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Diet culture e restrizione cognitiva nei disturbi alimentari

Il diffuso ideale di magrezza è uno dei motivi per cui vivere in una società permeata dalla diet culture, aumenterebbe il rischio di disturbi alimentari

Di Claudia Rossi

Pubblicato il 09 Dic. 2021

Aggiornato il 08 Feb. 2024 14:52

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: che effetti potrebbe avere il diffondersi di tale cultura da un punto di vista cognitivo e fisico?

 

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: avere un fisico magro e muscoloso, riuscire a mantenere una dieta e delle regole alimentari ferree e praticare una rigida attività fisica viene generalmente visto come una dimostrazione di forza e determinazione e, di conseguenza, di valore personale.

Negli ultimi 50 anni, l’ideale di magrezza è andato via via rafforzandosi, come dimostrano alcuni studi che hanno analizzato i dati antropometrici delle modelle apparse sulle copertine di diverse riviste, sia indirizzate ad un pubblico maschile sia femminile: queste analisi hanno dimostrato, infatti, che sia l’indice di massa corporea (calcolato dividendo il peso per il quadrato dell’altezza) sia le circonferenze di vita e fianchi sono andate via via riducendosi dagli anni ’50 in poi.

Diet culture, disturbi alimentari e restrizione alimentare

Questo diffuso ideale di magrezza è uno dei motivi per cui vivere in una società occidentale, contraddistinta dalla diet culture, è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.

In queste patologie, l’attenzione verso il peso e le forme del corpo, alla quantità e alla qualità degli alimenti introdotti viene portata patologicamente all’estremo e diventa tanto importante nella quotidianità dell’individuo, da rappresentare un vero e proprio (se non l’unico) metro di valutazione di sé come persona.

Al fine proprio di controllare il peso e le forme del corpo, all’interno della psicopatologia dei disturbi alimentari, un aspetto diffuso e comune è la restrizione alimentare, che può assumere diverse sfaccettature:

  • controllo su quanto mangiare: restrizione alimentare quantitativa, caratterizzata dalla riduzione dell’introito energetico giornaliero, il quale risulta spesso inferiore rispetto al fabbisogno minimo;
  • controllo su cosa mangiare: restrizione alimentare qualitativa o cognitiva, contraddistinta dall’esclusione di alimenti e gruppi alimentari (frequentemente carboidrati e lipidi);
  • controllo su quando e talvolta dove mangiare: rigidità di orari e luoghi in cui consumare i propri pasti, che si traduce spesso nell’evitare di mangiare in compagnia e nel non consumare pasti cucinati da altre persone.

I potenziali rischi della restrizione quantitativa sono facilmente immaginabili e identificabili: essa può infatti portare a sottopeso, carenze di micro e macronutrienti, scompensi elettrolitici, problemi ossei quali osteopenia e osteoporosi, e amenorrea (scomparsa del ciclo mestruale).

Disturbi alimentare e restrizione cognitiva

Più insidiosa è la restrizione cognitiva, non solo perché ha effetti meno visibili, ma anche perché affonda le proprie radici in quella diet culture, cultura della dieta, tanto diffusa e radicata nella società da rendere difficile accorgersi della presenza di un problema reale.

Prediligere alcuni alimenti (considerati “buoni”, “magri”) rispetto ad altri e riuscire ad eliminarne totalmente alcuni (visti, di contro, come “cattivi” o “ingrassanti”), nonostante inizialmente possa essere visto come una prova di forza, alla lunga finisce per risultare più un obbligo morale che una scelta, e può creare grandi difficoltà nel funzionamento della persona e nella sua capacità di prendere parte alla vita sociale.

Non riuscendo a partecipare agli eventi in cui è presente un qualche “cibo proibito”, chi soffre di un disturbo alimentare finisce per isolarsi sempre di più, limitando ulteriormente gli ambiti in cui misurare il proprio valore come persona e rinforzando l’idea di doversi misurare solo in base al peso, alla dieta e al loro controllo.

In aggiunta a questo effetto relazionale, la restrizione cognitiva aumenta enormemente le preoccupazioni rispetto al peso, alle forme del corpo e al cibo stesso, andando inevitabilmente ad aumentare la sintomatologia del disturbo alimentare stesso.

Inoltre, escludere alcuni alimenti può portare all’aumento del craving, dell’intenso desiderio, di quegli stessi alimenti evitati e con esso della probabilità di avere episodi di abbuffata in cui questi cibi hanno un ruolo di protagonisti.

Affrontare la restrizione cognitiva è, pertanto, estremamente importante nel percorso di cura di un disturbo alimentare, qualunque forma esso assuma.

Disturbi alimentari e psicoterapia

Nella terapia cognitivo comportamentale (CBT) applicata ai disturbi alimentari, il fronteggiare gli “alimenti proibiti” è parte integrante del trattamento: la persona affetta dal disturbo alimentare, affiancata passo passo dal terapeuta, è spronata a compilare una tabella con tutti i cibi tabù, in ordine crescente di difficoltà e paura percepita, e ad affrontarli uno ad uno.

L’esposizione graduale e controllata, contestualmente al percorso della CBT, consente di affrontare le proprie paure, siano esse più focalizzate sul “pericolo” di un aumento di peso o di un episodio di abbuffata, e di riacquistare il controllo della propria alimentazione.

Anche quando le condizioni di salute fanno sì che il recupero del peso sia l’urgenza e la priorità, è importante che la restrizione cognitiva venga affrontata nel momento in cui la persona che combatte contro un disturbo alimentare si sente pronta a farlo: il semplice recupero del peso, infatti, non è sufficiente a far sì che la guarigione sia effettiva e non elimina il rischio che le caratteristiche del disturbo alimentare semplicemente mutino verso un versante ortoressico.

L’ortoressia è, infatti, una forma di disturbo alimentare e in cui la distinzione tra alimenti “buoni” e “cattivi” è più marcata e vi è una vera e propria ossessione per una dieta considerata sana e salutare, con le conseguenze di isolamento sociale e sofferenza individuale che questa rigidità ovviamente porta con sé.

Affrontando la restrizione cognitiva, la persona torna a poter nuovamente scegliere nell’intera gamma degli alimenti, senza più privarsi di alcuni di essi né provare ansia all’idea di trovarsi a doverli mangiare. Questo le permette di vivere con maggiore serenità tutti gli eventi sociali connessi al cibo e tornare a far parte del mondo che la circonda e, di conseguenza, rende possibile l’ampliamento di quei domini di valutazione di sé limitati in origine alla triade peso-corpo-cibo, superando così uno dei nuclei del disturbo alimentare.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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