Il modello delle “tre colline” offre una visione allargata e complessa alla tematica delle dipendenze e ha permesso di formalizzare il mio modo di lavorare, basato sull’idea che non si possa cogliere la complessità clinica con una sola chiave di lettura (Maurizio Frisina).
Maurizio Frisina è psicologo e psicoterapeuta, formatore alla Scuola di specializzazione in psicoterapia a orientamento sistemico e socio-costruzionista del Centro Panta Rei di Milano.
Si occupa da anni del trattamento delle dipendenze e co-dirige il servizio U1 della Clinique La Ramée – Groupe Epsylon a Bruxelles.
Nel 2020 pubblica Sul bordo del caos – Complessità, terapia sistemica e dipendenze, edito da Mimesis, un testo sulla dipendenza da sostanze, frutto di anni di esperienza sul campo e di insegnamento, nel quale l’autore propone delle mappe innovative per orientarsi nel mondo delle dipendenze.
Edoardo Perini (EP): Maurizio, come arrivi ad occuparti di dipendenze dal punto di vista sistemico relazionale in Belgio?
Maurizio Frisina (MF): Ho iniziato a lavorare in ospedale, occupandomi di disturbi alimentari, per poi proseguire nel settore delle dipendenze, nel quale ho deciso di rimanere. Questo ambito continua ogni giorno ad appassionarmi perché se è vero che si tratta di un problema pervasivo, è tuttavia anche fluido, ovvero crea possibilità di cambiamento nei pazienti. La relazione terapeutica è molto intensa, contrassegnata dalla velocità tra perturbazione e cambiamento.
EP: Nell’immaginario collettivo, in un contesto come quello delle dipendenze, pensare al cambiamento può essere difficile. Infatti molti Sert, anche in Italia, sono più orientati alla gestione della cronicizzazione.
MF: Parlare solo di cronicità è un po’ una tautologia, una costatazione. Uno dei motivi per i quali ho proposto una classificazione delle dipendenze lungo il continuum tra caos e periodicità è proprio la varietà clinica dei casi con i quali sono entrato in contatto. Ho voluto soffermarmi su quali siano i meccanismi e i processi che portano al cambiamento.
EP: Il modello sistemico abbraccia la complessità e cerca di comprendere il problema in tutti i suoi aspetti, prospettiva opposta a quella del riduzionismo, approccio più economico e rassicurante ma meno efficace in quanto porta alla perdita di tante connessioni.
Nella realtà in cui lavori, è stato semplice far capire, anche a livello istituzionale, quanto sia utile affrontare un “problema complesso in modo complesso”?
MF: Nella mia Istituzione c’è già uno spazio previsto per l’approccio sistemico: ogni paziente è seguito da uno psichiatra, uno psicoterapeuta individuale e uno familiare. Inoltre, da quando co-dirigo il servizio, ho dato sempre più spazio a tale approccio, pur considerando una ricchezza il confronto con altri orientamenti.
EP: Entrando più nello specifico, quanto del modello delle “tre colline”, che offre una visione allargata e complessa alla tematica delle dipendenze, è preso dai modelli classici sistemici, dallo strutturalismo e dalla pragmatica della comunicazione umana?
MF: Con questo modello ho voluto formalizzare il mio modo di lavorare, basato sull’idea che non si possa cogliere la complessità clinica con una sola chiave di lettura. Qualsiasi modello lascia sempre fuori qualcosa, e questo mi ha incoraggiato ad integrare più modelli, per rendere conto della ricchezza delle dipendenze. In riferimento alle tre colline, citate nel libro, quella dell’organizzazione si avvicina maggiormente allo strutturalismo, concentrandosi sulla struttura del sistema, su come esso si organizza intorno alla sostanza e sulle ridondanze relazionali.
La collina narrativa si focalizza sul linguaggio: sul modo in cui, attraverso esso, costruiamo la realtà e su come la perdita di libertà si rifletta sull’impoverimento del discorso. Spesso il soggetto grammaticale è la sostanza e non la persona e, dato che il linguaggio è il modo in cui pensiamo, se la storia è ridotta è difficile pensare al cambiamento.
Infine, la collina temporale evidenzia il ruolo del tempo: come le dipendenze si modificano in rapporto al tempo, sia a livello esperienziale/fenomenologico che cronologico. La sostanza agisce nel tempo sempre nello stesso modo, creando un vero e proprio rituale, che a mano a mano prende il posto dei rituali familiari.
EP: Facendo riferimento alla tua esperienza clinica professionale, hai trovato delle associazioni tra i tipi di sostanze di abuso, le personalità dei pazienti o la loro storia clinica?
