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Svezzamento ed eziopatogenesi dei disturbi alimentari secondo una prospettiva psicodinamica

Secondo una prospettiva psiodinamica lo svezzamento rappresenta il doloroso dissolvimento di un’illusione simbiotica con la madre e coi beni da lei forniti

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 19 Nov. 2020

Aggiornato il 08 Feb. 2024 14:58

La potenziale criticità della fase dello svezzamento è legata all’improvviso infrangersi dell’illusione di un rapporto simbiotico tra madre e bambino – di cui l’allattamento al seno rappresenta la conferma fisiologica ed affettiva. 

 

C’è tutta un misteriosa modalità di comunicazione, intensa ed esclusiva, che si organizza attraverso l’allattamento. Lo sguardo che la madre rivolge al bambino attaccato al proprio seno, il suo modo di tenerlo tra le braccia, il ritmo e l’intensità della poppata, lo sguardo del bambino sulla madre, non vanno esenti da connotati affettivi la cui presenza rende l’attaccamento al seno un autentico rito, personale e gelosamente custodito dalla diade, in cui il nutrimento non ha soltanto valenza fisiologica, ma si rivolge alla totalità della dimensione esistenziale del bambino.

Il neonato che si attacca al seno introietta la presenza della madre come quella di un oggetto stabile e sicuro, nutrendo il corpo con la bocca e la psiche con lo sguardo. Il bambino si attacca alla madre non soltanto con le labbra, dunque, e attraverso il rassicurante ritmo della poppata costruisce il primo contatto con la realtà, ponendo le basi della propria dimensione egoica.

Il passaggio all’alimentazione autonoma rappresenta la cesura di questo abbraccio confortante, in cui il nutrimento fisico-affettivo deriva direttamente dalla madre e da quest’ultima viene regolato. Il bambino può vivere questo momento con angoscia e sofferenza e percepire nello stesso un senso di abbandono da parte della madre che non vuole più nutrirlo. Questo può condurlo al rifiuto di un nutrimento che, per quanto offerto dalla madre, non deriva più dal suo seno, bensì da strumenti artificiali – il cucchiaio, la tazza o il biberon – che il bambino percepisce come pericolosi surrogati dell’oggetto materno.

In un momento evolutivo in cui il terrore del “non conosciuto” assume un’intensità psichicamente non controllabile, rifiutarlo è la sola modalità che il bambino ha di liquidarne la veemenza, la potenzialità aggressiva. In questo senso il rifiuto del nutrimento è un atto di ostilità, un senso di rivalsa verso una madre cattiva, ma anche il disperato tentativo di salvataggio del Sé da un’angoscia endogena che minaccia di distruggerlo.

La generazione psichica del rifiuto alimentare: Melanie Klein ed Esther Bick

Nella finalità di spiegare la presenza di un’aggressività innata verso la madre – testimoniata dalla presenza della fase schizoparanoide – la Klein ha analizzato il concetto di svezzamento qualificandolo come uno tra i possibili elementi generatori della pulsione distruttiva nei confronti dell’oggetto materno (1957). In particolare ella evidenzia come lo svezzamento costituisca una sorta di dichiarazione abbandonica irreversibile, per quanto implicita, da parte della madre verso il figlio, che dopo questo abbandono si sente vittima di un’angoscia depressiva causata dalla consapevolezza, rabbiosa e disperata al contempo, di aver perduto l’oggetto d’amore.

La madre interiorizzata prende dunque le sembianze di un oggetto persecutorio crudele e minacciante del quale il bambino avverte la necessità di liberarsi. E il miglior modo per farlo è privarla del nutrimento. Rifiutare il cibo per non nutrire l’immagine della madre che custodisce dentro di sé è al contempo uno strumento per manifestare la propria ostilità all’oggetto materno che gli offre alimenti non provenienti dal “seno buono” (1952).

A tal proposito la Klein (1952) cita il caso di un bambino che rifiutava puntualmente di ricevere il nutrimento artificiale da parte della madre, dibattendosi e dimenandosi tra le sue braccia ogni volta in cui la donna avvicinava alle labbra del neonato il biberon. Al contrario, quando era il padre a porgergli il latte, il piccolo si attaccava e succhiava avidamente fino a terminare la bottiglietta. Il messaggio del bambino è evidente: egli non voleva accettare il nutrimento offerto dalla madre “cattiva e abbandonica” per non nutrire l’immagine interiorizzata che custodiva di lei. Non consentirsi il nutrimento equivaleva a distruggere la madre interiorizzata e, dunque, a distruggere anche l’angoscia distruttiva e il senso di avidità inappagata dalla stessa provocata. Era la vendetta verso il seno (madre)- cattivo (Klein, 1952; Bruch, 1973) .

