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La forza nascosta della gentilezza: il potere dei piccoli gesti che fanno stare bene noi e gli altri (2017) di C. Milani – Recensione libro

"La forza nascosta della gentilezza" invita ad una rivoluzione gentile che coinvolga il singolo e la comunità, uniti nella costruzione di un mondo migliore.

Di Letizia Muro

Pubblicato il 13 Nov. 2020

Aggiornato il 12 Nov. 2021 14:12

Cristina Milani, vice presidente del World Kindness Movement affronta il tema della gentilezza da un punto di vista storico, psicologico e geografico esplorando le ragioni del suo abbandono

 

Accanto al disinteresse e alla svalutazione che la società odierna riserva alla gentilezza, l’autrice ritrova in germe il seme di un rinnovato ritorno alla gentilezza nel bisogno di empatia, condivisione e unione sempre più presenti. Auspica dunque ad una rivoluzione gentile che investa il singolo e la comunità, uniti nella costruzione di un mondo migliore.

Alle radici della gentilezza perduta

La gentilezza, sempre più sconosciuto e sepolto retaggio dei tempi passati, spesso confusa e relegata a buona educazione e buone maniere, o a quelli che comunemente si sminuirebbe in convenevoli. Eppure la gentilezza vera è molto altro: amabilità, garbo e cortesia in tutti i sensi, qualità che è cura e attenzione verso l’altro e la comunità, intesa soprattutto come bene pubblico. Andando alle radici dell’abbandono di questa preziosa qualità in disuso, l’autrice designa un terzo fattore a quelli già comprovati: l’assetto valoriale nell’educazione dei figli che ha escluso la gentilezza, la delusione verso uno Stato assente, ma anche, denota, la richiesta di libertà successiva alle grandi dittature. Occupati a lottare e far valere i propri diritti, continuamente disillusi, si è perseverato inasprendo toni e atteggiamenti, a scapito del rispetto reciproco e per il bene pubblico. Cosicché l’indignazione derivata da un governo assente e incapace di garantire stabilità e risoluzione dei problemi ha legittimato la cafoneria come forma di espressione della propria rabbia e delusione.

Ma vi è un’altra aggravante, la gentilezza più che una lodevole virtù è oggi spesso considerata debolezza. Come è potuto accadere?

Anche qui l’autrice inscrive il fenomeno nel contesto socioculturale ed economico del nostro paese ovvero il sistema che, a partire dagli anni ’80, connota la società odierna: libero mercato, consumismo, individualismo e competitività. Nella misura in cui l’altro viene visto come un nemico, un competitor, in una società che corre volta al bene materiale e quantificabile, finalizzata solo al proprio personale benessere, viene a mancare la solidarietà. Non solo, le relazioni interpersonali diventano superficiali e utilitaristiche, non vi è tempo per lo scambio di emozioni e valori autentici, intangibili, non c’è spazio per condivisione ed emotività. La cultura individualista rende egoisti, aridi, e l’unico terreno fertile diventa quello dell’odio, dell’invidia, dell’antagonismo. La gentilezza viene rimossa, ritenuta inutile e da deboli, perché i perdenti sono coloro che non sono “abbastanza aggressivi” nell’accaparrarsi il proprio podio.

Riprendendo la teoria dell’attaccamento di Bowlby e i relativi modelli cognitivi comportamentali che si sono imposti nei primi 2 anni di vita, l’autrice distingue tra 4 organizzazioni cognitive con cui le persone interagiscono e agiscono nell’ambiente da adulti. In questo specifico caso, con la gentilezza:

