expand_lessAPRI WIDGET

Catcalling e Victim blaming: inezia o problema?

Il catcalling e il victim blaming sono fenomi che molte donne purtroppo sperimentano, ma cosa spinge le persone a metterli in atto?

Di Sonila Gruda

Pubblicato il 09 Nov. 2021

Victim blaming, catcalling, revenge porn sono termini sempre più noti, grazie al grande uso che ne viene fatto sul web e nella cronaca giornalistica, che descrivono atteggiamenti ancora largamente diffusi, nonostante la società “ufficialmente” si stia impegnando verso la loro condanna.

 

Il victim blaming è l’atteggiamento di chi colpevolizza la vittima ritenendola responsabile o corresponsabile (anche per elementi come abbigliamento e atteggiamento) della violenza subita.

Ma cosa spinge le persone a condannare la vittima, soprattutto se è donna, in caso di stupro?

Il vestiario femminile diviene immediatamente un’arma, una prova del fatto che la donna sia colpevole. Indossare un top o una gonna corta, aver sorriso e scherzato, ma anche esprimere l’intenzione di voler fare la modella, attrice, cantante, scienziata, fino all’uscire di casa senza essere accompagnata da un uomo (il suo) sono tutti elementi in grado di rendere colpevole la donna di “essersela cercata” e di, in fondo, aver desiderato l’aggressione.

Questa associazione fra condotta femminile e colpevolezza è storia antica: il comportamento della donna deve essere grazioso, docile, premuroso, e non mostrare la presenza di “grilli per la testa”.

Deve sorridere, ma non troppo, deve essere gentile, ma non troppo, deve camminare bene, in modo sensuale, ma non troppo e, se la donna dovesse superare questo limite e sconfinare in questo “troppo”, allora starebbe provocando e questo giustificherebbe come normale il fatto che possa subire continuamente catcalling (o peggio).

In presenza di abiti succinti le grida anche troppo tipiche della società saranno: “se l’è cercata” e, in difesa del criminale di turno, “all’uomo parte l’ormone, è istintivo, è la sua natura”. Fino, nei casi opposti, come ad esempio quando la vittima risultasse senza un centimetro di pelle scoperta, pioverebbero frasi come: “è brutta, deve ringraziare il Dio che c’è chi la guarda e la desidera”.

Nel 2018 nacque l’hashtag #MosqueMeToo per segnalare le molestie subite dalle donne durante lo hajj, il Pellegrinaggio alla Mecca, un momento di ricerca di purezza spirituale, di contatto con il divino, che si trasforma in un altro tipo di ricerca che sembra tirare in ballo il voler “toccare con mano” per essere sicuri.

Ma quando queste violenze avvengono in contesti religiosi, l’esigenza di nascondere il fatto cresce ancora di più, con la scusa di un silenzio mantenuto in difesa di un bene superiore.

La frase tipica? Dio vede e provvede.

E così subentrano silenzi, malessere psichico e fisico causati dal non poter e non dover dire nulla nell’impossibilità di denunciare molestie che forse nemmeno potrebbero essere provate.

Ma la cosa peggiore è che, persino in questo caso, ad essere colpevolizzata è la donna, anche se del tutto vestita e coperta, con la sola esclusione delle mani e del viso.

In base a questo possiamo dedurre come non siano i vestiti a chiamare la violenza, ma piuttosto una mentalità retrograda in cui la donna è vista come un oggetto. Mentalità, questa, spesso interiorizzata e poi promossa dalle donne stesse. Velata o non velata la donna viene sempre criticata.

La letteratura e l’arte affrontano la tematica della rappresentazione della donna nella società in vari periodi storici.

Non è l’arte in sé ad essere maschilista, ma il contesto socio-culturale nel quale le opere vengono create, anzi, riproporre il pensiero della società nella prosa, nei versi, nella pittura, significa fornire un’immagine di come sia la realtà in un dato tempo, allo scopo di offrire una testimonianza che possa riportare a galla e risolvere ogni lato negativo e ogni contraddizione.

Anche per questo gli attacchi nei confronti delle opere artistiche e dei loro autori, separati dal loro contesto, hanno ben poco senso.

Prendiamo un esempio abbastanza recente e molto attuale.