La Bick non fa esplicito riferimento all’invidia per il seno materno. Il petto della madre è al contrario un abbraccio appagante che consente di costruire il Sé e il cui abbandono improvviso può comportare un trauma nell’incipiente organizzazione interna del bambino. Ma anche la Bick condivide il pensiero della Klein circa l’esistenza di pulsioni aggressive verso la madre già durante l’allattamento e ne identifica la presenza nell’intensificazione del ritmo della poppata o della forza della presa sul seno. In quel momento l’avidità libidica è volta ad introiettare l’oggetto buono e i beni dallo stesso custoditi, ma è anche un attacco finalizzato a contrastare il senso di persecuzione materna da cui il bambino si sente minacciato nelle prime fasi della vita (Harris, Bick, 1960).

Il processo di svezzamento vede un notevole incremento di tale aggressività, la cui manifestazione si arricchisce di un contenuto di ostilità verso la madre, una condotta ritorsiva del bambino verso il rifiuto materno. Un rifiuto che in certi casi può mostrarsi totale – e dunque il bambino si sottrae del tutto all’introduzione del cibo – e che in altri casi si manifesta attraverso un’esplicita condotta oppositiva verso il nutrimento, che viene accolto con una mimica facciale di disgusto, spesso unita ad episodi di pianto e nervosismo diffuso: il bimbo gira la testa  verso la parte opposta al biberon, chiude la bocca, piange, si dimena prima di ingoiare il boccone. Il suo “non voler mangiare” è un’opposizione all’introietto, che dà voce ad un linguaggio preverbale cui è sottesa un’ostilità non solo verso il cibo, ma anche verso la madre che nello stesso viene identificata.

Effetti collaterali del pensiero concreto: il fallimento della reverie

Il rifiuto e l’ostilità al nutrimento possono altresì manifestarsi con sintomi somatizzati, quali coliche addominali ed episodi di vomito, che in questi caso rappresentano la velleità di espulsione totale del cibo (e quindi della madre) unita all’impossibilità di assimilare contenuti psichici e di nutrirsene ai fini del sostentamento.

Il cibo è un elemento ostile, un corpo estraneo che non può essere digerito perché la madre non ha fornito al bambino le sicurezze emotive in grado di stemperare le angosce di disintegrazione seguenti la separazione materna.

Si è verificato quello che Bion chiama fallimento della reverie, uno stato mentale grazie al quale la madre recepisce il contenuto psichico del bambino, altresì quello più angoscioso, e glielo restituisce in una modalità meno distruttiva e minacciosa per il Sé (1962a; 1962b). La reverie consente alla madre di elaborare funzionalmente gli elementi più grezzi e frammentari della psiche del bimbo, quelli più incomprensibili, oscuri, perché senza forma né significato; quegli stessi elementi sensoriali dai quali si sente terribilmente minacciato e di fronte ai quali si percepisce debole e vulnerabile.

Il ventre psichico della madre rielabora l’inconcepibile al posto del figlio, consentendo la trasformazione dei temibili elementi beta in elementi psichici cognitivamente più evoluti ed emotivamente più controllabili, i c.d. elementi alfa. Ipotizzando un’analogia tra apparato digerente e dimensione psichica potremmo dire che la madre deve ricevere nella propria mente le identificazioni proiettive del bambino, al fine di scomporle, di “digerirle” al posto suo (1962a; 1962b).

Ovviamente, nel caso in cui la madre non si mostri in grado di svolgere la funzione di reverie, strettamente collegata alla funzione alfa, il bambino sarà costretto a fronteggiare da solo i temibili contenuti del proprio apparato psichico, e l’evacuazione totale degli stessi sarà la sola salvezza possibile: ecco dunque il vomito come l’espressione concreta – l’acting out – di questa espulsione “salvifica” (1962a). Ma in tal modo il cibo viene allontanato senza essere stato digerito né assimilato, esattamente come non è stato assimilato né rielaborato il contenuto psichico degli elementi beta, con la conseguenza che né il corpo né la psiche potranno ricevere l’adeguato nutrimento.

La madre disfunzionale: quando il bambino è un invasore nella mente

Una madre che tiene atteggiamenti di questo genere percepisce il bambino non come un nucleo esistenziale da accudire in senso evolutivo, bensì un oggetto dissociato nella sua mente, un frammento distonico e disturbante che la aggredisce, depredandola dei suoi beni. Molte madri si sentono inconsciamente perseguitate dal proprio figlio poiché tendono a proiettare in lui un vissuto conflittuale infantile sofferto a causa di una madre abbandonica e ostile e trasmesso in una sorta di contagio generazionale.

