Il presidente della SOPSI, che fungeva da chairman, presentò i due relatori sottolineando la sinergia con cui le due correnti di pensiero che rappresentavano avevano negli anni concorso all’edificazione della Psichiatria pubblica e privata che faceva eccellere l’Italia nel campo dell’assistenza psichiatrica mondiale come l’OMS non smetteva di sottolineare.
Se la natura mi avesse dotato, oltre che di parecchie altre cosine che qui tralascio, dell’immaginazione di un narratore e non soltanto dell’aspirazione frustrante a diventarlo, non sarebbe stata necessaria la rilettura (si dice sempre che si è riletto un certo grande classico per non ammettere di non averlo mai letto prima) de La leggenda del grande inquisitore per dare origine al sogno ad occhi parzialmente aperti, o daydreaming (così hanno di recente nominato il fantasticare alcuni ricercatori israeliani e presto, scommetteteci, avremo i corrispondenti farmaci: stimolanti per i creativi di ogni ordine e grado e inibitori per tutti noi altri che non ci si metta strani grilli per la testa) che ho fatto al crepuscolo di una giornata di benvenuta pioggia da conclusione di estate, dedicata a riordinare sul computer gli scritti antichi e da cestinare concernenti il buon vecchio dipartimento di salute mentale.
In poche parole un pezzo della mia vita professionale e affettiva da riesaminare, riassaporare per un attimo superandone l’ormai stagnante odore di vecchio e stantio per poi spostarli nel dimenticatoio per una breve pausa di decompressione, prova di distacco, in attesa che si attenui la bastarda onnipresente nostalgia dei vecchi, per poi obliarli definitivamente con lo ‘svuota cestino’ che poi, dannato, è lui stesso ad istillarci nuovi dubbi dandoci la possibilità di ripensarci quando chiede se siamo proprio sicuri di eliminare definitivamente quei pezzi di vita che dopo sarà come non ci fossero mai stati. Chi non conoscesse La leggenda del grande inquisitore che è contenuta nel romanzo I fratelli Karamavoz di Fëdor Dostoevskij, ma che si può leggere anche separatamente essendo stata editata come libretto a se stante, sappia che l’idea centrale di questa storiella, l’unica originale peraltro, non è farina del mio sacco che, a dir la verità mi sembra da un bel po’ assolutamente vuoto e non solo di farina. Non la riassumo per non spoilerare chi non la conoscesse, diciamo solo che è da non perdere e certamente merita di leggerla anche senza inoltrarsi negli alambiccati casini della famiglia Karamavoz (tre fratelli e un padre che Dio ce ne scampi ad averli anche solo come vicini di casa in vacanza per due mesi) che pure si dice rappresenti un capolavoro assoluto della narrativa ottocentesca. Del resto lo stesso effetto di rifugio in un analfabetismo di ritorno me lo provoca quell’altro indiscusso capolavoro da tutti riconosciuto tale, in specie dai dotti psicoanalisti, che è La ricerca del tempo perduto di Proust. I capolavori non fanno per me, che sono evidentemente per le seconde scelte, gli avanzi di magazzino, le cose semplici, pane e salame invece della cucina gourmet. Al massimo il miglior rapporto qualità/prezzo e certamente non ‘il top di gamma’..
Il protagonista lo chiameremo FB (libro di facce) anche se non si trattava di face-book in quanto assumeva tutte le sembianze possibili in un libro di volti spauriti caratteristici dei nostri desolati (nel senso letterale di privi di sole perché spesso nascosti nelle viscere sottoterra degli ospedali con la scusa che i nostri hanno la tendenza a volare come angeli dalle finestre) ambienti in qualsiasi ruolo li si frequenti a lungo.