E dalle macchine per noi
I complimenti del playboy
Ma non li sentiamo più
Se c’è chi non ce li fa più

Il testo della canzone di Fiorella Mannoia affronta una tematica assai interessante, un atteggiamento che è presente sin dalla notte dei tempi, quello del fischiare quando una donna passa, con complimenti e altri “apprezzamenti” non richiesti, che è proprio quello che viene definito come catcalling. La canzone è stata condannata per promuovere il maschilismo, ma è davvero così?

L’arte non è solo immaginazione fine a se stessa, ma è anche pensiero in grado di affrontare e analizzare i problemi che affliggono le società. Tuttavia l’arte sa farlo non solo per vie esplicite, ma anche in modi molto sottili che potrebbero essere fraintesi.

È quindi inutile auto eleggersi a giudici per condannare una poesia, una canzone o un romanzo, quando sarebbe invece sensato analizzare testo e contesto per comprendere le motivazioni alla base di quelle espressioni ritenute, anche giustamente, problematiche.

Analizzando il testo della canzone della Mannoia, si percepisce molto bene il modo in cui vengono viste le donne dalla società: vanitose, amanti di complimenti e fischi, confuse, non sanno ciò che vogliono.

Donne che nell’immagine sociale dicono sempre sì anche quando è no.

La donna è tale se nasconde il dolore, se sorride sempre, se in fondo, anche se nega, “le è piaciuto”.

Il testo non fa altro che rappresentare questo immaginario collettivo che vede protagonista la donna insieme a tutti gli stereotipi annessi.

No, questa canzone non è un inno al catcalling, ma una rappresentazione culturale di come il mondo spesso vedeva e vede le donne tutt’ora.

Oggi la nascita e la diffusione di internet hanno esasperato gli scontri sociali e, in certi ambienti, pregiudizi e stereotipi risultano addirittura amplificati. Oggi quello che avviene nei social ha una rilevanza talmente elevata che ne devono tenere conto le aziende di marketing, i programmi politici, i candidati alle elezioni e persino gli enti pubblici.

La giustizia si sposta sul web

Il web non è solo un luogo di scambio di opinioni, ma sembra essere diventato avvocato, pm, procura, magistrato e tribunale e, quando si diffondono certe affermazioni, sarebbe bene pensare alle possibili conseguenze, soprattutto se ha farlo è un personaggio dotato di grande visibilità e seguito.

In merito a questo basti pensare alle recenti dichiarazioni di Beppe Grillo.

Il figlio di Grillo, con alcuni suoi amici, viene accusato di stupro, ma cosa succede in relazione a ciò? La reazione è sempre la stessa, non cambia mai: la colpevole per Grillo è la stessa donna presunta vittima e questo diviene, nel web, fatto pubblico che rischia di sottolineare e amplificare ulteriormente questa distorta opinione comune.

Grillo alle accuse nei confronti del figlio reagisce in modo nevrotico attraverso video interviste e dichiarazioni.

La presunta vittima era in vacanza nello stesso luogo in cui si trovava anche il figlio di Grillo, con alcuni suoi amici. Dopo aver creato un rapporto amicale con i ragazzi, sarebbe uscita con loro e, in seguito, il gruppo, l’avrebbe fatta bere per poi abusare di lei.

Grillo con un tono paternalistico arriva a sostenere senza dubbio che, nel video, si veda più che bene come la ragazza fosse consenziente.

La ragazza “si stava divertendo”.

Per Grillo basta questo per gridare mediaticamente come non esista nemmeno un dubbio minimo per tirare in ballo un possibile stupro.

La ragazza nel filmato era “ferma” e “se una donna viene stuprata urla, si agita, grida, non aspetta che passino dei giorni per denunciare”.

Come se di fronte a certe situazioni così estreme non ci possa che essere, come reazione, solo quella che Grillo riterrebbe opportuna.

Dall’alto delle sue conoscenze, quindi, Grillo, condanna senza appello la presunta vittima e assolve incondizionatamente il figlio, insieme ai suoi amici.

Anche Parvin Tadjik, moglie di Grillo, sostiene che una ragazza che subisce stupro “non vada a fare kitsurf, per poi denunciare a ben 8 giorni di distanza dai fatti”.

