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La dipendenza patologica e lo scambio comunicativo – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Durante un dialogo facciamo ipotesi e deduzioni e questo comportamento governato da supposizioni è frequente anche nell’ambito della dipendenza patologica

Di Alfredo Rapanelli

Pubblicato il 13 Ott. 2020

Durante un dialogo facciamo ipotesi e deduzioni rispetto a ciò che diciamo o censuriamo, in uno schema che si può definire comportamento governato da supposizioni. Questo accade anche nell’ambito della dipendenza patologica.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 3) La dipendenza patologica e lo scambio comunicativo

 

Normal is an illusion. What is normal for the spider is chaos for the fly (C. Addams,1938).

 In alcune circostanze quando parliamo con un’altra persona può capitare di avvertire la sensazione di doverci difendere da un momento all’atro dalle parole che verranno pronunciate. Questa sensazione viscerale, avvertita prima di parlare, ci induce, nel migliore dei casi, a prestare attenzione alle parole che utilizzeremo.

Quando una persona X parla con una persona Y, la comunicazione tra loro percorre due binari contemporaneamente.

Il primo binario corrisponde a ciò che accade durante lo scambio comunicativo alle frasi che vengono dette e ascoltate.

Il secondo binario corrisponde alle ipotesi che X e Y fanno circa l’impatto che le loro frasi avranno sull’altro prima che esse vengano espresse, a cosa pensa l’altro mentre uno parla o a come intenderà le parole dette; X e Y faranno ipotesi su come verrà inteso un determinato argomento prima di esporlo.

Possiamo facilmente notarlo ogni volta che iniziamo un discorso con la parola ‘Siccome….’

E’ da queste ipotesi che, durante il loro dialogo, faranno deduzioni rispetto a ciò che diranno o censureranno e a come lo diranno, in uno schema che potremmo definire comportamento governato da supposizioni.

Non saranno le parole a determinare il dialogo ma le ipotesi sul non detto, l’inteso, il pensato dall’altro, in una sorta di lettura della mente del tutto arbitraria.

E’ il solito problema di sempre, se non parliamo siamo infelici, e se parliamo non ci comprendiamo. (Saramago, 2000)

Ciò che potrebbe pensare Y di ciò che X dice, condiziona il modo di parlare di X suggerendogli le parole da dire, ma soprattutto creando delle supposizioni arbitrarie che invece X tratterà come vere.

Un aspetto interessante è che nel caso in cui l’esperienza diretta disconfermi certe supposizioni, non emergerà la tendenza a metterle in discussione o a modificarle, ma si continuerà a considerarle vere assumendo che sia l’altro a mentire, far finta di non capire o a perseguire seconde intenzioni.

Si potrebbe pensare di essersi spiegati male o che il nostro interlocutore non sia in grado di capire le nostre argomentazioni.

A quel punto, distaccandosi ancora di più da ciò che viene detto e ascoltato direttamente, si avvertiranno sensazioni ed emozioni coerenti con una situazione in cui l’altro sta mentendo o sta manipolando la conversazione, ad esempio rabbia o ansia, e si presterà attenzione ancora di più a ciò che conferma le supposizioni, raccogliendo informazioni in modo emotivo e approssimativo.

Si prenda come esempio una situazione in cui X intende corteggiare Y.

Prima di avvicinarsi ad Y, X ipotizzerà quali argomenti, comportamenti o strategie saranno più utili al suo scopo, inizierà a fare deduzioni dai vari segnali esterni disponibili.

Il modo di vestire di Y, se è da sola o in compagnia, i pettegolezzi o le opinioni che ha ascoltato su Y, eventuali informazioni che ha potuto rintracciare sui social network

Potrebbe fare riferimento ad eventuali modelli di corteggiamento che ritiene vincenti, più di moda o che hanno avuto successo in situazioni simili.

In base a queste supposizioni X inizierà a costruire la sua strategia di approccio verso Y, cercando di comportarsi nel modo più conforme ad esse, senza verificare se le ha indovinate realmente e se è realmente capace di comportarsi in quel modo.

Inoltre, se X si accorgesse che la sua tattica non stesse andando a buon fine, non metterà in discussione le sue supposizioni, ma riterrà Y una tipa difficile da capire, considerandola responsabile dell’eventuale insuccesso.

Nel caso in cui le supposizioni di X lo portassero a pensare di dover agire secondo comportamenti che non si sente in grado di fare, potrebbe sentirsi inadeguato e provare emozioni come ansia o tristezza, oppure potrebbe desistere dall’approccio provando emozioni come tristezza o vergogna.

X proverebbe emozioni come se una cosa fosse successa ma in realtà non è successa, le sue emozioni sono conseguenza solo delle sue ipotesi (non le piacerò) che hanno generato emozioni (tristezza) e che hanno favorito il suo comportamento (desistere dall’approccio).

Il comportamento di X viene quindi governato da supposizioni arbitrarie che vengono ritenute vere senza essere verificate o messe in discussione dall’esperienza diretta.