Quel giorno FB aveva l’aspetto smarrito di due genitori separati da quando il loro piccolo Marco aveva 6 anni che, dopo oltre quattro lustri di guerra aperta brandendo tranci dello stesso Marco, si ritrovavano seduti accanto in un corridoio adibito a sala d’attesa ad aspettare che l’assistente sociale di turno li ricevesse per raccogliere le notizie per una eventuale presa in carico già definita improbabile dall’amico psichiatra che li aveva indirizzati ai suoi colleghi del CSM di zona perché Marco non aveva nessuna intenzione di andare a farsi vedere e voleva semplicemente i soldi per partire per l’Olanda, convinto che il suo malessere fosse dovuto allo schifo che provava per la società italiana e per Mariella che ne condensava tutte le ipocrisie con il suo perbenismo cattolico che non le aveva impedito di scoparsi il suo (di Marco) migliore amico. La signora Ines strangolava l’incredulità di trovarsi lì con una sciarpa da ex rivoluzionaria sessuale sessantottina inutilmente pentita, l’avvocato Marcoccia nel completo grigio da lavoro dove sarebbe corso appena sistemato il figlio nella sua rigidità ricordava una salma in attesa di saldatura (come avevano potuto stare insieme quei due anche solo per fare quattro salti nel letto pareva ora un mistero). In effetti l’assistente sociale, professionale nella sua imperturbabilità, confermò loro che non c’erano gli estremi per un TSO e che bisognava convincere il ragazzo ad uscire dalla sua stanza dove era chiuso da 47 giorni e presentarsi personalmente alla loro struttura che era quella competente per territorio. Era inutile, spiegò loro con le parole la noia di chi ha dovuto ripetere mille volte le stesse cose a mille facce perplesse, che si recasse al CSM della ASL limitrofa dove Marco sapeva che dei suoi amici si erano trovati bene, perché in tempo di carenza di risorse la distinzione territoriale era applicata rigorosamente. Nella sanità sotto pressione c’era più che mai bisogno di regole e ordine. Appena l’assistente sociale, improvvidamente e non richiesta, fece intendere che la loro separazione quando Marco stava per affacciarsi alla scolarizzazione, era stata certamente un evento patogeno, avevano ripreso a litigare come 15 anni prima sulle rispettive responsabilità nella vicenda del duplice reciproco tradimento e persino sul rispettivo carico genetico familiare perché nella scheda, che era stata meticolosamente compilata, una domanda riguardava la presenza di precedenti psichiatrici nelle famiglie d’origine. Questo fatto che non si sapesse la causa delle malattie mentali permetteva di scagliarsi l’un l’altro colpe che camuffavano risentimenti e ferite ancora aperte. I toni della lite misero in imbarazzo la compassata salma che prese sottobraccio la antica rivoluzionaria e la condusse fuori, una volta in auto chiuse immediatamente i finestrini e soffocò le lagnanze incessanti con un’autoradio Voxson estraibile coevo del loro, oggi pareva incredibile, innamoramento.
Un giorno FB aveva avuto le guance scavate, i capelli neri lisci e sudici appiccicati agli zigomi e le occhiaie profonde del tossicodipendente con vent’anni di carriera alle spalle che era rimbalzato tra il CSM che lo rifiutava per via dell’abuso di sostanze ed il Sert che non voleva saperne a motivo delle voci insultanti che lo assillavano (lui stesso non sapeva se pensarsi vizioso o malato) ed era in attesa che la regione si convenzionasse con una sorta di comunità terapeutica che dei fratacchioni avevano aperto in un loro ex convento sui monti Cimini, svuotato dalla ormai cronica crisi vocazionale e che, accogliendo i disgraziati tout court, senza troppe etichette e specificazioni nosografiche, poteva essere considerata idonea per quelle che venivano chiamate ‘doppie diagnosi’, ma il processo di accreditamento aveva ottenuto da due anni la sospensiva dal TAR del Lazio per un ricorso presentato da altre comunità terapeutiche concorrenti. Nel frattempo spizzava il poker di spade di una overdose risolutiva dopo la quale il rimbalzo tra le strutture non avrebbe più visto lui come pallina ma le responsabilità a partire dall’ultimo ‘no’ cui sarebbe rimasto il cerino in mano.
