Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, in Aspettando Chandra, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.
Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi,
se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti,
una per sempre, ma di continuo
e infinitamente mutabileLuigi Pirandello
Chandra è un nome maschile e femminile, significa “lucente come la luna”. Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.
Fra paure e titubanze, riflessioni sul futuro incerto del mondo e attese che sembrano non finire, su tutto, vince il desiderio. Il desiderio di avere un secondo figlio, di permettere alla prima di avere un fratello e di vivere quella “fratellanza” che né lui né la moglie, in quanto figli unici, hanno mai sperimentato. Ma c’è anche la speranza di vedersi un uomo felice. Non solo quell’anelito a rappresentare per il nuovo arrivato il “pilastro dell’infanzia”, a garantirgli il grado di felicità maggiore possibile, ma fuori da dimensioni legate al sacrificio, l’autore è alla ricerca anche della propria, di fortuna.
Dai giorni nostri ai ricordi d’infanzia, dalla gratitudine per le donne che hanno concepito i suoi figli, alle domande sul ruolo di genitore, l’autore racconta la vicenda personale attraverso uno stile che sembra muoversi fra prosa e poesia. Nell’attesa di diventare di nuovo padre, non può non ricordare cosa significhi essere stato figlio e anche rispetto a questa trasformazione di ruoli, induce delle domande che sono significative per noi psicoterapeuti, per i genitori adottivi e per quelli naturali. È un romanzo che ha a che fare anche con lo “stare in relazione con”. Con il diverso, con lo sconosciuto, con chi arriva avendo una storia da raccontare o che non vuol essere raccontata. I primi incontri con i due bambini indiani, nella loro terra di origine, sono fatti di silenzi, colori, sguardi accennati, brevi contatti, ma c’è già quel tentativo di sintonizzarsi con l’altro che è alla base di tutte le relazioni che funzionano.
Tante le emozioni suscitate nel lettore, in particolare quando il futuro padre, dopo una visita, rivolge al figlio un pensiero: voglio che “tu creda che torneremo”. Non può dirlo perché non parlano la stessa lingua, ma in qualità di psicoterapeuti, noi sappiamo che ai figli fa bene essere pensati, stare al centro di quel contenitore che è la mente, se la fantasia è luogo di accoglienza, di accettazione, di comprensione dell’alterità.
La genitorialità adottiva è diversa da quella naturale. I bambini adottati vivono sapendo di avere quattro genitori, il periodo dell’attesa è caratterizzato da esperienze differenti e l’attaccamento con la famiglia che accoglie spesso non si costituisce alla nascita. Può essere però un’esperienza che permette al genitore di sentirsi pienamente padre o madre, fortemente affettiva, anch’essa come quella naturale, caratterizzata da certezze e insicurezze. Rossano Crotti non fa riferimento nello specifico all’esperienza della paternità, che negli ultimi anni è sempre più osservata e studiata (Recalcati, 2017), ma a quella della “genitorialità” nel senso più ampio del termine.
È un libro che si rivolge ai genitori ponendo loro implicitamente una domanda: quando una genitorialità può definirsi buona e sicura per il figlio che la riceve? Quando invece preoccuparsi? Per il proprio benessere. Per il benessere del bambino. L’identità personale si forma grazie ad un riconoscimento sociale che avviene principalmente all’interno della famiglia. I bambini devono sentire accettazione, disponibilità alla comprensione, sintonizzazione sui bisogni e sulle caratteristiche tipiche dell’età che stanno attraversando. Laddove il figlio manifesti comportamenti che suscitano emozioni negative nell’adulto, è preferibile che quest’ultimo risponda con la riflessione. La mentalizzazione da parte dell’adulto rispetto a quello che sta accadendo nella relazione, favorisce anche il benessere del figlio. In una fase di disaccordo, è la comprensione del punto di vista dell’altro a permetterci di incidere in modo affermativo nella conversazione, di giocare un ruolo nella relazione con chi si ha davanti. Solo dopo aver capito, possiamo esprimere eventualmente la nostra disapprovazione, senza giudicare, senza ferire. Ed è proprio la frequenza e il modo con cui un genitore pensa, sente, esprime le emozioni negative a costituire uno degli anelli più difficili della genitorialità.
Un rapporto che funzioni, è una strada vissuta da entrambi come piacevole e sicura, in cui la reciprocità garantisce la diversità, la fusione lascia progressivamente spazio all’affermazione di sé, il disaccordo ha un ruolo trasformativo che in qualche modo ha la possibilità di ridefinire entrambi. Una relazione in cui il genitore, pronto a mettere in discussione se stesso, è disponibile ad osservare i cambiamenti di chi ha davanti con uno sguardo sulla sua unicità, sulle sue risorse, sulle sue difficoltà.
Un romanzo che racconta una storia di adozione, ci permette di osservare due costrutti teorici e la relazione che intercorre fra questi: quello di “Modello Operativo Interno” formulato da Bowlby (1973, pp. 259-260) e il “Corollario della Socialità” elaborato da Kelly (2004, pp. 87-94). Il primo ha a che fare con la tematica dell’attaccamento, il secondo con la capacità di comprendere gli altri. Sono due tematiche intimamente legate nei percorsi di adozione perché il bambino ha delle dimensioni di attaccamento che il genitore adottivo non conosce, già parzialmente formate, già parzialmente strutturate, quando l’incontro non avviene alla nascita. Ciò richiede particolari capacità di comprensione dell’altro da parte del genitore adottivo al fine di poter instaurare una buona relazione. I Modelli Operativi Interni del bambino sono influenzati dalla relazione che ha instaurato con la madre sin dalla nascita o con altri caregiver, e sono rappresentati da un insieme di emozioni, immagini comportamenti più o meno consapevoli che raccontano le modalità di relazione messe in atto dal bambino stesso con gli adulti significativi. Sono una specie di mappa affettiva che gli permette di entrare in contatto con chi si prende cura, sulla base delle sue esperienze pregresse. Un bambino che ha dovuto affrontare la separazione dalla madre in età precoce e che è stato affidato a degli educatori di cui non conosciamo le qualità di care giving, ha dei modelli operativi interni, un modo di mettersi in relazione con gli adulti che è frutto della sua storia. Ed è qui che assume un particolare significato il “Corollario della Socialità” :
Per avere un ruolo di comprensione nella relazione con un’altra persona, occorre che in qualche modo si riesca a costruire la prospettiva di quella persona. (…) è necessario non tanto costruire gli eventi nello stesso modo, ma costruire il modo di vedere gli eventi dell’altra persona. (p. 87)
Possiamo sintetizzare affermando che il genitore adottivo si trova davanti ad una sfida particolare: il bambino adottato se non è un neonato, ha già dei Modelli Operativi Interni, ha già un suo modo di porsi in relazione con i caregiver, condizionato da separazioni e da modalità di cura pregresse. Il genitore dovrà essere dotato dunque di buone capacità di comprensione dell’altro per capire la prospettiva del bambino, il suo modo di interagire, la ragione di alcuni stati emotivi. Non gli saranno utili solo alcune qualità empatiche ma anche delle ottime capacità di costruire il punto di vista dell’altro. Per questa ragione, i genitori che hanno adottato un figlio, dovrebbero avere la possibilità di fare riferimento a psicoterapeuti attraverso una modalità gratuita, laddove ne sentissero la necessità.