Se qualcuno nasconde una cosa dietro un cespuglio, e poi la va a cercare proprio là e la trova pure, non c’è da vantarsi molto di questa ricerca e del ritrovamento: eppure così stanno le cose con la ricerca e il ritrovamento della ‘verità’ dentro la circoscrizione della ragione (F. Nietzsche, 1873).

Il comportamento governato da supposizioni è osservabile in tutti gli scambi comunicativi, tutti noi partiamo sempre da presupposti ipotetici prima e durante una conversazione, è inevitabile, automatico e anche utile.

Quello che è possibile fare è porre a verifica le proprie supposizioni per non tramutarle in ostici pregiudizi, è possibile dubitare delle istintive deduzioni prestando attenzione alle cose che accadono mentre accadono, alla relazione mentre ci si relaziona.

Nell’ambito della dipendenza patologica è frequente riscontrare il comportamento governato da supposizioni sia quando si parla con un tossicodipendente sia quando due tossicodipendenti parlano tra loro, ma è anche rilevabile tra i diversi professionisti che si occupano delle dipendenze patologiche. A volte quando si parla con un collega di una Comunità Terapeutica si può essere condizionati da ciò che si pensa delle Comunità Terapeutiche, oppure quando si parla con un collega del Sert si può essere condizionati da ciò che si pensa dei Sert.

Quando il tossicodipendente parla e tende a mentire (cosa molto probabile), non ascolto con attenzione ciò che dice perché sono troppo impegnato a cercare le sue bugie, ho paura di non riuscire a smascherarlo e inizio a perdere contatto con lui, inizio a pensare di avere di fronte un bugiardo che nega l’evidenza e che io devo diventare una sorta di macchina della verità, inizio a pensare che c’è una realtà che mi tiene nascosta ma io non la conosco e anche se lui me la dicesse non me ne accorgerei, questo mi mette ancora più ansia e mi fa arrabbiare perché inizio a brancolare nel buio, perché mi accarezza l’idea di aver sbagliato mestiere o almeno patologia a cui dedicarmi.

Ad un certo punto mi arriva l’illuminazione di chiedergli di fare le analisi tossicologiche, ma poi penso che potrebbero essere negative o che potrebbe alterarle in qualche modo e io sarei con le spalle al muro e lui con la verità liquida e giallognola tra le mani, allora penso che è colpa sua, che non vuole cambiare, che non c’è niente da fare con chi si comporta così, e a questo punto provo un misto di rassegnazione e di sollievo per le mie scelte lavorative.

In realtà, invece di cercare una verità nascosta da qualche parte senza neanche sapere quale è, potrei utilizzare il tempo della conversazione con il paziente in modo più efficace, cercando di non restare con un pugno di mosche in mano, molta frustrazione e senza uno straccio di alleanza terapeutica.

Invece di cercare bugie, potrei indagare a cosa gli serve mentire, in quale contesto e in quale momento della terapia sta alterando o censurando la verità.

Potrei indagare che cosa suppone che accadrà se dicesse che è ricaduto o che avverte un forte craving, il desiderio improvviso ed incontrollabile di assumere la sostanza, potrei essere io a verbalizzare le ipotesi arbitrarie che sta producendo nella sua mente, non per cercare la verità ma per metterle in discussione.

Ad esempio: il paziente è in Comunità, è andato a casa per un paio di giorni, non ha usato sostanze ma ha dovuto confrontarsi con un forte desiderio di assumere sostanze.

Al ritorno in Struttura, alla domanda —Come è andata?— potrebbe rispondere che —E’ andata bene—, senza riferire all’operatore l’esperienza di craving che ha vissuto.

Che funzione svolge questa omissione, a cosa gli serve?

Il dilemma del paziente potrebbe essere: —Se dico che ho avuto un forte craving, la prossima volta mi diranno di andare a casa meno giorni oppure di non andarci… Alla fine il desiderio me lo sono gestito, è meglio che non dica niente altrimenti mi faranno un sacco di domande… Questi penseranno che devo stare in Comunità ancora un sacco di tempo…

Molto probabilmente il paziente ometterà l’esperienza di craving non per non affrontarla, ma per evitare ciò che suppone potrebbe accadere se la riferisse, l’ipotetico dialogo con l’operatore lo ha già costruito nella sua mente considerando vere delle conseguenze del tutto arbitrarie.

Potremmo superare questo dilemma avvertendo a priori il paziente e dicendogli che, qualora al ritorno dai due giorni a casa ci comunicasse il suo desiderio di assumere sostanze, non accadranno le cose che teme ma si cercherà di affrontare insieme la situazione individuando strategie per gestire il craving in futuro.

Purtroppo, però, lui potrebbe ugualmente supporre che questa nostra rassicurazione sia solo un modo per farci dire la verità oppure per tendergli una trappola.

Spesso i pazienti che trattiamo incontrano evidenti difficoltà quando devono fidarsi di qualcuno, quasi le stesse che incontriamo noi quando dobbiamo fidarci di loro.

Nel corso della loro storia personale hanno strutturato un concetto di fiducia particolarmente ambiguo e disfunzionale che hanno appreso in tutte le relazioni precedenti, non solo in ambito familiare, e che tendono a riproporre automaticamente anche nelle relazioni successive.