Si dimentica, la signora, di come sia tipico che le donne stuprate vadano a lavorare come se niente fosse successo, per paura, per l’opinione pubblica, per le accuse che riceverebbero (come in questo caso, ad esempio), per aver interiorizzato questi messaggi errati che colpevolizzano la vittima.

Anche lei sembra dimenticarsi che la paura immobilizza e blocca, e non proprio tutti riescono a reagire con le urla e con la fuga: quando si è sotto shock le reazioni non sono univoche.

Si dimenticano i coniugi Grillo che per denunciare una violenza sessuale, per legge, si hanno a disposizione fino a sei mesi di tempo. E che, se vogliamo, sono pure pochi.

Sarà la giustizia a determinare le colpa o l’eventuale innocenza delle parti, non possiamo certamente affermare che i ragazzi siano per forza colpevoli, ma sarebbe opportuno fare molta attenzione alle parole che si usano nel sostenere, a spada tratta, l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno, soprattutto in pubblico, cercando apposta un consenso da parte delle masse e sperando che questa opinione abbia perfino ruolo in sede legale.

Questo è ancora più grave se fatto, come in questo caso, diffondendo idee preconcette che non tengono conto di noti fattori psicologici, come i pregiudizi per cui si debba per forza denunciare subito o per cui l’aver accettato un’uscita di gruppo sia la prova indubitabile di atti sessuali consenzienti.

Questi falsi luoghi comuni vanno combattuti con decisione e con una corretta informazione.

Victim blaming e catcalling quali conseguenze?

Viviamo in un mondo che cambia alla velocità della luce e in cui l’essere umano non sempre riesce a stare al passo delle sue stesse innovazioni.

L’essere umano ha bisogno di rassicurazioni che tutto vada bene, ha bisogno di sapere che non ci sono pericoli o che, nel peggiore dei casi, si possano comunque evitare o nascondere.

La zona di comfort che ognuno si costruisce è sacra e, se viene spezzata, tale rottura può mandare facilmente in crisi una persona.

Pensare di vivere in un mondo fatto di rischi e pericoli che possono trovarsi dietro ogni l’angolo può generare o aumentare l’ansia; per gestire tutto ciò gli individui hanno bisogno di trovare delle scuse per poter vivere in modo tranquillo, scuse che possiamo chiamare meccanismi di difesa.

Dare la colpa all’atteggiamento femminile e al suo vestiario rientra in questa serie di “trucchi”, bugie che raccontiamo a noi stessi e, “protetti” dal falso mito che, nascondendoci, nessun male mai ci affliggerà, rischiamo di divenire a nostra volta promotori inconsapevoli della violenza.

Paura e violenza sono infatti facce della medesima medaglia che si nutrono l’una dell’altra.

Da un lato la violenza e la sua possibilità spaventano, fanno paura e creano un senso di timore, ma dall’altro anche il panico, a sua volta, produce reazioni violente con l’aspettativa di risolvere velocemente la causa delle ansie e delle insicurezze.

La vittima della molestia o dello stupro viene colpevolizzata ulteriormente proprio perché a nessuno piace identificare il mondo come un luogo non sicuro. La visione di un mondo in cui esiste un bilanciamento per cui ognuno semina ciò che raccoglie e ha “quello che si merita”, paradossalmente, riesce invece ad essere rassicurante.

In questo modo risulta semplice illudersi di avere tutto sotto controllo, in base al nostro comportamento.

Ma la possibilità o l’idea che violenze di ogni tipo possano capitare a tutti noi, senza il meritarcele in alcun modo, ci spaventa e risulta difficile, se non impossibile, da accettare.

Le false credenze che si generano come risposta semplice a questi bisogni psicologici, tuttavia, nel tempo hanno distrutto le vittime, rendendole vittime due volte, anche di sentenze moraliste ed esclusione dal tessuto sociale.

Ma non è tutto.

La colpa proiettata verso la vittima cambia, nei modi, in base a società e cultura di riferimento: il viaggio è lungo, tra vestiari, profumi, trucchi, lingue e abitudini, ma ciò che resta immutato è sempre il risultato finale: l’atteggiamento di fondo, cioè il victim blaming: la colpa è della vittima, su questo sono quasi tutti in accordo.

Cause identiche stanno anche alla base del catcalling, un insieme di complimenti non richiesti, fischi, versi, esclamazioni.

