2025. Se detta così suona come una boiata, la formulo in modo più razionale. Provate a fare questo ragionamento: se non ci fosse stata alcuna pandemia, e fossimo semplicemente andati avanti per la nostra strada, come più o meno pensavamo di fare, dove saremmo arrivati nel 2025? Ho la risposta: nel punto in cui siete adesso» (Baricco, 2021). Dopo di che si è stabilito che «una moderata sventura sembra particolarmente congeniale al tipo più diffuso di intelligenza: quella capace di sofferenza, ostinata nel passo, paziente più che fantasiosa, sostanzialmente conservativa. Poiché le riesce più facile percepire il mondo quando il mondo procede a una velocità misurata, lo rallenta; poiché in generale le è più congeniale il gioco di difesa, dà il meglio in presenza di nemici e catastrofi incombenti; poiché in generale non ha predisposizione per il gioco d’attacco, teme il futuro» (Baricco, 2019).

Eppure già Erasmo da Rotterdam lo scrisse: «Propagatrice del genere umano è quella parte così folle e ridicola che non si può neppure nominare senza ridere» (Erasmo Da Rotterdam, 2018). Di fronte al caos generato dalla miriade di connessioni e percezioni a cui la nostra mente e il nostro corpo sono sottoposti ogni giorno, la rottura è inevitabile e brutale. Come nella scienza. «La fisica non doveva più preoccuparsi della realtà, ma di ciò che si può dire della realtà. L’essenza degli atomi e delle loro particelle elementari era diversa da quella degli oggetti dell’esperienza quotidiana. Vivono in un mondo di potenzialità, spiegò Heisenberg: non sono cose, ma possibilità. La transizione dal ‘possibile’ al ‘reale’ avveniva solo durante l’atto dell’osservazione o della misurazione. Nessuna realtà quantistica, dunque, esisteva in maniera indipendente. Misurato come un’onda, un elettrone sarebbe apparso tale; misurato come una particella, avrebbe assunto quest’altra forma» (2021a).

Per questo Labatut racconta il mondo di oggi senza accennare in alcun modo a fatti contemporanei: la scienza è in rottura con il reale; eppure soltanto attraverso la genialità di menti ai bordi della vita sociale, il caos che ci circonda potrà tentare di farsi comprendere dall’uomo. Riprendendo il dipinto Estrazione della pietra della follia, datato 1494, lo scrittore cileno arriva al cuore della sua indagine: «il caos suggerisce che ci sia qualcosa nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione, qualcosa che non riusciamo a vedere, per quanto ci sforziamo di guardare lontano nel futuro e per potente che sia la nostra vista» (2021b). Esortandoci a riprendere in mano la nostra attitudine all’intuizione immaginifica, ci avverte: «in queste faccende, non c’è modo di sapere chi sia il chirurgo, chi il frate, chi il paziente, chi la monaca, e chi di noi rechi in sé la pietra della follia» (2021b). Nell’enigmatico dipinto di Hieronymus Bosch si mette in scena la pratica rinascimentale di incisione del cranio per asportare la cosiddetta ‘pietra della follia’, ritenuta come la causa della malattia mentale.

«I personaggi che assistono all’operazione, oltre al medico e al paziente, sono una monaca con un tomo di medicina in bilico sulla testa e un prete con in mano una brocca argentea. Sullo sfondo campeggia il placido paesaggio neerlandese, con i suoi minuti elementi resi in modo certosino: i villaggi con i campanili che svettano, gli alberelli, i cespugli, i fili d’erba disegnati uno alla volta e alcuni dettagli a dir poco inquietanti: una ruota di tortura e una forca. L’iscrizione dorata che corre intorno alla scena recita: Meester snyt die Keye ras / Myne name is lubbert das, ovvero: ‘Maestro cava fuori le pietre, il mio nome è bassotto castrato’. I dettagli inquietanti, insieme all’iscrizione, indicano abbastanza chiaramente come sia da intendere questa rappresentazione. Il medico, che qui è trattato come un ciarlatano dal momento che l’imbuto della sapienza è capovolto e usato come un berretto di latta sul suo capo, è riuscito a ingannare un povero ingenuo (il ‘bassotto castrato’) che, legato alla sedia, si è sottoposto alle sue feroci cure. La pietra della follia, che è possibile identificare con un osteoma, è qui sostituita da un innocuo fiorellino che spunta dal capo del vecchio paziente. La monaca che assiste alla scena, e che ha la posa tipica di un personaggio che sta riflettendo, potrebbe essere intenta a scrutare l’inadeguatezza del medico o l’ingenuità del sempliciotto che si è fatto abbindolare. Il prete invece, rivolge la mano in segno di rimprovero. Ma non è molto chiaro se il gesto sia indirizzato al medico o al paziente» (Del Riccio, 2016).

