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Legame tra salute mentale e Covid-19: uno studio di conferma

In questo periodo molti studiosi si sono interrogati sul rapporto tra salute mentale e attuale pandemia di Covid-19 riscontrando un legame con stati ansiosi

Di Angela De Figlio

Pubblicato il 18 Feb. 2021

Aggiornato il 19 Feb. 2021 12:08

Avvalorata la connessione tra stato ansioso nella popolazione generale e  COVID-19, quale principale effetto dell’attuale pandemia in corso.

 

Sembra sia una conferma, giunta ulteriormente all’attenzione del mondo scientifico e della comunità, l’insorgenza di effetti pandemici sulla salute mentale a causa del diffondersi del COVID-19, che la popolazione mondiale ha imparato a conoscere come patologia derivante dal virus appartenente alla famiglia dei coronavirus, di cui in realtà il SARS-COV-2 ne costituisce un nuovo ceppo non individuato in precedenza nell’uomo e caratterizzato principalmente da malattia respiratoria acuta grave, spesso letale. A dimostrazione di ciò, uno studio britannico di recente pubblicazione sulla nota rivista Lancet Psichiatry, precisamente nel giugno corrente anno, ha mostrato dati inerenti il rapporto tra salute mentale e COVID-19 di gran lunga simili al precedente studio italiano condotto dal gruppo di ricerca Brainfactor Research del maggio 2020.

Ultimamente il tema relativo alla pandemia da Covid-19 sta interessando la comunità scientifica, principalmente per conoscere le caratteristiche di tale minaccia, che ha inevitabilmente colpito il mondo intero e stravolto in modo invadente la nostra quotidianità, col fine di combatterla, annientare tale virus e ridurre il più possibile gli effetti di quella che somiglia ad una guerra silente, le cui vittime si contano oramai numerose. Nell’attesa dei vaccini e di cure più appropriate, di cui nel corso di questo anno si sta ascoltando molto tra opinioni disparate e informazioni spesso contrastanti, sembra evidente tra la popolazione mondiale la messa in atto di comportamenti che in alcuni casi appaiono poco ragionevoli o quantomeno poco aderenti a quelle che sono le norme e le restrizioni a cui faticosamente ci stiamo abituando. Forse ciò è frutto di una confusione ingenerata dal massiccio bombardamento mediatico, a scapito di una reale comprensione di quanto stia accadendo realmente intorno a noi. Importante infatti, è sottolineare il sempre più ravvisabile senso di incertezza, accompagnato da un forte disagio sociale e spesso personale, che assume in molti casi le forme di veri e propri quadri patologici scaturiti dalla difficoltà di gestire una quotidianità completamente nuova, che va in direzione di un altrettanto futuro incerto rispetto alla risoluzione di questa pandemia.

Per tale ragione, molti studiosi si concentrano anche sul rapporto tra salute mentale e la attuale pandemia e tra questi emerge il gruppo di ricercatori italiano della Brainfactor Research, che opera in modo indipendente e il cui scopo è ravvisabile nella promozione e diffusione di studi in ambito della sanità e delle neuroscienze nello specifico, sempre al servizio della comunità e che diffonde i risultati da essi derivati su propri canali mediatici e a mezzo stampa. Guidato dal suo direttore Marco Mozzoni, la Brainfactor Research ha condotto recentemente uno studio che, a detta dello stesso Mozzoni “ha fatto ricorso ad un modello innovativo, basato sulla semplificazione dei processi e l’utilizzo ampio delle nuove tecnologie”, e che ora possiamo affermare abbia in qualche modo anticipato tempi e numeri del problema indagato anche dal successivo studio britannico, che porta, quest’ultimo, le firme di centri di eccellenza e università come Cambridge, la University College London (UCL), il Greater Healt Service (NHS), insomma un vero orgoglio per i nostri studiosi italiani.

Ricordiamo a grandi linee che la ricerca italiana ha coinvolto circa 130 partecipanti in tutta Italia, sottoposti al Coronavirus Anxiety Scale (CAS), nella sua versione italiana a cura di Marco Mozzoni e Elena Franzot, ovvero un questionario online relativo alla salute mentale nelle ultime due settimane, messo a punto come primo test di screening dell’ansia associata al Coronavirus dal Dipartimento di Psicologia della Newport University in Usa. Come risultato fondamentale si deve riportare la presenza nel 22% della popolazione censita, di uno specifico disordine di natura ansiosa collegato alla pandemia, principalmente riguardante la fascia di età dei più giovani, che lo stesso Mozzoni, in qualità di clinico, riferisce essere la parte della popolazione che negli ultimi tempi si rivolge con maggior frequenza ed urgenza allo specialista per un consulto di natura psicologica. I giovanissimi in effetti, hanno ottenuto risultati che potremmo definire patologici alla somministrazione del test, mostrando una prevalenza del 39% con valori di picco rispetto ad esempio ad altre fasce di età. Nel test viene chiesto al soggetto sottoposto di attribuire un punteggio da 0 a 4, indicante la frequenza con cui nelle ultime due settimane egli abbia esperito vissuti così come descritti dal quesito. La conferma di questa tendenza a cui si è appena accennato, deriva da simili risultati di uno studio britannico pubblicato sulla nota rivista Lancet, nonostante debba considerarsi la differenza nella dimensionalità del campione oggetto delle due ricerche, i metodi di rilevazione e le popolazioni coinvolte (britannica e italiana). Così come lo studio della Brainfactor Research ha rilevato un interessamento preponderante nella popolazione giovanile italiana di disturbi ansiosi da pandemia, allo stesso modo lo studio su Lancet certifica una incidenza patologica nel 36,7% dei giovani al di sotto dei 24 anni. Altro dato rilevante, che avvicina i risultati emersi da entrambe le ricerche, è legato al rapporto inversamente proporzionale tra età e i livelli significativi dal punto di vista clinico dell’ansia, per cui avanzando con l’età gli effetti clinici pandemici diminuiscono.