Nonostante in quell’occasione fosse un palestrato trentacinquenne arrogante classico esemplare della periferia sud-est di Roma, la più grande paura FB l’aveva provata il giorno che era stato trascinato dalla guardia psichiatrica coadiuvata dalla polizia municipale e dai carabinieri con l’ordinanza del sindaco sulla base dei certificati di due psichiatri che non lo avevano mai visto e dopo una pesante sedazione in ambulanza (la famosa tripletta di manicomiale memoria) era stato lasciato su una barella del pronto soccorso del ‘Grassi’ di Ostia dove, per non legarlo come gli infermieri dicevano si sarebbe meritato per la sua irrequietezza molesta, veniva periodicamente rimboccato con ulteriori neurolettici q.b., come si diceva negli appunti culinari della nonna. Il primo a scambiarci poche frasi fu il rianimatore chiamato d’urgenza per un arresto cardiaco, ma fu soltanto per accertarsi che avesse ripreso conoscenza e la conversazione si limitò alle generalità ed alle domandine del mini mental test. Nei sette giorni successivi di degenza nel reparto di diagnosi e cura, al contrario, alle sue vicende personali si erano interessati numerosi psicologi tirocinanti che se non altro sorridevano in modo benevolo ancorché standardizzato (dovevano aver fatto un corso apposta) e di una era stato sul punto di innamorarsi: tradizionale bellezza agrodolce calabrese con la sua parlata aspirata sulle labbra alla fragola che pareva risucchiargli l’anima. I medici, anch’essi giovani per quanto può esserlo un medico specializzando nella maggior parte dei casi o appena specializzato e precario, erano molto presi con i problemi del rinnovo contrattuale trimestrale che manteneva la loro vita in stand-by anche fino alla soglia dei 50 anni. Aveva sentito dire dagli infermieri sempre avvelenati per il mancato riconoscimento economico delle loro mansioni che c’erano anche dei medici di ruolo e persino un primario ma evidentemente i suoi 15 giorni di ricovero erano stati troppo pochi per avere la fortuna di incontrarli, ammesso che di fortuna si trattasse. Alla dimissione gli fu però dato in nome della continuità terapeutica un depliant del suo CSM di appartenenza dove certamente lo avrebbero ascoltato con interesse e curiosità gli psicologi al tirocinio post laurea o per la specializzazione. Avrebbe potuto parlare a volontà. Bravi ragazzi molto motivati. Peccato quel sorrisetto dubitativo che accompagnò la consegna dell’opuscoletto illustrato con tutte le attività del CSM.
In un’altra occasione era stato invece un settantenne sovrappeso e spelacchiato in testa con movimenti lenti da bradipo per la prolungata frequentazione di neurolettici e antiparkinson, vecchio paziente psichiatrico che ora a fine corsa aveva trovato parcheggio in una comunità per lungodegenti, ben diversa dai vecchi e finalmente chiusi manicomi dove aveva vissuto per dieci anni dopo la chiusura dell’OPG di Montelupo fiorentino dove lo avevano spedito per aver impiccato il cane del diabolico vicino invece di ringraziarlo per non aver fatto fare la stessa fine direttamente al minaccioso proprietario che lo tormentava giorno, notte, alba e tramonto con le radiazioni elettroomosessuali nonostante le mutande di latta che si era fabbricato da solo con le scatole dei fagioli borlotti.
In fondo stava certamente meglio del fratello quarantenne, faccia da lupo, un tempo anarchico rivoluzionario e aspirante bombarolo se non fosse stato ubriaco dalla mattina alla sera, che invece tirava avanti con il sussidio del comune nella vecchia casa paterna e veniva ogni mese siringato dai solerti infermieri del CSM con una sostanza che lo rendeva mite come un agnellino pasquale ma lo faceva camminare come quelli di the walking dead e gli aveva tolto ogni virilità, anche solitaria.
A volte FB invidiava la volta che era stato un ragazzo di 16 anni scemotto, bruttarello, fragile e inconsistente, che non sapeva chi fosse e nell’attesa di capire se dovesse essere il servizio materno infantile o il CSM ad occuparsi del suo stranguglione adolescenziale era volato dal quinto piano lasciando solo un rabbioso biglietto contro il padre, cazzuta superstar irraggiungibile che, avvisato dal portiere, ne aveva raccolto il corpo nel cortile interno del condominio lasciando poi al dipendente la pulizia con la segatura di quelle orribili poltiglie organiche.
In fondo si era risparmiato un percorso già segnato in un mondo a parte per i disadattati come lui. Un mondo fatto di centri diurni invece che di bar e discoteche, di soggiorni invece che di vacanze con gli amici che di famiglia nemmeno a parlarne, di occupazioni protette finanziate con i sussidi e infiniti, inutili corsi di formazione per occupare il tempo. Per finire, nella migliore delle ipotesi, in una casa famiglia per un cohausing anch’esso protetto da solerti operatori di cooperativa.