L’intento di Labatut non è altro che questo: provare a capire qual è il confine tra inadeguatezza e ingenuità nel momento in cui lo scienziato, che viene a contatto, anche inaspettatamente, con l’evento scatenante della propria genialità, si trova spaesato di fronte a un mondo incapace di comprendere. «Sono proprio questi cambiamenti – provocati da differenze microscopiche che nessun essere umano potrebbe prevedere o monitorare, poiché solo l’immensa potenza di un computer è in grado di tracciare l’evoluzione di sistemi così intricati – a determinare il caos» (Labatut, 2021b).

Conclusioni

Così, definita dall’esterno come follia, questa attitudine a scorgere le trame nascoste della realtà ha portato molti a isolarsi dal mondo, eclissandosi in una realtà dimessa e lontana dalle luci di un successo impossibile. «Nel corso della vita non c’è altro che il saliscendi delle forme materiali e mentali, mentre la realtà insondabile permane. Dentro ogni creatura dorme un’intelligenza infinita, sconosciuta e occulta, ma destinata a svegliarsi, a strappare la rete inconsistente della mente sensibile, a rompere la sua crisalide di carne e a conquistare il tempo e lo spazio» (Labatut, 2021a).

Erasmo da Rotterdam, parlando per bocca della follia, lo confessò: «Davvero ingrati questi uomini! Essi sono i miei più fedeli seguaci, ma in pubblico si vergognano del mio nome, che lo rinfacciano agli altri indifferentemente, come se fosse un’ingiuria». Labatut tenta quasi di riappacificare il mondo, soprattutto quello istituzionale e potente, con la forza dirompente di menti geniali che non sono state capaci di comunicare, o hanno preferito non farlo per paura di venirne sopraffatti. Heisenberg afferma che «ogni nuovo progresso nei calcoli lo allontanava un po’ di più dal mondo reale» (Labatut, 2021a).

Stando a Labatut, «più che in qualsiasi altro luogo, oggi viviamo nella realtà di Dick: un incubo collettivo e paranoico nel quale non possiamo mai essere davvero sicuri di ciò che sentiamo, ascoltiamo, diciamo e addirittura pensiamo. Non abbiamo più accesso al reale. La nostra esperienza quotidiana non è meno strana e inconsistente del regno dei quanti, e gli aspetti illusori, simulati e fittizi dell’esistenza sembrano sovrastare la verità e scardinare la sacralità della ragione» (Labatut, 2021b).

Philip K. Dick, infatti, «ci ha mostrato che in certi casi impazzire risulta essere una risposta adeguata alla realtà, che verità e follia potrebbero essere sintomi della stessa malattia, e che il prezzo che paghiamo per la conoscenza è la perdita della nostra capacità di comprensione».

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Baricco Alessandro, Cinque anni in uno, in Il Post, 28 maggio 2021
  • Baricco Alessandro, The game, Torino, Einaudi, 2019
  • Da Rotterdam Erasmo, Elogio della follia, Liberamente, 2018
  • Labatut Benjamín (2021a). Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Milano, Adelphi, 2021
  • Labatut Benjamín (2021b). La pietra della follia, Milano, Adelphi, 2021
  • La pietra della follia, a cura di Eleonora Del Riccio, in «Rivista di psichiatria», vol. 51 (Gennaio-Febbraio 2016), n. 1
 
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