Più nello specifico, lo studio britannico di Pierce pubblicato su Lancet, ha costituito una disamina dei cambiamenti relativi alla salute mentale nella popolazione britannica adulta, nel periodo precedente e durante la quarantena. Inoltre, esso rappresenta una seconda analisi di uno studio longitudinale nazionale, il cui metodo impiegato è detto Studio Longitudinale familiare o UKHLS (Household Longitudinal Study), che consiste cioè in una tipologia di studio di controllo continuativo che ha coinvolto più di 40000 famiglie, le quali avevano già iniziato la partecipazione nel 2009. Per cui dal 23 al 30 aprile 2020, i membri delle famiglie partecipanti alla precedente raccolta dati di età maggiore di 16 anni, inizialmente sottoposti ad intervista di persona, sono stati nuovamente invitati a completare il test COVID-19 questa volta nella versione online. Il test di screening impiegato è stato il General Health Questionnaire  (GHQ-12) che valuta il benessere generale e la qualità della vita degli individui. Dobbiamo precisare tuttavia, che tale strumento, nonostante correli fortemente a diagnosi cliniche di disturbi psichiatrici e sebbene sia stata applicata un’alta soglia di punteggio per l’analisi della prevalenza, non costituisce una valutazione clinica in senso stretto. Tale limite vorrà significare che, ad esempio, la notevole proporzione (44%, 95% CI 39.2-48.9)  di donne con età compresa tra i 16 e i 24 anni, che abbiano riportato punteggi significativi nell’aprile 2020, vada interpretata con molta attenzione e non vorrà automaticamente significare che quasi la metà delle donne giovani nella popolazione richieda un trattamento per una malattia mentale. L’aspetto prettamente tecnico del suddetto metodo impiegato, generalmente ha previsto ripetute analisi trasversali per esaminare la tendenza nel tempo, inoltre sono stati definiti dei modelli di ‘regressione ad effetto fisso’ per identificare il cambiamento nella persona, comparato con i precedenti andamenti. La dimensione del campione coinvolto è stata di circa 17542 soggetti (di cui 10165 donne e 7287 uomini) suddivisi per diverse fasce di età (16-24, 25-34, 35-44, 45-54, 55-69 e  >_ 70), secondo le diverse etnie rilevate nella popolazione e per paese o regione dell’UK. Da ciò è emerso che verso la fine del mese di Aprile, la salute mentale nell’UK è stata deteriorata come si evince dalla comparazione con l’andamento del periodo precedente al Covid e in particolare si è rilevato un incremento dei punteggi al test GHQ-12 nelle fasce di età 18-24 anni. Tale studio inoltre, ha identificato gruppi nella popolazione che avevano una più alta prevalenza di stress psicologico prima della pandemia (donne, persone più giovani e bambini in età prescolare) per i quali si è registrato successivamente un maggior incremento dello stress mentale in seguito agli effetti da lockdown, a supporto ciò dei risultati di precedenti segnalazioni sull’alta prevalenza di comuni disordini mentali e autolesionismo nelle adolescenti e nelle donne nella fascia di età 16-24.

La riflessione che ne deriva si orienta sicuramente sulla necessità di ottenere un maggiore coinvolgimento delle politiche che enfatizzano i bisogni delle persone, delle donne, dei giovani e dei bambini in età prescolare, in quanto esse potranno giocare un ruolo fondamentale nella prevenzione futura affinché si preservi la salute mentale della comunità, dal momento che il Covid, come si accennava in precedenza, ha profondamente interferito con ogni aspetto della vita di tutti i giorni. Gli effetti delle restrizioni adottate, infatti, includono non solo difficoltà economiche determinate da entrate più basse, ma anche amplificazioni di dinamiche familiari preesistenti quali ad esempio violenza domestica, per chi già viveva tale situazione drammatica; cambiamenti di rotta nell’educazione dei figli, il maggior tempo disponibile da organizzare, lo smart working e le difficoltà di molti genitori nel coniugare le nuove modalità di lavoro con una didattica dei propri figli divenuta perlopiù a distanza e con tipologie di mezzi mai utilizzati prima, richiedente, soprattutto per i più piccoli, un maggior coinvolgimento da parte dell’adulto; la paura di contrarre l’infezione, l’isolamento e la riduzione dei contatti sociali, sono tutti fattori che hanno influito in modo decisivo la vita degli individui durante il lockdown.

 

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