Certo se i suoi fossero stati benestanti ma soprattutto non matti come si era convinto fossero, giungendo in cuor suo a perdonarli ma troppo tardi, lo avrebbero indirizzato verso il circuito privato dove le sale d’attesa hanno la musica di sottofondo, le segretarie sono belle, accoglienti e talvolta ammiccanti alle fantasie che evidentemente scorrono negli occhi bizzarri, stanchi, appannati e sconfitti dei postulanti ascolto, i medici sorridenti e ottimisti e gli psicologi associati pronti a testare ogni particolare sommovimento emotivo o comportamentale in vista di ricerche e pubblicazioni che li sottrarrebbero all’anonimato e alla dipendenza dalla paghetta familiare con cui, quasi tutti trentenni, si sostentano dal tempo del ‘fuorisede’.
A proposito di ciò FB doveva ammettere che quando si era trovato nei panni di quelli dall’altra parte della fittizia barricata che separa i matti dai sani rassicurando quest’ultimi su loro stessi, si era reso conto di quanto la sofferenza non fosse proprietà privata di nessuno e dilagasse dovunque per capillarità e vicinanza come le infiltrazioni d’acqua sui muri delle stanze prese a pensione per studiare nella grande città.
FB era stato Marco, uno psicologo trentatreenne bello e naturalmente elegante, reso simpatico dall’eco pugliese nella sua cadenza, eternamente tirocinante pre-laurea, post-laurea, per il grottesco esame di stato e poi per le scuole di specializzazione senza le quali anche i concorsi e qualsiasi lavoro sono preclusi, tranne la schiavitù gratuita ai pochi vecchi affermati. I suoi genitori avevano venduto 5 ettari della masseria salentina per mantenerlo agli studi a Roma ma non ce la facevano più a sostenerlo nell’infinita formazione. Aveva iniziato a lavorare in un club riservato di notte e, grazie ai suoi riccioli neri ed al fisico da bronzo di Riace tranne quel piccolo, appunto, particolare per cui i due statuari guerrieri provano imbarazzo da millenni, si era fatto una sua selezionata clientela privata (altrettanto praticavano e con più facilità molte sue giovani colleghe tra un esame di fisiologia e di psicologia sociale e di gruppo) tra le signore oltre gli ‘anta’ annoiate della borghesia medio alta e proprio grazie ad una di loro, moglie del direttore della prestigiosa scuola di specializzazione S.S.P.T. (scuola di specializzazione di psicoterapia totale), aveva infine ottenuto il diploma e un periodo di volontariato (che comunque fa curriculum e non si rifiuta mai) al reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I°.
Ora che la dolce ma concreta Luisa, la sua ex conosciuta al liceo, stanca di aspettare, si era messa con un giovane agente di tecnocasa ed era rimasta subito incinta, non aveva più la fretta di un tempo e poteva aspettare che si aprissero le porte della cooperativa Il semino di senape a cui erano appaltati molti dei servizi esternalizzati dalle strutture riabilitative della regione Lazio. Allora avrebbe potuto lavorare per 7 € l’ora e farsi pure le vacanze estive con i soggiorni a Rimini insieme ai pazienti (allora gli sarebbe mancato solo ‘un amaro Lucano’ per non volere di più dalla vita) da cui non ricordava più bene cosa lo distinguesse.
C’erano stati tempi migliori quando FB era stato un affermato psichiatra e psicoterapeuta privato con uno studio intestato a suo nome che si era scavato una nicchia ecologica nella Roma dei commercianti arricchiti e della intellighenzia snob di sinistra. Si annoiava mortalmente ad ascoltare lagnanze e tiramenti di vecchi e giovani rampolli costantemente irati per il fatto che non sempre la realtà si piegasse ai loro voleri, ma era una noia ben retribuita. Non aveva mai guarito nessuno e li avrebbe mandati tutti in miniera a lavorare ma lo pagavano bene per ascoltarli e dargli ragione e lui aveva una famiglia da mantenere e così, disprezzandosi nel guardarsi con gli occhi di quando era giovane, stava al gioco e moriva lentamente giorno per giorno senza accorgersene.
Paradossalmente il periodo che FB ricordava con più piacevolezza era stato quando era stato un operatore senza volto (strano o forse comprensibilissimo per uno che si chiama FB), una formichina laboriosa e instancabile che con una presenza costante alimentata dall’affetto aveva tenuto per mano quotidianamente i fratelli che si erano trovati nei suoi stessi luoghi psichiatrici ma, per un semplice gioco del destino, dall’altra parte, ora in un centro diurno, ora in un CSM, ora in una comunità terapeutica. Gli sembrava di essere stato utile quando aveva dimenticato chi fosse e si era sentito solo uomo tra fratelli e sorelle dolenti di tribolazioni che erano anche le sue.
