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“Pensarti non è mai abbastanza”: lo stile di attaccamento e l’idealizzazione dello stalker

Stalking: la ricerca ha indagato i fattori di vulnerabilità degli stalker in termini di attaccamento e di costruzioni narrative coerenti legate all’infanzia

Di Tatiana Pasino

Pubblicato il 19 Feb. 2021

Lo stalking è definito come un fenomeno caratterizzato da comportamenti ripetitivi e invadenti, di sorveglianza, controllo, comunicazione e dalla ricerca attiva di una vittima, figura che ha paura, che è infastidita o preoccupata da tali attenzioni (Civilotti et al., 2020).

 

In Italia questo comportamento è un crimine e la legge italiana afferma quanto segue:

… è un reato, punibile con la reclusione che varia da sei mesi a quattro anni, dovuto dal minacciare o molestare un’altra persona al tal punto da causare un grave, continuo stato di ansia o paura, o di infondere nella vittima o nelle vittime una paura motivata per la propria sicurezza o per la sicurezza di parenti o altre persone legate alla vittima o alle vittime in virtù di parentela o di relazione emotiva o per costringere la vittima o le vittime a cambiare le sue abitudini di vita. (Acquadro Maran et al., 2017)

Rosenfeld (2003) ha identificato gli alti tassi di recidiva degli stalker dopo la detenzione, nello specifico il 49% dei casi durante un periodo che varia dai due anni e mezzo fino ai 13 (l’80% dei quali ha recidiva durante il primo anno). Questi dati suggeriscono come gli atti clinici incentrati sugli stalker debbano essere migliorati (Coker et al., 2016; MacKenzie & James, 2011; Rosenfeld et al., 2007). Diversi studi epidemiologici hanno evidenziato la diffusione del fenomeno dello stalking, con una prevalenza che varia dal 12% al 16% tra le donne e dal 4% al 7% tra gli uomini (Dressing et al., 2006; Purcell et al., 2002).

Patton e colleghi (2010) hanno messo in luce il ruolo di un attaccamento disfunzionale, nello specifico Kienlen e colleghi (1997) hanno intuito come molti stalker presentano uno stile di attaccamento insicuro che viene rinforzato dal rifiuto da parte delle vittime e dalla loro riluttanza a continuare la relazione. Dennison e Stewart (2006) hanno scoperto come sentimenti di gelosia, rabbia, la necessità di controllo e l’attaccamento disfunzionale possano essere dei predittori di questo comportamento persecutorio. La lettura scientifica evidenzia l’importanza delle esperienze infantili che plasmano il funzionamento emotivo (Cassidy, 1994; Felitti et al., 1998; Mikulincer & Shaver, 2007). Considerando la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1958), molti studi sugli stalker hanno indicato che le origini dei comportamenti persecutori affondano le radici in profonde ferite legate alle esperienze infantili e alle prime interazioni con i caregiver che influenzano le credenze, le aspettative e i comportamenti nelle relazioni future, in particolare nelle relazioni affettive (Feeney & Noller, 1990; Shaver & Hazan, 1987). Coerentemente con questa premessa e utilizzando l’AAI (Adult Attachment Interview; 1986, 1987), la letteratura indica come i soggetti che sviluppano narrazioni coerenti delle loro esperienze infantili sono impegnati in relazioni più soddisfacenti rispetto agli individui insicuri (Holland & Roisman, 2010).

Nella maggior parte degli studi viene indicato come uno stato della mente (SoM) preoccupato sia collegato più fortemente all’adozione del comportamento persecutorio (Cupach & Spitzberg, 2014; Davis et al., 2000; Patton et al., 2010). A causa della vulnerabilità personale legata all’immagine di sé, questi soggetti ricercano la prossimità in modo estremizzato. Al contrario degli studi sopra citati, Levinson e Fonagy (2004) hanno scoperto come gli stalker hanno maggiori probabilità di avere uno stato della mente sprezzante caratterizzato da un disconoscimento legato alle proprie esperienze precoci e un livello molto basso di capacità di ragionamento riflettente. Secondo i ricercatori, la difficoltà nei processi cognitivi e la bassa capacità di mentalizzazione può essere collegata ad un monitoraggio aggressivo, rendendo questi soggetti più inclini a danneggiare altre persone (Civilotti et al., 2020). Nonostante le correlazioni positive tra attaccamento insicuro-ansioso e stalking (Guerrero, 1998; Lewis et al., 2001; MacKenzie et al., 2008), i risultati non hanno ancora raggiunto una coerenza empirica.

Civilotti e colleghi (2020) hanno svolto una ricerca per indagare i fattori di vulnerabilità degli stalker, in termini di problemi di attaccamento, di costruzioni narrative coerenti legate all’infanzia e agli atti persecutori attuati. Lo scopo dello studio presente è quello di fornire una panoramica del funzionamento emotivo negli stalker per personalizzare interventi efficienti che tengano conto di fattori quale storia e regolazione emotiva.

Il Comitato Bioetico dell’università di Torino ha approvato lo studio cross-sectional basato sulla somministrazione di due interviste cliniche in un campione maschile composto da 14 stalker detenuti in strutture riabilitative situate nel nord Italia (Civilotti et al., 2020). L’Adult Attachment Interview (AAI) è un colloquio clinico semi strutturato basato su psicologia dello sviluppo ed esperienze di attaccamento precoce. L’intervistatore ha chiesto ai soggetti di segnalare il loro stato mentale per valutare i modelli interni relativi alle relazioni precoci interiorizzate (George et al., 1985). La procedura si articola in tre fasi: 1) l’analisi delle esperienze, 2) l’analisi del SoM e 3) l’analisi di traumi o perdite irrisolte. In secondo luogo, l’analisi qualitativa del SoM valuta le caratteristiche procedurali della conversazione che possono essere collegate ai modelli interiorizzati da parte del soggetto (Civilotti et al., 2020). Tale analisi valuta nove componenti per valutare il SoM rispetto ai caregiver (ad esempio, idealizzazione e rabbia) o il SoM del soggetto in modo complessivo (ad esempio, processo metacognitivo e paura della perdita). È stata somministrata anche l’IOI, un’altra intervista semistrutturata composta da otto domande a risposta aperta, utili per incoraggiare i soggetti ad applicare le capacità di mentalizzazione al loro reato persecutorio più grave. Con questa intervista, i soggetti sono invitati a riflettere sui propri pensieri e su quelli degli altri, compresi quelli della vittima. L’IOI mira a far ragionare il soggetto sui propri comportamenti e su quelli altrui come atti basati su credenze, pensieri, sentimenti e desideri (Civilotti et al., 2020).

I risultati di questa ricerca mostrano come gli stalker attuano una serie di comportamenti invadenti motivati ossessivamente dalle credenze legate alla percezione del rifiuto, alla rappresentazione dell’Io come giusto, alla mancanza di controllo degli impulsi, all’ idealizzazione delle figure di attaccamento, all’ansia da separazione e ad una teoria personale soggettiva sullo stalking (Civilotti et al., 2020). Dato che le variabili sono tante e che nessuna strategia unica si è dimostrata efficace per trattare questo fenomeno, bisogna strutturare un trattamento ad hoc per ogni caso specifico (Sgarbi, 2015). Interrompere la sequenza del comportamento persecutorio è complesso. Di conseguenza è necessario rendere consapevoli gli stalker delle dinamiche affettive ed emotive sottostanti per cercare di preservare l’incolumità delle loro potenziali vittime (Civilotti et al., 2020).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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