Le frasi più comunemente usate sono: “Vabbè, hai visto come era vestita?”, “mamma mia, che bambola”, “dai vieni qui che ti faccio vedere io cos’è un uomo vero”, “che bel culo”, “ma cosa sei”, ecc.

Oltre alla esternazione verbale le donne non di rado vengono fermate e inseguite da coloro che fanno i suddetti “complimenti”, spesso in gruppo rassicurati dall’appartenenza al “branco”.

A dimostrazione di quanto siano radicate le idee del victim blaming, una ricerca condotta da Laboratorio Adolescenza e dall’istituto IARD dal titolo “Adolescenti e stili di vita”, pubblicata nella parte finale del 2018, ha restituito dati preoccupanti.

Il 46% del campione composto da 2654 giovani studenti ritiene che nelle violenze sulle donne le stesse siano corresponsabili e il 7,6% ritiene che le violenze siano giustificate dagli atteggiamenti provocatori delle donne.

Questi dati restituiscono una fotografia della violenza sulla donna che non si discosta dal maschilismo che caratterizza la società nel suo insieme.

Gli adolescenti si mostrano preoccupati dai sempre più frequenti episodi di violenza sulle donne, ma non si rendono conto di non avere un atteggiamento di ferma condanna degli stessi.

Purtroppo, in questo modo se ne rendono partecipi, almeno nella misura in cui tramandano e trasmettono idee e condotte maschiliste.

Ma la donna non è soggetto che cerca avventure disinteressandosi dei traumi che potrebbe attrarre col suo atteggiamento e l’uomo non è soggetto incapace di trattenere le sue pulsioni! È ora di affermarlo con forza.

E per riuscirci bisogna puntare sull’educazione, con sani spazi di discussione sulla ricerca delle motivazioni, e con le relative riflessioni su se stessi, sull’altro e sulla società nel suo insieme.

Nel periodo marzo-giugno 2020, con il lockdown per la pandemia, le chiamate al numero antiviolenza 1522, secondo l’istat, sono aumentate del 119,6% passando da 6.956 a 15.280. Probabilmente l’esser costretti in casa ha fatto emergere rapporti nocivi, le cui tensioni erano tenute “in sordina” dal fatto da non esser costretti a condividere gli stessi spazi per troppo tempo.

Quella della violenza è una vera emergenza e, per vincere la sfida, e sradicarla, è necessario agire su più fronti.

Uno è sicuramente quello di dare alla giustizia più strumenti, per fare in modo che le denunce siano prese in considerazione e le vittime siano messe al riparo da altre violenze, ma questo, diversamente da quello che si potrebbe pensare con un’analisi superficiale, non sarebbe per niente sufficiente: è necessario lanciare una sfida educativa.

Il primo trigger da innescare è rendere quante più persone possibile consapevoli del fenomeno.

Atteggiamenti come il victim blaming allontanano la nostra responsabilità dagli atti di violenza, ci rendono passivi e sminuiscono il problema. In fondo noi (che potremmo e dovremmo controllarci) non perpetriamo alcuna violenza, sono gli altri che se la attirano addosso con il loro modo di fare e che quindi ne sono responsabili.

E cosa c’è di male a fare un complimento a una bella ragazza?

Questi discorsi, che molti si raccontano, hanno diversi effetti, tutti negativi.

Ad esempio quello di abbassare i campanelli di allarme: se si è vittima di complimenti o palpeggiamenti si sarà portati a pensare che, se la violenza si limita a quello, allora in fin dei conti non è poi cosa così grave.

Solo se ci si dovesse spingere oltre allora sarebbe “vera” violenza.

Il problema è che, se si entra nelle dinamiche di un rapporto affettivo, quando quell’oltre è già stato superato, ci si ritrova incapaci di reagire nel modo più totale, in quanto ci si aggrappa alle esperienze positive che si sono vissute, finendo con il restare disarmati. Anche il solo pensare di ribellarsi o denunciare rischia di divenire impossibile.

Questo non coinvolge solo le persone che fanno o subiscono il victim blaming o il catcalling, ma anche gli amici o gli estranei che vi assistono: saranno anche loro educati alla passività, anche di fronte a violenze conclamate e le accetteranno come “cose normali”.

Il secondo trigger da “attivare” è complesso e difficile da strutturare, soprattutto emotivamente, mentalmente e psicologicamente: la costruzione di un io solido, ma equilibrato.