MF: Quando si pensa alle dipendenze si possono avere due porte di entrata: ci si può focalizzare sui diversi prodotti e le loro specificità, ragionando sulle proprietà del prodotto in sé, oppure si guarda più la relazione con il prodotto, al di là della sua specificità. Io ho deciso di utilizzare la seconda prospettiva per due ragioni:
- dal punto di vista teorico, nella teoria sistemica l’unità di analisi è la relazione con il prodotto più che il prodotto in sé;
- a livello di esperienza clinica, i pazienti sono più variegati rispetto alle categorie che abbiamo per descriverli. Infatti, da un lato, lo stesso prodotto rimanda a funzioni diverse (ad esempio, la cocaina: per alcuni può servire a disinibire i freni e perdere il controllo, mentre per altri può avere una funzione calmante); dall’altro, alcune persone fanno uso di più prodotti che, nonostante non abbiano lo stesso grado di dipendenza, sono tra loro in connessione, rendendo difficile la classificazione in un’unica categoria. Quindi, in generale, preferisco guardare più alle connessioni che alle specificità.
È bene comunque evidenziare alcune specificità interessanti, come quelle tra:
- prodotti illegali, caratterizzati da un consumo più trasgressivo e nascosto, e prodotti legali, più banalizzati e inseriti più facilmente nel lessico familiare;
- dipendenza fisica dal prodotto e dipendenza senza sostanza: la prima agisce sul corpo, producendo uno scollamento tra schema corporale e stato effettivo del corpo, che si traduce nella difficoltà a parlare di emozioni e distinguerle; nella seconda, invece, c’è un’attivazione globale ma è meno presente l’effetto fisico sul corpo (es. gioco d’azzardo).
EP: In merito al tema della trasgressione, sappiamo quanto esso sia centrale in adolescenza. A tal proposito ci chiedevamo se questa tendenza potesse emergere anche in età adulta o fosse tipica solo del periodo adolescenziale?
MF: L’adolescenza è una fase di transizione e di esplorazione dell’identità, la trasgressione è qualcosa di funzionale con cui l’adolescente mette alla prova le regole e i valori familiari, e porta ad un equilibrio dinamico tra il bisogno di differenziazione e quello di appartenenza. È un momento tanto di crisi quanto generativo.
Si possono riscontrare delle similitudini in età adulta: anche in questa fase, si osserva un mettere alla prova le relazioni, i dispositivi di cura e le sue regole, e il voler oltrepassare i limiti per vederli.
Quando, in età adolescenziale, l’equilibrio tra appartenenza e differenziazione non va a buon fine, può riproporsi in età adulta.
EP: Quanto la famiglia può ostacolare o promuovere un cambiamento e portare ad una guarigione?
Quali potrebbero essere i comportamenti più indicati per favorire il processo di cura?
MF: La problematica e il sintomo del paziente si estendono all’intero sistema, influenzando le sue relazioni significative. È quindi importante coinvolgere la famiglia nel processo di cura, non come ricerca delle cause ma come ricerca delle soluzioni.
Se dovessi dire qualcosa ad una famiglia di un soggetto dipendente direi: “siate pronti ad accompagnare il cambiamento e ad accettare perdite di riferimenti che non riguardano solo la persona in cura”. Il cambiamento non si ferma quando la persona smette di diventare dipendente da quella sostanza, ma inizia proprio in quel momento.
EP: Quanto affermi ci fa capire che se non si lavora sugli effetti che l’assenza della sostanza crea anche nel contesto più allargato, le ricadute sono più facili.
MF: Quando l’astinenza è percepita come obiettivo e non come mezzo, il paziente è più soggetto ad una ricaduta. Non affrontando la tematica in modo diverso e limitandoci a togliere la “cattiva soluzione”, il sistema tende a ritornare ad essa, per ritrovare un equilibrio.
Da questo punto di vista, quando si ha un’alternanza di ricadute e astinenza, bisogna vedere il consumo e l’astinenza sullo stesso piano: sono entrambe importanti ed è lì che inizia il vero processo di cambiamento.
EP: Nel tuo libro parli di tre livelli di dipendenza (A, B, C). Nel caso del tipo C, in cui il soggetto sembra aver perso le risorse necessarie per fronteggiare il suo problema, è possibile una completa remissione dal disturbo? Oppure, il paziente con una dipendenza di tipo C presenterà sempre una debolezza, che lo porterà ad essere più a rischio di ricadute rispetto a soggetti con una dipendenza di tipo A o B?
MF: Il tipo C è la situazione più complicata, dove vi sono rotture relazionali, il corpo è più colpito e ci sono meno risorse, con perdita di autonomia. All’inizio c’è bisogno di stabilizzare e ridurre il rischio e da lì è possibile far leva sulle risorse rimaste e sulla resilienza.