  • Organizzazione fobica, il “gentile esagerato”: esercita una forma manipolatoria di gentilezza che permette all’individuo di relazionarsi con l’ambiente e gli altri evitando pericoli o abbandoni. Tale individuo ha sviluppato una immagine di sé vulnerabile, costantemente esposta a rischi, che ha arginato con una mania del controllo verso l’ambiente. Risulta quindi di una cortesia assordante che crea imbarazzo o l’impressione di essere presi in giro dagli altri.
  • Organizzazione depressiva, il “gentile tattico”: la gentilezza è qui espediente per conquistare una socialità altrimenti negata. Queste persone, che nell’infanzia hanno subito esclusione e rifiuto, sono cresciute con l’idea di non essere capaci di suscitare interesse e amore negli altri, e sviluppato la rabbia come unica modalità per comunicare i propri bisogni e disagi. Sono quindi sempre disposte a dare una mano ma se prese in un momento di rabbia, si mostrano invece dure e scontrose. Sono accoglienti con la propria cerchia, quanto incuranti verso gli sconosciuti.
  • Organizzazione psicosomatica, il “gentile condizionato”: in una identità personale basata su incertezza e insicurezza, l’unica variabile in grado di permettere la creazione di una identità diventa la propria fisicità con le relative variazioni. Il corpo diventa espediente per raggiungere la perfezione, così la gentilezza potrebbe essere per tali individui uno stile di vita volto alla continua ricerca di conferme. Il rischio è che, usandola come sistema di difesa, si tenderà a giustificare tutto.
  • Organizzazione ossessiva, il “gentile controllante”: a causa di una educazione rigida e anaffettiva ricevuta da piccoli, il formalismo è l’elemento che contraddistingue in personalità e apparenza questi individui, incapaci di esprimere contenuti emotivi e slanci spontanei. La gentilezza fatica qui a rivelarsi, prevalentemente applicata nel formalismo delle buone maniere.

Ma gentili si nasce o si diventa?

Interrogandosi sulla natura biologica della gentilezza, un’équipe di psicologi della Hebrew University ha, nel 2011, riscontrato l’attivazione del gene AVPR1A, il quale rilascia neurotrasmettitori che producono una sensazione di benessere, quando si compie un atto gentile verso il prossimo. La verità è che, saremmo forse anche spinti da un impulso biologico ad essere gentili, ma gran parte della partita la giocano i modelli comportamentali sviluppatisi nell’infanzia e soprattutto l’ambiente circostante in cui siamo immersi. Ad inibire la gentilezza, non sono solo i ritmi frenetici della società e l’arrivismo dilagante, ma anche la mancanza di empatia, che è spesso diretta conseguenza dei fattori precedentemente citati. L’empatia, per definizione la capacità di comprendere, “sentire” appieno lo stato d’animo altrui, genera cooperazione; perché nel sentirsi compresi ci si sente immediatamente più vicini a qualcuno, anche se è uno sconosciuto. La gentilezza influenza così l’umore, a beneficio non solo di chi la riceve ma anche di chi la compie, con l’attivazione di serotonina, l’ormone della felicità, che si attiva tanto più quando gli atti di gentilezza sono eterodiretti.

In un mondo frenetico e competitivo, che ci rende freddi e autocentrati su noi stessi, si diventa inattenti e insensibili ai bisogni altrui, fino a sfociare nella maleducazione e il bullismo. Spesso ciò accade senza la consapevolezza del perpetuatore, a dimostrazione di come la gentilezza sia un elemento di educazione imprescindibile allo stare in società. Un grande ruolo nell’avallare e legittimare i comportamenti aggressivi e maleducati l’ha giocato internet con i social media e il mondo virtuale spesso parallelo in cui siamo immersi. L’assenza di vicinanza crea spersonalizzazione e deresponsabilizzazione, così dietro lo scudo di uno schermo e di una tastiera ci si sente liberi di esprimere i propri sentimenti negativi o sfogare le proprie frustrazioni con l’hate speech. La rete ha in questo senso snaturato, impoverito e raffreddato il terreno fertile dell’empatia, il cui hummus risiede in tempo, vicinanza fisica ed emotiva e anche lentezza.

