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Recensione del testo “Lividi d’angoscia” (2020) di Elena Cardona

L’autrice di 'Lividi d'angoscia' racconta la propria esperienza legata al suo disturbo borderline di personalità, il suo vissuto ed il suo dolore

Di Marvin Rosano

Pubblicato il 24 Set. 2021

Aggiornato il 30 Set. 2021 14:16

Nella raccolta di poesie Lividi d’angoscia, l’autrice riporta in modo intenso, ma nondimeno umile, il proprio vissuto, con il proposito di dare voce a più parti di sé, aprendosi non soltanto agli altri ma anche a se stessa.

 

Nell’introduzione scrive: “Verrete travolti da sensazioni, pensieri, angoscia e insoddisfazione, vuoto e sbalzi d’umore, per sfiorare con i sensi la sofferenza di chi abita nel buio. O forse vi sentirete capiti e meno soli, lì in quell’oscurità”. In ciò si ravvisa quello che, a mio avviso, rappresenta l’aspetto fondante di tutto il testo, ovvero l’incontro con l’altro. Sicuramente emerge anche il tentativo di sensibilizzare al disturbo borderline con tutte le sue manifestazioni. Manifestazioni che, in quanto tali, variano in base all’esperienza dell’individuo e che quindi, anche se leggermente a discapito del senso di controllo e padronanza dei professionisti, non possono essere racchiuse in etichette, senza un’esperienza che tocchi l’altro in maniera profondamente umana.

L’autrice inizia ad entrare nella propria esperienza sintomatologica, raccontando il proprio vissuto in merito al terrore di venire improvvisamente abbandonata, quello che nel DSM 5, viene presentato come “angoscia di separazione” . Scrive: “La rassicurazione incessante è un’urgenza” e poi: “ rimango sul bordo, lacerata dalla paura di perderti e nuotare da sola”. In particolare, nelle prime pagine del libro emergono quelli che, a mio avviso, rappresentano i tentativi di compensare la presenza di un vuoto, la presenza di una costante assenza nelle relazioni con gli altri, e nella relazione con il partner. Il tutto carico di un’imprevedibilità angosciante. Emerge una relazione fondata sul bisogno. Il bisogno di costanti conferme e rassicurazioni da parte dell’altro, il bisogno della costante presenza fisica, un carico enorme di pressione interpersonale, paura, ipervigilanza e diffidenza. Una relazione che rimane bloccata sul tema della sopravvivenza, sul bisogno dell’altro come contenitore di stati emotivi e mentali, la cui esperienza rimane sospesa, non integrata all’interno di un vissuto con una continuità tra il passato, il presente e il futuro. Scrive: “Ti penso con il timore della tua partenza, so che accadrà, la titubanza mi danza nel petto e sprofondo nei ricordi di me bambina in quella stanza vuota; ferite senza cicatrice non smettono di sanguinare e condizionano le mie cadute” e “impulsi che mentono senza scrupolo mi sussurrano frasi false e sento di essere sola, anche se sola non sono. Esisto soltanto in sensazioni di cui non posso fidarmi”. “Impulsi che mentono” e “la titubanza mi danza nel petto”, sembrano esporre un vissuto di sensazioni viscerali e di conseguenti rappresentazioni di sé e dell’altro incentrate su quella che Fonagy definisce “ipervigilanza controllante” nei confronti degli altri e della realtà esterna, in cui il soggetto vive un senso di sé estremamente confuso e una spinta ad evacuare all’esterno di sé stati della mente, in cui l’esperienza della realtà è sopraffatta da un dolore intollerabile. La “titubanza” di fronte ad un’ossessione dubitativa tra ciò che sia reale o meno, di fronte a questo monologo con fantasmi di sé che reclamano il diritto di avere voce in capitolo, alimentano ulteriormente un senso di isolamento, un’amara consapevolezza che diventa una realtà innegabile di rifiuto da parte degli altri, di disprezzo verso sé stessa e di chiusura nei confronti del mondo. Scrive: “Ho costruito dei muri intorno a me per sopravvivere al dolore di venire abbandonata; sorridevo con l’amaro sulle labbra e la consapevolezza di sentirmi rifiutata” e “È difficile non allontanare tutti quando l’unica cosa che provo è paura del rigetto”. In altre parti del testo viene raccontata quella che si manifesta come una profonda labilità affettiva e una percezione della partner estremamente instabile. Scrive: “È un mare di emozioni che sovrasta le mie azioni; boccheggio sommersa dai sentimenti prepotenti; sento troppo, sento il doppio, sento oltre quello che io stessa possa tollerare; Il mio corpo a stento contiene lo spettro dei colori così intensi da ingannare la vista e distorcere la realtà“.

