Difficoltà comunicative e senso di impotenza sono ostacoli spesso lamentati dai caregivers di persone affette da demenza.
Ad uno stadio moderato-grave di malattia, infatti, la produzione e comprensione del linguaggio sono deficitarie ed emerge la necessità di affidarsi ad altri mezzi di comunicazione. La parola diviene per il malato un ulteriore stimolo indecifrabile all’interno di un contesto già di per sé di difficile comprensione. Occorre, dunque, affidarsi alla comunicazione non verbale ovvero a quell’insieme piuttosto eterogeneo di indizi perlopiù corporei e spaziali che accompagnano e danno significato all’atto linguistico. Nel caso della demenza, assumono particolare importanza la prossemica, ovvero l’utilizzo dello spazio e delle distanze relazionali (Hall, 1968), e l’aptica, ovvero il contatto corporeo.
È sempre bene tenere a mente che il contatto e la vicinanza fisica sono accettate solo se appropriati alla situazione, compresi dalla persona e se non impongono un’intimità maggiore di quella desiderata (Hollinger & Buschmann, 1993); in caso contrario essi causeranno agitazione e reazioni automatiche di attacco-fuga.
L’importanza del contatto fisico nel processo di cura
Il tatto è il primo senso che si sviluppa ed è fondamentale lungo tutto l’arco di vita (Montagu, 1978). La quantità di corteccia cerebrale dedicata all’interpretazione delle sensazioni provenienti dalle dita (dolore, temperatura, pressione) è maggiore rispetto a qualsiasi altra parte del corpo.
Come anticipato, il sistema aptico riguarda l’utilizzo del contatto corporeo come mezzo comunicativo. Il contatto può essere reciproco, come ad esempio la stretta di mano, o unidirezionale. Inoltre, è possibile individuare zone del corpo vulnerabili, toccate solo da professionisti o da persone molto intime, e non vulnerabili, il cui contatto è permesso anche ad estranei (ad esempio la mano). Il contatto fisico è un atto comunicativo ambiguo che dipende anche da fattori culturali, possiamo infatti distinguere culture del contatto (arabe, latine) e del non contatto (nordiche, giapponese, indiana).
Spesso nelle strutture di assistenza sanitaria le interazioni fisiche sono estremamente orientate agli aspetti sanitari (lavare, vestire, alimentare) ma mancano di significato emotivo.
Ciò potrebbe far ricordare gli studi di René Spitz condotti negli anni ’40 negli orfanotrofi su bambini precocemente separati dalle madri, specie durante il primo anno di vita. Con ospedalismo l’autore si riferiva a una sindrome caratterizzata da disturbi del comportamento, ritardo dello sviluppo cognitivo e affettivo e fragilità somatica, che nel peggiore dei casi portava al marasma e alla morte stessa. Essa si presentava quando, nonostante venissero fornite cure fisiche adeguate e soddisfatti i bisogni fisiologici, vi era una mancanza di stimolazione sensoriale e di scambi e comunicazioni di natura affettiva.
Da queste riflessioni emerge, dunque, la differenza tra un contatto quotidiano, meccanico, automatico, breve e orientato all’obiettivo, e uno terapeutico, consapevole, partecipato, prolungato e volto a procurare benessere (Goldschmidt & van Meines, 2011).
Nurturing touch: il tocco che nutre
Con massaggio si intende la semplice ‘manipolazione manuale dei tessuti molli per promuovere la salute e il benessere’ (Moyer, Rounds & Hannum, 2004).
Spesso il massaggio alla mano viene utilizzato nelle cure palliative (Osaka et al., 2009), nella demenza grave (Yang et al., 2007) e nel dolore post-operatorio (Wang & Keck, 2004), con l’obiettivo di fare compagnia al malato, offrire supporto emotivo, una presenza e momenti relazionali significativi. Chiamato più tecnicamente nurturing touch (‘il tocco che nutre’), tale massaggio è una tecnica sviluppata dalla massoterapista neozelandese Peggy Dawson che rientra nella medicina complementare e alternativa (CAM) o medicina integrativa, un approccio olistico che ovviamente non intende sostituire la medicina tradizionale ma accompagnarla.
La mano è una parte non vulnerabile del nostro corpo, facile da raggiungere e punto di contatto accettabile tra persone di diverso genere (Goldschmidt & van Meines, 2011).
Gli effetti riscontrati di questa pratica sono: riduzione di cortisolo, ormone dello stress (Field, 2000); liberazione di endorfine, analgesici naturali del corpo (Kaada & Torsteinbø, 1989); aumento di ossitocina, ormone peptide associato al rilassamento (Rapaport, Schettler & Bresee, 2010). Relativamente ai pazienti con demenza, dagli studi sembra che il nurturing touch riduca l’aggressività, l’agitazione e gli stati ansiosi (Harris & Richards, 2010; Wu, Wang & Wang, 2017).
Il massaggio alla mano sembrerebbe dunque un efficace strumento di relazione con la persona affetta da demenza, specie nelle fasi avanzate di malattia, contribuendo ad una migliore qualità di vita. A ciò si aggiungono anche effetti positivi per il caregiver, riferendo un aumento del tono dell’umore (Field, 2000).
Il nurturing touch è uno strumento che può essere insegnato a operatori e familiari per migliorare la qualità delle cure e per praticarlo è necessaria l’autorizzazione medica dal momento che in determinate patologie o condizioni sanitarie potrebbe essere controindicato.