La gentilezza senza pazienza non si rivela

afferma la Milani, e ce ne accorgiamo quando ci troviamo davanti una persona arrabbiata. L’autrice invita a praticare l’arte dell’attesa e del prestare attenzione a 360 gradi, essendo centrati sul momento presente che si sta vivendo. La gentilezza è un boomerang che torna indietro con gli interessi, nel senso più positivo del termine; in altri casi invece disarma, calma, spiazza. Si pensi a cosa accade quando esprimiamo la nostra frustrazione e disappunto (seppur a ragion veduta) e riceviamo piena comprensione o una educata spiegazione, il risentimento si placa immediatamente. La gentilezza fa accadere le cose e ce lo dimostra il potere di un sorriso che abbatte paure, barriere, sospetti istantaneamente, più di mille altre parole o gesti.

Arruolarsi per una rivoluzione gentile..

La “rivoluzione gentile” auspicata dall’autrice consiste nel riappropriarsi di una visione del mondo fondata sul “noi” e non più solo sull’io; è possibile riportare in auge la gentilezza innescando un cambiamento culturale che solo la solidarietà proveniente dall’empatia sociale è capace di attuare. Questo intento è oggi rappresentato dal crescente proliferare di Onlus, attività di volontariato e fundraising in supporto delle giuste cause. Infatti, nonostante il preoccupante scenario sinora mostrato, l’autrice constata e riconosce come negli ultimi tempi si assista a un ritorno alla gentilezza, mobilitata dal bisogno degli individui ad aggregarsi per ritrovare quella identità sociale perduta. Attraverso la partecipazione, ci si unisce per un bene comune, costruendo una nuova identità, coesione e anche libertà.

..Iniziando da se stessi

“Chi ben comincia è a metà dell’opera” recita un vecchio proverbio, e per farlo è imprescindibile iniziare da sé stessi. Essere gentili con sé stessi vuol dire volersi bene, che non è il concedersi un regalo materiale come spesso si pensa, bensì applicare un “sano egoismo” nella forma più introspettiva del termine. Facendo bene a se stessi, si propaga forza e benessere centrifugo anche per chi ci sta attorno. Volersi bene vuol dire anche accettare di essere unici, fallibili, imparando a perdonarsi e accettarsi, adottando una forma mentis fondata sulla positività. Trattare bene gli altri ha a che fare con noi stessi più di quanto si possa immaginare, un approccio critico e sgarbato adottato con gli altri implica il meccanismo della proiezione: stiamo in realtà scaricando sull’altro qualcosa che non amiamo e accettiamo di noi.

La gentilezza nelle relazioni si esplica nel motivare, valorizzare le persone, spesso anche solo nell’osservarle facendo loro notare un particolare gradito; ne sono esempio gli apprezzamenti spontanei sul look persino tra sconosciuti. Replicare con altri quel che ha fatto bene a noi o “Praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso” per dirlo con le parole di Anne Herbert, riprendendo la sua filosofia del random act of kindness.

Nella parte finale del libro, l’autrice rimanda a una cultura aziendale gentile, proponendo di integrare nella figura dei leader moderni non solo le capacità gestionali, ma anche quelle relazionali; coltivando il contatto personale e riducendo la distanza psicologica, includendo la gratitudine, l’umiltà e il legame di fiducia nel modello di competenze. La gentilezza diventa motore per incrementare l’efficienza manageriale, dando centralità al fattore umano, abbattendo le gerarchie verticali, al fine di garantire la durata nel tempo delle aziende.

L’arringa finale dell’autrice a difesa della gentilezza, vede associati l’essere gentili all’essere socialmente responsabili, soprattutto verso l’ambiente, per uno stile di vita più consapevole oltre che gentile. Con la convinzione che solo l’impegno proattivo e responsabile del singolo nella vita comunitaria possa generare un impatto positivo sulla società, contribuendo a costruire un mondo migliore.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Milani C. (2017) La forza nascosta della gentilezza, Sperling & Kupfer, Milano
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