Io credo nel cambiamento, rimango sempre sorpreso dalle persone che riescono a rialzarsi da situazioni anche estremamente drammatiche; tuttavia, nel caso del tipo C è molto difficile: questi pazienti sono più vicini all’entropia. Riuscire a scivolare verso il tipo A e B è come risalire la corrente di un fiume: si può ma non è sempre possibile.
EP: Questo concetto rimanda al tema della precocità dell’intervento: quando il problema è presente da poco tempo, il cambiamento è più facile da ottenere. Viceversa, più aumenta l’età della persona e il tempo di permanenza nelle difficoltà, più tutte le relazioni si strutturano intorno ad essa, quindi è difficile “risalire la corrente”.
MF: Nel paziente di tipo C permane sempre una fragilità, poiché per anni ha strutturato il suo funzionamento attorno al prodotto.
Anche io credo nell’importanza della precocità di intervento, tuttavia è raro che il paziente si presenti in terapia all’inizio del problema, poiché il sintomo non è ancora visibile.
A tal proposito, per riuscire ad anticipare l’intervento, da un paio di anni abbiamo creato un sito rivolto a coloro che iniziano ad interrogarsi sulla loro relazione al prodotto, senza che sia già connotata come patologica e senza che abbia delle ricadute sulla quotidianità. In questo modo, iniziano ad arrivare pazienti a stadi più precoci. I loro problemi, non essendo così radicati, possono essere risolti attraverso alcune sedute. All’inizio, infatti, le possibilità di cambiamento sono più fluide e più facili, e se si interviene velocemente si ha molta più possibilità di ritrovare una relazione normale con la sostanza. Non bisogna aspettare di aver toccato il fondo per chiedere aiuto.
EP: Credo sia importante aprire la porta anche ai familiari e, qualora il soggetto non voglia chiedere aiuto, interrogarsi sui motivi sottostanti questo rifiuto, il più delle volte non banalizzabili ad una semplice contrarietà agli psicologi, ma riguardanti tematiche relazionali conflittuali con la famiglia.
MF: Esatto, spesso il processo di cura non inizia con la persona che esprime il sintomo ma con qualcuno nel nucleo famigliare che ha più coraggio di esprimersi e di “andare verso l’esterno”. Fortunatamente l’approccio sistemico offre diverse porte d’entrata al cambiamento.
EP: Grazie Maurizio per le tue risposte. A questo punto lascerei spazio alle due giovani colleghe, Sara Pegoraro e Sara Ranieri, che, all’interno del loro tirocinio pre-lauream, hanno letto il tuo libro e desiderano porti due domande.
Prima domanda: Ha avuto occasione di trattare pazienti adolescenti un po’ restii e non sempre pronti ad aprirsi con un terapeuta, come lavora con loro?
MF: Incontro maggiormente pazienti adolescenti nel mio studio privato, mentre in ospedale vi sono meno casi.
Per riuscire ad agganciarsi a loro è importante interessarsi a loro: alla loro vita ma anche alla loro dipendenza. Prima di vedere il prodotto come qualcosa da eliminare, è importante capire cosa gli adolescenti trovano nell’oggetto di dipendenza. Questo permette di entrare in connessione con loro, con ciò che li appassiona, per poterli accompagnare verso la guarigione.
Seconda domanda: Secondo l’approccio sistemico, dove è fondamentale coinvolgere nel trattamento la famiglia e il sistema di interazione, come si potrebbe agire nel caso in cui la famiglia non ne comprenda l’importanza e non riesca a farsi coinvolgere in tale trattamento?
MF: In primo luogo è importante capire il motivo per cui la famiglia decide di non rientrare nel processo terapeutico, poiché spesso hanno delle “buone” ragioni, nella loro ottica.
Inoltre, spesso il cambiamento nella relazione viene visto come una minaccia, non come un’evoluzione, quindi sarebbe importante analizzare anche questo aspetto.
Nel caso in cui non sia possibile coinvolgere la famiglia, è importante agire comunque sul singolo individuo, attraverso “porte di entrata” differenti.
Concludo dicendo che, al di là di quante persone siano presenti nello spazio terapeutico, è possibile utilizzare tale approccio: la grande ricchezza della teoria sistemica è il fatto che sia un modo di vedere la realtà, un’epistemologia e non una tecnica di intervento vero e proprio. Va oltre la terapia, è un modo di vedere le cose, ed è questo che continua ad appassionarmi ogni giorno.
Nda: Si ringraziano Sara Pegoraro e Sara Ranieri, per il loro essenziale contributo nella stesura di questa intervista