La mancanza di continuità nell’esperienza di questa partner, si evince in particolare in alcune parti: “mi nutro della tua dolcezza, rispecchi la perfezione e in te m’incanto; se sbagli ti odio con ogni fibra del corpo, travolta dalla delusione e umiliata dai gemiti; indosso degli occhiali speciali con lenti in bianco e nero, vedo la tua aureola radiosa, ti tendo la mano e inconsapevolmente smetti di splendere, mi parli con lingua biforcuta sputando veleno; incastrato nella mente ho un interruttore che gestisce la corrente dei miei pensieri; Sei la mia salvezza o la mia debolezza?“.

Viene raccontata una storia senza soluzione di continuità, con immagini, sensazioni, emozioni, pensieri che, come l’autrice scrive, sono guidati da un interruttore il cui pilota automatico le incastra in compartimenti che non comunicano tra loro e che si attivano in automatico di fronte a stimoli interni o esterni. L’altro viene idealizzato, viene investito di una perfezione non umana, un salvatore celeste per poi mutare radicalmente. E lei, in tutto questo, si sperimenta come vittima delle circostanze, è un qualcosa che le accade e da cui viene travolta, ritrovandosi a sguazzare nell’impotenza.

Ciò si evince anche da quanto scrive, raccontando della propria impulsività: “I miei gesti sono istinti fatali che privano del libero arbitrio il pensiero; non possiedo il tempo di dire no, mossa dall’impulso di controllare il dolore; sono modi di sopravvivere che trasformano l’occasione in abitudine e non lasciano scelta; confusione, sciame di impulsi condotti dalla mancanza di comunicazione“. Vive un costante senso di precarietà, non sente di essersi individuata nel mondo, di avere dato forma alla propria forza vitale. Il suo senso di sé, la sua autostima, vengono avvolte da una nebbia, che avanza e soffoca, comprime le esperienze che non vengono accolte, integrate ma rimangono sospese. La propria esistenza dipende da istanti di verità, inghiottiti in frammenti di realtà, in cui viene meno il contatto autentico con le altre persone. Scrive: “Vedo il falso, la mente schernisce l’idea di realtà”.

Ne esce una relazione abortita con il mondo, con sè stessa e con gli altri, in cui la propria esistenza viene mortificata. Scrive: “Chi sono? Una domanda in un abisso di incertezze abitato da spazi troppo vasti in cui regna il silenzio; oscillo tra l’alta autostima e il rifiuto di essere; angosciata soddisfo le aspettative degli altri perché altro non posso fare; indosso un mantello bianco sul quale tutti camminano e lasciano impronte; il mio nome non è mio, appartiene al mondo che mi plasma ad immagine idilliaca per me irraggiungibile; non riconosco la mia forma in quest’abisso cronico”.