Questa ambivalenza di odio e amore non conferisce al bambino la soggettività nutrita, il senso del Sé adeguato, l’emotività stabile e organizzata necessari ad affrontare il processo di separazione materna, della quale lo svezzamento costituisce un passo fondamentale. La scarsa dimensione empatica della madre si traduce inoltre in un’incapacità di comprendere i bisogni e le esigenze del piccolo e, dunque, nell’impossibilità di individuare il modo e il momento migliori per somministrare il cibo o farne cessare l’assunzione. Se ne origina una ritmicità alterata e disorientante a causa della quale il bambino viene talvolta costretto ad alimentarsi anche quando non ha fame e talaltra viene lasciato troppo a lungo in attesa di un nutrimento che, anche quando arriva, è somministrato in modalità psichicamente disorganizzata.

Abituata a pensare in modo operatorio più che riflessivo, la madre eserciterà sul bambino una modalità di accudimento basata sulla risposta ansiosa, sull’agito, sul contatto fisico non empatizzato, ma finalizzato al mero controllo corporeo.

In questi deficit di simbolizzazione il bambino non potrà avere accesso ai propri contenuti emotivi, altresì quelli più angosciosi, e non gli resterà che liberarsene in modalità agite e irriflessive, come i disturbi della digestione, le coliche, il vomito, nel tentativo di costruire uno spazio psichico stabile cui la madre non è stata in grado di dar vita.

Al contrario, il senso di estraneità e di risentimento che ella nutre verso il neonato, visto come una parte non integrata del Sé, non potrà non riflettersi sulla psiche del bambino stesso, condannandolo al dominio di un percetto persecutorio che potrà essere annientato o con il vomito e, dunque, l’espulsione diretta del cibo, o con la mancata alimentazione, ovvero il rifiuto totale dell’introduzione alimentare.

L’età adolescenziale: ancora il rifiuto del cibo come rifiuto dell’oggetto materno

Lo svezzamento rappresenta il doloroso dissolvimento di un’illusione simbiotica con la madre e con i beni dalla stessa forniti. Questo si traduce nella mancata gratificazione di una pulsione orale che, dopo il periodo di acquiescenza “sublimante” garantito dalla fase di latenza, torna a presentarsi con intensità nello stadio adolescenziale; ma l’adolescenza è anche una fase evolutiva in cui il risveglio pulsionale, pur ispirato da finalità autonomistiche e di affermazione del Sé, tende ad esprimersi attraverso agiti regressivi.

Proprio questa regressione comporta il riproporsi intenso e vigoroso di bisogni orali tipici dell’infanzia, che l’adolescente crede di poter dominare attraverso il controllo dell’introduzione del cibo, arrivando talvolta alla sospensione dello stesso. Sfuggendo il cibo si dà voce ad una serie di conflitti non verbalizzati che proprio attraverso il rifiuto nutritivo trovano un’ illusione di dominio, unita alla convinzione di poter affermare il Sé solo distruggendo la “madre-Sé”.

Ancora una volta, come si era verificato durante la fase dello svezzamento, si ripresenta la sovrapposizione psichica tra cibo e oggetto materno, visti entrambi come fonte di nutrimento ed energia vitale, ma anche di persecuzione invasiva e annichilente.

È pertanto possibile affermare che, nell’adolescenza come nello svezzamento, il rifiuto del cibo è il rifiuto di un cattivo introietto materno, cui si unisce il rifiuto di Eros, della vita e dell’autoconservazione garantita dalla presenza del nutrimento. È il rifugio in un ascetismo che nega ogni pulsione vitale, ma è altresì un tentativo di negazione della vita, un investimento egoico su Tanatos, è la resa al principio persecutorio di autodistruzione generato da una madre cattiva.

Distruggere il Sé si rivela necessario a portare a termine il progetto di distruzione legato all’odio verso la madre e all’odio verso il Sé che nella madre si identifica, in una crudele ricorsività simbiotica. Infrangere l’identificazione patologica tra nutrimento e madre e sciogliere il legame libidico “crudele” costruito con quest’ultima, può rivelarsi il primo passo utile ad ottenere un investimento pulsionale “erotico”- in quanto ispirato da Eros – volto alla gratificazione delle pulsioni considerate vitali, e dunque della vita stessa.

 


 

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion W.R. (1962a), Una teoria del pensiero. In: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Roma, Armando, 1970;
  • Bion W.R, (1962b), Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972;
  • Bruch, H. (1973), Patologia del comportamento alimentare, Tr.it. Feltrinelli, Milano (1977);
  • Cresti, L. Nassim, S. (2007), Percorsi di Crescita: dagli occhi alla mente, Borla, Roma;
  • Harris, M., Bick, Esther, (1960), Scritti sullo sviluppo del bambino e sul training psicoanalitico, tr.it. Astrolabio Ubaldini, Roma;
  • Klein, M. (1952), Il mondo interno del bambino, Bollati Boringhieri, Torino.
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