Oggi, nel presente di questo ottobre romano proverbiale per la sua dolcezza nel trattenere l’estate nella trasparenza dell’aria, FB era ad un appuntamento importante, il congresso annuale della SOPSI la società italiana di psicopatologia, tra tutte le società scientifiche la più ricca (tutti i partecipanti avevano quota di iscrizione e soggiorno a carico di questa o quell’industria alla faccia del conflitto di interessi ma perlomeno non era a Tenerife o a Cuba come capitava in passato in tempo di vacche grasse quando si ospitavano anche i congiunti o considerati tali, segretarie di studio, collaboratrici e addetti al benessere della persona che venivano eventualmente reperiti in loco) perché sponsorizzata da tutte le più importanti multinazionali farmaceutiche che definivano continuamente nuovi disturbi patologizzando altri territori della diversità, per ciascuno proponendo un farmaco perfetto fino alla scadenza del copyright per poi essere sostituito da un altro ancora più perfetto e dieci volte più costoso.
Il congresso tradizionalmente si teneva nelle prestigiose sale dell’Hotel Hilton di Roma sopra la valle dove giaceva la città giudiziaria della capitale (dove avrebbe giustamente dovuto sprofondare, pensava, l’anima forcaiola, giustizialista e intransigente di FB giovane non del tutto scomparsa) e alla stessa altezza dell’osservatorio e del vecchio bar dello Zodiaco che concedeva una vista mozzafiato su tutta Roma, godibile anche dalle terrazze del limitrofo Hilton, dove i professoroni, come si diceva al tempo in cui c’era più rispetto, andavano a fumare e continuare le accese discussioni cliniche e architettare gli accordi politici durante le pause.
Per l’occasione era vestito secondo il code ‘psichiatra che non ci tiene avendo altro a cui pensare e disdegnando l’apparenza’: jeans Lewis 501 per stare sul classico evergreen, camicia azzurra sotto un maglioncino girocollo blu scuro per richiamare l’efficienza di Marchionne, giacca di velluto marrone con le pezze di cuoio ai gomiti assolutamente controindicata per il colore (blu versus marrone, lo sanno tutti) per significare che mette su quel che capita uscendo di corsa per andare dai pazienti, mocassini da barca blu che non nascondevano la loro età e le peripezie attraversate. La faccia altrettanto ciancicata e smaliziata l’aveva presa in prestito da Paolo Conte in ‘Genova per noi’.
FB era lì per l’ultima sessione del congresso, prima dell’assemblea plenaria dei soci cui non avrebbe assistito spinto dalla vanità morettiana (nessuno è perfetto) del ‘ma mi si nota di più se…..o se……’ in cui era previsto il confronto tra lui vecchio psichiatra del tempo della riforma e il rampante Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, ordinario di Psichiatria della Sapienza, direttore generale del MIUR per le scuole di specializzazione e appena l’anno precedente eletto presidente assoluto della Società Italiana di Psichiatria (SIP). Il Lo Mascolo si era presentato al confronto che verteva su ‘il senso della guarigione e la conseguente implementazione dei nuovi servizi psichiatrici alla luce delle attese rivelazioni del prossimo DSM X’, quello che si riteneva ultimativo ed avrebbe chiuso definitivamente la storia delle nosografie psichiatriche, in un formato molto più accademico con un completo doppiopetto blu scuro, un papillon rosso ferrari, scarpe nere lucide sfavillanti allacciate da poliziotto newyorkese della omicidi. Il collo taurino ma flaccido strizzato dal colletto della camicia rivelava l’età vicina agli 80 che numerosi lifting cercavano malamente di celare con un volto da bambola Berlusconiana con cui aveva una certa esibita somiglianza.
