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Lo sviluppo di un sé compassionevole rende più accettabili le possibili colpe? Uno studio pilota con Compassion Focused Therapy nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Favorire un atteggiamento compassionevole verso di sé può abbassare gli standard morali e la sintomatologia in persone con disturbo ossessivo compulsivo

Di Teresa Cosentino

Pubblicato il 26 Mar. 2021

Gli effetti della Compassion Focused Therapy di gruppo sono stati confrontati con la baseline iniziale in pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo e dimostratisi resistenti al trattamento standard.

 

Numerosi studi, sia sperimentali che correlazionali, e osservazioni cliniche dimostrano la centralità del senso di colpa nella genesi e nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsivo (per una rassegna, Mancini, 2016), suggerendo che l’attività ossessiva sia finalizzata alla prevenzione e alla neutralizzazione della possibilità di essere colpevole e disprezzabile sul piano morale, possibilità che appare catastrofica agli occhi degli ossessivi che, più di altri pazienti, riferiscono il timore che possano essere oggetto del disprezzo altrui nel caso in cui dovessero rendersi responsabili di errori e/o provocare danni.

Con una ricerca di recente pubblicata sulla rivista Frontiers (Petrocchi, Cosentino et al., 2021) abbiamo voluto verificare se il favorire un atteggiamento compassionevole nei confronti di sé e di auto-perdono produca un abbassamento degli standard morali solitamente impiegati dal paziente per giudicare la propria condotta, una maggiore accettazione della propria imperfezione morale che dovrebbe poi tradursi in una maggiore disposizione ad assumere qualche rischio in più nel dominio sintomatologico rinunciando, in parte o completamente, ai provvedimenti preventivi o di neutralizzazione. In altre parole, ci siamo chiesti: “se il paziente matura una prospettiva più compassionevole nei confronti di se stesso, mediata dall’idea che lui, come ogni altro essere umano, non sia tenuto a fare tanto per prevenire la minaccia temuta, sarà poi più disposto a rinunciare alle condotte preventive o di neutralizzazione e ad esporsi al rischio temuto?”. Nelle nostre aspettative ne sarebbe derivato nell’immediato una riduzione della sintomatologia e, nel lungo termine, della possibilità di ricadute e riacutizzazione del disturbo.

Per promuovere un’attitudine compassionevole nei confronti di se stessi e incline all’auto-perdono ci siamo avvalsi della Compassion Focused Therapy (Gilbert, 2014) in un setting di gruppo. La CFT è un approccio terapeutico riconducibile alla terza onda della terapia cognitivo-comportamentale che sta accumulando sempre più evidenze sperimentali a supporto della sua efficacia. Lo scopo della CFT è quello di aiutare i pazienti a sviluppare un atteggiamento di cura e compassione nei propri confronti e ridurre l’attitudine autocritica che solitamente caratterizza il loro dialogo interiore. Diversi studi stanno confermando l’efficacia di queste pratiche nel ridurre differenti manifestazioni psicopatologiche (disturbi alimentari, PTSD, ansia, depressione e psicosi; per una rassegna si veda Sommers-Spijkerman et al., 2018).

Il disegno sperimentale adottato è stato Multiple Baseline Design per confrontare gli effetti Compassion Focused Therapy di gruppo con la baseline iniziale in pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo e dimostratisi resistenti al trattamento standard. Questo disegno consente di fare inferenze causali e controlla molte minacce alla validità interna. Poiché ogni partecipante agisce come se fosse il proprio controllo, sono necessari meno partecipanti per dimostrare che il cambiamento sia la conseguenza dell’intervento. Le valutazioni frequenti infatti forniscono informazioni, oltre che sulla stabilità dei cambiamenti dei sintomi, sulla coincidenza delle variazioni con l’introduzione del trattamento specifico.

L’intervento si è svolto nell’arco di otto settimane, con incontri settimanali della durata di due ore e ha coinvolto otto pazienti affetti da diversi sottotipi di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Ciascun incontro iniziava con un breve esercizio esperienziale di respirazione e focalizzazione dell’attenzione nel qui ed ora, dopo il quale venivano introdotte diverse pratiche finalizzate a far sperimentare al paziente una maggiore compassione verso se stesso, verso gli altri, e una maggiore accettazione della compassione che proviene dagli altri (il luogo compassionevole, il colore compassionevole, la figura compassionevole; incarnare il sé compassionevole; utilizzare il sé compassionevole nell’incontrare gli altri; visualizzazione dell’autocritica e “incontro” fra il sé critico e il sé compassionevole; il compassionate body scan, lo specchio compassionevole, la lettera compassionevole). Ogni incontro terminava con l’assegnazione di homework (solitamente l’ascolto, almeno una volta al giorno, della registrazione di una pratica sperimentata durante l’incontro precedente) e con una pratica di focalizzazione dell’attenzione nel qui ed ora.

Seppure con le doverose cautele visto il numero esiguo di partecipanti, i risultati dello studio hanno confermato le aspettative di partenza dimostrando una riduzione clinicamente e statisticamente significativa dei sintomi ossessivo-compulsivi in tutti i pazienti, perlopiù stabile a distanza di un mese dal termine del trattamento. Interessante notare, in linea con il modello del disturbo di Mancini (Mancini, 2016), che il miglioramento sintomatologico, dunque, si è registrato a prescindere dal sottotipo del disturbo, a dimostrazione del fatto che il timore di colpa e l’investimento sulla prevenzione di tale evenienza sia l’ingrediente sovraordinato nelle diverse tipologie di DOC. Il risultato dunque è in linea con altri studi precedenti (Perdighe, Mancini, 2012; Cosentino, Mancini, 2012; Cosentino, D’Olimpio, et al., 2012; Tenore, Basile et al., 2020) che dimostrano come l’intervento su questo elemento specifico, il timore di colpa, produca una sostanziale riduzione della sintomatologia anche senza intervenire direttamente su di essa. Questo filone di studi, oltre che dimostrare la centralità del costrutto nella genesi e nel mantenimento di questo disturbo, apre nuove prospettive di trattamento anche in pazienti resistenti al trattamento cognitivo standard.

 

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