I rischi sono alle porte: anche se è giusto insegnare a puntare sulle proprie forze, bisogna comunque fare attenzione a non esagerare con l’importanza data a questo aspetto e al controllo.

Se si finisce sovraccarichi di questo senso del dovere e non si conseguono i successi sperati, si è più portati a sviluppare forme di sofferenza esagerata, anche relativa alle delusioni inevitabili e normali della vita, e a sviluppare vere forme di depressione.

Se si insiste troppo con questo schema mentale si può arrivare a costruire l’illusione di poter controllare tutto con facilità e al bisogno di governare anche le persone attorno a noi, addirittura con mezzi manipolatori.

Tuttavia un io strutturato e sano è utilissimo per comprendere certe situazioni e saper prendere in tempo le giuste distanze da dinamiche che possono includere o portare a subire forme di violenza.

Una percentuale considerevole delle violenze subite dalle donne risale all’ambiente domestico e al partner. Difficilmente in queste “relazioni tossiche” il carattere violento del partner risulta manifesto sin da subito. Viene costruita una dipendenza affettiva a piccoli passi, in cui si alternano momenti di positività a momenti di inganno, urla e pretese. Si fa credere che molte cose, dai gusti personali agli spazi quotidiani, debbano cambiare: questo rende la vittima ancora più debole, soprattutto facendo credere alla stessa che il tutto sia per il suo bene, per renderla “migliore”, nascondendo in realtà un preciso intento di controllo.

Chi subisce queste dinamiche relazionali corre il rischio di entrare in un vortice affettivo che, anche per una persona indipendente e dotata di una buona base caratteriale, sarà difficile da interrompere.

Il victim blaming, in questo caso, è uno degli strumenti principe con cui questi atti manipolatori possono essere messi in atto e, come dicevamo poco fa, anche solo l’esposizione a questi comportamenti può contribuire a indebolire la nostra capacità di reagire alla violenza e al sopruso.

Terzo trigger, se le idee vengono trasmesse con il dovuto impegno, si propagano poi da sole. Nel male, ma anche nel bene!

A quanto pare la società occidentale è quasi completamente schierata contro la violenza sulle donne, ma come gli adolescenti della ricerca succitata, continua ad accettare molti degli strumenti con cui questa viene messa in atto.

Bisogna diffondere le giuste idee e smantellare i vecchi pregiudizi!

Dovendo pensare a un percorso educativo, nella speranza che nelle nuove generazioni si possa assistere a un cambiamento, è necessario che si rifletta più in profondità sulle azioni e sulle dichiarazioni, soprattutto pubbliche, e le loro conseguenze a lungo termine.

La strada da fare per formare una coscienza collettiva davvero consapevole di quegli atteggiamenti violenti che la storia ha passato come “normali”, è ancora lunga, ma non si può dire che il viaggio non sia iniziato.

Gli organi legati all’istruzione, come quelli di stampa e informazione, oggi hanno notevoli responsabilità verso le quali non possono fare finta di nulla: è importante dare giusto spazio a messaggi e informazioni corrette, avendo anche il coraggio di evidenziare come errati quei comportamenti e quei preconcetti che, nonostante appartengano ad una sorta di tradizione, non fanno altro che permettere alla violenza di continuare a diffondersi indisturbata e, a volte, nei casi più gravi, con conseguenze anche letali.

 

Si parla di:
Categorie
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Violenza sulle donne: come il sessismo ostacola il cambiamento
Violenza sulle donne: quando le credenze sessiste influenzano il concetto di responsabilità e cambiamento

Violenza sulle donne e credenze sessiste: l'intervento dovrebbe considerare come meccanismo di cambiamento le donne o gli uomini? A chi dovrebbe rivolgersi?

ARTICOLI CORRELATI
La diagnosi di sordità del proprio figlio: un percorso di elaborazione del lutto

In questo articolo vengono presentati i risvolti psicologici di ognuna delle cinque fasi di elaborazione della diagnosi di sordità

Covid, stress e intolleranza all’incertezza: similarità tra le percezioni di figli e genitori

Somiglianze tra genitori e figli nelle percezioni di incertezza e nelle reazioni emotive riguardo al covid durante il periodo pandemico

WordPress Ads
cancel