Il presidente della SOPSI, Prof. Riccardo Della Lunga Bonaffini, che fungeva da chairman, presentò i due relatori sottolineando la sinergia, e toccandosi un naso che impertinente non smetteva di allungarsi per collodiana memoria, con cui le due correnti di pensiero che rappresentavano avevano negli anni concorso all’edificazione della Psichiatria pubblica e privata che faceva eccellere l’Italia nel campo dell’assistenza psichiatrica mondiale come l’OMS non smetteva di sottolineare. Nella sala da 800 posti gremita, forte era l’attesa per il confronto che, al di là della presentazione del Della Lunga Bonaffini, si sapeva riservare in genere momenti polemici e contrapposizioni nette. Le due tifoserie erano sostanzialmente divise nella sala. A sinistra sotto il palchetto di FB gli irregolari del suo esercito sbandato come i nostri fanti l’8 settembre del ’43 frugavano affannosamente nelle giberne per trovare una penna o un mozzicone di matita per prendere appunti su fogli bianchi che venivano divisi e scambiati perché ognuno ne avesse un pezzetto. Caleidoscopio di colori e indisciplinati brusii di chiacchiere appassionate e urgenti. A destra il plotone ordinato degli accademici che chiamava con disprezzo gli altri i territoriali o, peggio, ‘terricoli’, si era improvvisamente illuminato per l’accendersi simultaneo di tutti gli i-pad. I volti rischiarati dal basso apparivano un po’ oltretombali nella sala oscurata per far risaltare le slides di cui ancora i relatori avevano bisogno per dire sempre le stesse cose da quarant’anni, in ciò assomigliando ai preti che necessitano del messale ogni giorno per una intera vita. Il primo a prendere la parola fu ovviamente per ossequio al prestigio e all’età il Lo Mascolo che, dopo i ringraziamenti di rito e gli elogi al collega, sostenne fondamentalmente due concetti. Il primo era che la riforma psichiatrica, ormai a 40 anni dal suo inizio, poteva dirsi brillantemente conclusa e che da nord a sud ogni cittadino aveva il suo CSM di riferimento, che ovunque espletava una attività ambulatoriale e domiciliare. Ogni CSM a sua volta era in rete con uno o più centri diurni e strutture semiresidenziali in cui trascorrevano le giornate i pazienti che non potevano stare a casa, con strutture di ricovero per gli acuti, i cosiddetti SPDC e per i cronici tante diverse opportunità: comunità terapeutiche, RSA e case famiglia a protezione variabile. Insomma quello che c’era scritto in qualsiasi depliant di presentazione di un DSM e che FB aveva ricevuto durante la dimissione insieme al sorriso ironico dell’infermiere che gli aveva augurato buona fortuna. Per non parlare poi, aveva proseguito sempre più orgoglioso e sudato Lo Mascolo, delle attività che tutte queste strutture ‘mettevano in essere’ (gli scappò detto con gergo sbirresco indubbiamente indotto dalle scarpe): formazione professionale, attività ricreative di ogni genere, soggiorni di vacanze, lavoro protetto, abitare protetto ed in alcune situazioni d’avanguardia anche ‘amore protetto’, senza specificare ulteriormente. Da qui avrebbe preso spunto nella replica FB, suscitando ilarità tra i suoi e sguardi di riprovazione tra i regolari, per dire che quella che veniva proposta era una vita all’interno di un enorme preservativo.
La seconda tesi che Lo Mascolo aveva di seguito sostenuto riguardava quello che lui stesso chiamava la riscoperta del secondo mandato della psichiatria, oltre a quello della cura che consisteva nella pacificazione della società turbata dalle intemperanze e dallo scandalo potenzialmente contagioso per le menti dei giovani che i matti ormai liberi potevano costituire. La guarigione e il ritorno alla produttività non erano solo un diritto, come sbandierato all’inizio della riforma, ma, ora che era realizzata, anche un dovere dal quale con le buone o con le cattive non ci si poteva esimere e questo era un compito che spettava certo con dolce gentilezza, ma anche ferma decisione, agli operatori psichiatrici che per un certo tempo era sembrato alla popolazione addirittura che colludessero e assecondassero le bizzarie dei loro pazienti. Non era più tempo di ambiguità e da questa chiarezza, si trattava di stare senza tentennamenti dalla parte della ragione e del buon senso, la nuova psichiatria aveva riguadagnato il prestigio perduto, le iscrizioni alla specializzazione erano tornate a crescere come il ricorso al privato e gli onorari praticati e persino la sua nomina ministeriale poteva essere considerata un riconoscimento in tal senso che ci teneva a condividere con tutti i colleghi. Un ‘grazie, no’ riecheggiò da sinistra.