L’autoannullamento che vive, quest’inerzia infinita, travolta dalla paura, dalla rabbia, dalla vergogna, dall’angoscia viene, a mio avviso, chiaramente espressa in questa parte: “Come posso uccidermi se non sto vivendo? Esisto e soffro in un’agonia infinita, sperando ogni minuto sia l’ultimo, necessito di una pausa dal presente amaro; forse sono già morta, sto solo aspettando che il corpo mi raggiunga; il suicidio mi avvolge come una coperta calda, conforta l’angoscia e trasmette sicurezza, è salvezza; esigenza di spegnere la sofferenza impossibile da sostenere”.

L’autrice sembra esprimere il bisogno coatto di evacuare questi vissuti intollerabili, memorie traumatiche cariche di impotenza, terrore, odio attraverso il fantasticare sul suicidio, attraverso il passaggio all’atto come il tagliarsi o buttarsi a capofitto sull’alcool e sulle sostanze stupefacenti, tutte modalità la cui principale funzione sta nel controllo di una sofferenza interna insopportabile. Un senso di vuoto opprimente si fa avanti, quello che viene definito dall’autrice come “narcotico emotivo esperto nell’annientare il suo essere umana”. Un’atroce esperienza di distacco tra isole del suo sé, che la priva di un senso di appartenenza e connessione psichica e che la porta, in questo, a sperimentare stati dissociativi: “La materia si distacca dall’animo guasto che incerto fluttua; scruto dall’esterno la mia figura vagare assente, parlo ma lei non sente”. Scrive anche: “Semplicemente sono un contenitore di ossa e di pelle, con un cuore intorpidito che fiacco batte spogliato d’amore; sono mancanze che pesano più di presenze”; “Il mondo si allontana e io, isola attonita, percepisco l’impersonalità dell’essere viva”.

La rabbia, l’odio nei confronti di se stessa e degli altri, un senso di urgenza in risposta a fantasmi che strangolano e cui è possibile rispondere soltanto attraverso grida che, violente e prepotenti, irrompono dilagando nella logica oltraggiata. Scrive: “Reagisco all’istante per proteggere le ferite dalla paura di sanguinare ancora”. La paura di sperimentare un’impotenza assoluta, di sentirsi vittima di ingiustizie e di altri inaffidabili, che seducono e tradiscono. Il tutto, in preda a pensieri paranoidi che nel caos di un senso di sè precario, la portano a distorcere la realtà, passando dal sentirsi vittima al reagire impulsivamente a quelle che percepisce come umiliazioni. Scrive: “È un inganno delle sensazioni, che produce concezioni distorte, errori d’esistenza che mi proiettano in un mondo illusorio”.

La parte finale del libro viene intitolata “Rinascita”. L’autrice scrive: “Eclissata dal dolore, esiste la consapevolezza di ciò che potrei essere, fiammella flebile che racchiude la mia vera essenza, le mie potenzialità diventano fuoco indomabile divorando il buio. Le ceneri rendono fertile la terra; gli alberi si aggrapperanno al suolo con profonde radici dove scorrerà nuova linfa. E tornerà certo la notte con i brividi, e sarò pronta ad acccoglierla, allargano le braccia per confortarla e accettarla senza paura, con le mie cicatrici, lasciando scorrere la vergogna e trasformando in arte la mia sensibilità”.

Come ho accennato all’inizio di questo articolo, a mio modo di vedere, il tema centrale di questa raccolta è incentrato sull’incontro. L’autrice fa un percorso in cui l’incontro con l’altro e con se stessa è incastrato sul tema della sopravvivenza, sul bisogno, e in cui tutto è subordinato a presenze interne ingombranti, buchi neri senza fine. Ma il suo percorso sembra evolversi verso l’esplorazione di se stessa e dei propri talenti, nonché verso la scoperta di un senso di appartenenza, prendendo probabilmente consapevolezza che il proprio potenziale per l’amore esista dentro di sé e che non possa dipendere da agenti esterni. L’incontro quindi comincia a prendere forma in un’apertura, prima ancora che verso altro, verso se stessa e verso un’intimità permanente.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Cardona E. (2020). Lividi di Angoscia. Campi Magnetici.
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