Al termine del suo intervento sollecitò domande di chiarimento rimandando il dibattito alla conclusione. Dai lati opposti della sala sbocciarono, è corretto dire, prontamente da dietro i tendaggi di pesante velluto color pervinca due hostess che, sbandierando giulive microfoni portatili a cono, si premuravano di raggiungere le mani alzate per amplificare le voci corrispondenti. Le due ragazze, ed anche questo era un segno dei tempi, non avrebbero sfigurato per l’abbigliamento succinto e l’andatura ancheggiante nella serata celebrativa dei settant’anni di Play Boy. Persino i due relatori, più platealmente FB di Lo Mascolo, a dispetto del nome, ebbero un momento di acuto strabismo divergente e nistagmo per divaricare all’inverosimile il campo visivo, alternando il grandangolo allo zoom sui particolari, non rinunciando così né alla brunetta piccola e morbida né alla spilungona bionda dal fare algido e professionale. Gli interventi furono così banali che sollevarono il legittimo dubbio di avere come unico scopo il richiamare la vicinanza delle portatrici dei coni. Non erano vere domande ma sottolineature di concetti già espressi dal relatore al semplice scopo di rinforzarli e di mostrarsi a lui compiacenti discepoli. Una dirigente di II° livello della ASL di Rovigo, dopo i complimenti al relatore, chiese se non fosse ormai indispensabile dare la possibilità di TSO anche alle cliniche private accreditate per alleggerire la pressione sugli SPDC. Uno psichiatra cosentino depassè si interrogava se non fosse opportuno appaltare tutta l’attività psicoterapeutica agli specialisti privati considerate le carenze del pubblico. Il più politico degli interventi venne da uno psichiatra di Ancona, la cui calata marchigiana ne minava severamente l’autorevolezza che l’età avanzata avrebbe dovuto conferirgli, che si domandava come depotenziare le associazioni di utenti e familiari che con le loro assurde pretese di pronta e totale guarigione e sempre pronti a rivolgersi alla magistratura stavano portando la piaga della medicina difensiva anche nel campo della salute mentale. La richiesta era la depenalizzazione dei reati connessi all’attività clinica. Lo Mascolo, gongolante e col labbro superiore imperlato di sudore, si limitava ad ascoltare i vari interventi, guardare le due hostess e assentire pesantemente col capo, non si sa se alle due bellezze o ai contenuti espressi, allargando sempre di più un sorriso inespressivo e fatuo che tra poco avrebbe congiunto un orecchio con l’altro mostrando una chiostra di denti bianchissimi esaltati dall’abbronzatura del calabro sole di Tropea.
Quando le mani smisero di alzarsi il chairman Della Lunga Bonaffini si scosse dal torpore che, complice il buffet offerto al coffe break da Astrazeneca, lo aveva assalito trasportandolo in fantasie lontane dove solo le due hostess lo avevano seguito, e diede la parola a FB il quale, restando seduto e aggiustandosi il microfono, esordì dicendo che avrebbe ribattuto separatamente ai due fondamentali concetti portanti espressi dal Lo Mascolo nella sua brillante sintesi dello stato dell’arte.
Per quanto riguardava il completamento della riforma psichiatrica con l’attivazione di tutti i servizi previsti, che non stava qui a rielencare che meglio di come aveva fatto il collega non sarebbe stato possibile, era certamente vero, ma nel farlo si era perso lo spirito più profondo della riforma creando nuovamente sul territorio invece che negli ospedali psichiatrici ‘un mondo a parte’, una realtà parallela dove c’era tutto quello che costituisce una vita normale. Un tetto sulla testa, un lavoro, delle relazioni sociali e molto molto svago, ma tutto in formato ‘per i matti’, un mondo protetto, a scartamento ridotto. Il manicomio era stato sostituito dal ‘terricomio’ molto più accettabile, certo, ma dove l’essenza della separazione, il senso dell’istituzione totale nel significato di Irvin Goffman rimaneva intatto solo più strisciante e meno visibile.
A questo si collegava il secondo punto sul doppio mandato di cura e controllo della psichiatria. Secondo FB era ingannevole sostenere fossero compenetrabili, addirittura quasi identici. Guarire non significava normalizzare le devianze per restituire cittadini efficienti e laboriosi alla società del profitto e del consumo, ma preservare tutte le diversità, non solo quelle di genere, etniche e di orientamento sessuale (cosa ormai accettata in teoria sebbene non nei fatti) ma anche quelle personologiche. Ognuno aveva diritto di esprimere se stesso attraverso l’esercizio dei diritti previsti dalla costituzione con l’unica limitazione del codice penale che aveva la presunzione di essere uguale per tutti.
FB affermò con decisione e piglio messianico che pian piano tutte le strutture psichiatriche si sarebbero eliminate e gli ex pazienti sarebbero confluiti nel circuito normale dell’esistenza dove, se avessero provocato scandalo, sarebbe stato un benefico disvelamento delle contraddizioni e ipocrisie della nostra società e queste si sarebbero dovute risolvere là dove si generavano non solo per il benessere dei matti ma di tutti. In questo paragonò i matti a dei segnalatori di ciò che non va, che per la loro esasperata sensibilità se ne accorgono per primi. Un pò come quei pesci che vengono messi negli acquedotti e la cui morte segnala il peggioramento della qualità dell’acqua. Reso tremante dalla foga profetica si alzò in piedi per dire che quando fosse scomparso l’ultimo psichiatra con il suo armamentario reificante in diagnosi la complessità e diversità del genere umano ad un tempo angelico e demoniaco, allora sarebbe scomparso anche l’ultimo matto. Non ne era del tutto convinto neppure lui, ma un po’, q.b. per dirlo in quel contesto, sì.
Il Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, che si era a stento trattenuto fino a quel momento limitandosi a scapeiare (muovere la testa in senso orizzontale a destra e a sinistra con scatti improvvisi) come un somaro infastidito dai tafani, sbottò attaccando il collega a testa bassa chiamandolo per la prima volta per nome ‘He no, Franco, non puoi farci questo, abbiamo costruito tutto questo nel tuo nome e non credere sia stato facile riconvertire la mentalità di molti colleghi. Dimettere i medici dall’ospedale non è stato meno faticoso che reinserire i pazienti. Certamente ti renderai conto cosa è stato smontare i solidi regni dei primariati ospedalieri, dei padiglioni ordinati, dei reparti divisi per patologie per creare, addirittura con meno fondi unità operative complesse e semplici, strutture e strutturine con incarichi a vassalli, valvassori e valvassini. Ed ora tu vorresti smontare questo enorme lavoro fatto in tuo nome? Non te lo permetteremo! Ci siamo sacrificati non sai quanto per tradurre i tuoi sogni in fatti concreti ed ora tu butti tutto per riproporre un nuovo incubo? Non sarà così, credimi. Anzi, ascolta, nel mentre che il consiglio direttivo valuterà le decisioni da prendere in merito alla tua permanenza nella società di psichiatria, avevo già pensato che avresti apprezzato un periodo di riposo e riflessione completamente a carico della associazione a ‘Villa dei Pini’ sulle colline intorno a Fiesole, che immagino accetterai con gratitudine e soprattutto volontariamente. In altro modo, ne converrai, sarebbe decisamente sgradevole’. Mentre pronunciava queste parole il megapresidente aveva ricontrollato la presenza nella tasca destra della sua giacca di un ordinanza del sindaco di Roma nella persona del funzionario delegato agli affari sanitari riguardante il trattamento sanitario obbligatorio del Sig Franco Basaglia nato a Venezia nel 1924.
Mentre FB usciva dalla sala a passo lesto, finalmente con la faccia seducente di giovane studente di medicina della buona borghesia veneziana, il Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, ordinario di Psichiatria della Sapienza, direttore generale del MIUR per le scuole di specializzazione e appena l’anno precedente eletto presidente assoluto della Società Italiana di Psichiatria (SIP), si lasciò andare stremato sulla poltrona presidenziale. Ma come fu accertato dalle perizie degli ingegneri dei VV.FF. non fu la sua culata per quanto possente a far precipitare con un boato e un fungo di polvere atomico l’hotel Hilton al centro della sottostante città giudiziaria. Le cause effettive sarebbero rimaste per sempre sconosciute, come per la maggior parte delle stragi italiane. Fu ipotizzato, come al solito, il coinvolgimento di pezzi deviati dei servizi e, questa volta, anche per la vicinanza del vaticano e il fatto che fosse proprio il giorno di San Francesco patrono d’Italia, l’intervento diretto di Dio, il che impedì qualsiasi ulteriore indagine. Fortuna volle che data l’ora e il clima meraviglioso la maggior parte dei turisti giapponesi e russi fosse in giro per Roma a caccia con le loro macchine fotografiche. Certo è che l’enorme moria di psichiatri e psicoterapeuti esperti (ne perirono 2500 ed altri mille smisero di esercitare per il timore di un ulteriore castigo divino) costrinse il ministero della salute a bandire gli stati generali per la salute mentale e rifondare il tutto partendo da zero e con i giovani. C’era da essere ottimisti, se non altro considerando il fatto che il ministro della sanità era un compagno quarantunenne che aveva lo stesso nome del più grande comico del ‘900: Bob Hope.