Le loro relazioni sono state finalizzate all’utilitarismo, all’ottenimento di qualcosa piuttosto che alla costruzione di qualcosa o alla collaborazione; la loro capacità prospettica nel valutare le conseguenze a lungo termine delle azioni o nel considerare la fattibilità di un progetto sono alterate dalle esperienze di vita e dall’utilizzo delle sostanze.

Troppe volte si sono trovati in situazioni in cui dovevano cercare una scappatoia immediata piuttosto che una via di uscita definitiva. I contesti nei quali questi pazienti si sono relazionati hanno richiesto determinati atteggiamenti, i loro comportamenti e i loro schemi mentali si sono mantenuti e rinforzati all’interno di ambienti in cui ne veniva favorito l’apprendimento, perché si dimostravano utili e funzionali.

Hanno spesso dovuto riporre la loro fiducia su persone non affidabili, ad esempio, pur considerando non affidabile lo spacciatore da cui acquistavano la sostanza, si sono dovuti fidare di lui.

Raramente sono stati all’interno di relazioni senza restare in allerta, mantenendo un certo grado di allarme e dubitando delle intenzioni altrui, in alcuni casi il sospetto è stata l’unica strategia di difesa e di rassicurazione.

Le loro relazioni, quindi, si sono connotate emotivamente in modo ansiogeno, basandosi su convinzioni di sospettosità, di incoerenza tra ciò che si afferma e ciò che si agisce, sono state relazioni in cui c’è stata poca verbalizzazione e le intenzioni dell’altro andavano dedotte da segnali comportamentali arbitrari piuttosto che da reali spiegazioni.

I pazienti si portano dietro questa connotazione emotiva delle relazioni anche nelle nuove relazioni che instaurano, comprese quelle terapeutiche; diventa il loro marcatore somatico, lo strumento automatico che facilita il compito di selezionare opzioni vantaggiose dal punto di vista biologico ed evolutivo.

Capita spesso che possano cercare conferme di ciò che viene detto più dalle espressioni del viso che dalle parole pronunciate.

Ad esempio mentre il paziente risponde —No— alla domanda —Hai fatto uso di sostanze?— cerca nel viso dell’interlocutore dei segnali per capire se viene creduto.

Ci inventiamo perfino l’espressione sulla faccia dell’altra persona con cui conversiamo per farla coincidere con il brillante pensiero che pensiamo di aver espresso (Nietzsche, 1882).

La capacità di dare del tempo ad una relazione, al fine di permettere a sentimenti come la fiducia di instaurarsi, appare precaria e facilmente condizionabile da pregiudizi o predisposizioni mentali precostituite.

Inoltre è bene ricordare che i pazienti con una dipendenza patologica spesso traducono vantaggioso con immediato, che il loro cervello emotivo ha preso il sopravvento e richiede soluzioni urgenti anche se a breve termine e che il loro cervello cognitivo si inceppa nei processi di pianificazione e progettazione.

Sarebbe auspicabile che questo non avvenga anche nel nostro cervello.

L’immagine di sé e il modo in cui ci si racconta agli altri, cioè la narrazione soggettiva, hanno una influenza rilevante sulla vita delle persone, perché condizionano la maniera con cui gli altri si pongono in relazione con noi e perché le nostre narrazioni contribuiscono a determinare i giudizi di valore che diamo al nostro comportamento, la nostra disponibilità a impegnarci per cambiarlo o mantenerlo.

Ciò ha un rilievo ancora maggiore per condizioni esistenziali problematiche come quelle delle dipendenze patologiche.

In un esperimento condotto da Davies e Baker nel 1987 si evince un’interessante prospettiva sulla concezione di sé che ha il soggetto con una dipendenza patologica (Davis & Baker, 1987). Lo stesso esperimento, inoltre, apre alcune questioni che riguardano la disponibilità dell’esperienza soggettiva ad auto-interpretazioni variabili e fortemente condizionate dal contesto e dall’interlocutore.

Nello studio di Davies, venti maschi adulti eroinomani, con un’età media di 20 anni (tutti tra i 17 e i 24 anni) furono chiamati a rispondere a due interviste strutturate a distanza di 10 giorni.

I questionari erano del formato tipico di quelli che vengono sottoposti negli studi sull’uso di sostanze, sugli atteggiamenti nei confronti del consumo, su eventuali azioni criminali collegate e sulle ragioni del consumo.

Il primo giro di interviste fu condotto da un eroinomane di 26 anni conosciuto in zona che si presentò come arruolato da una vicina Università per aiutare a condurre la ricerca, mentre il secondo fu realizzato da un quarantenne non dipendente da sostanze che si presentò come un ricercatore universitario.

Fu poi proposto ai soggetti di sottoporsi ad un ulteriore questionario, indicato come legato a uno studio del tutto diverso, senza alcuna connessione con il primo.

I risultati generali dell’esperimento dimostrarono che i soggetti, quando furono intervistati dal ricercatore, presentarono se stessi come più fortemente dipendenti di quanto non avessero fatto durante l’intervista col ragazzo eroinomane.

Con quest’ultimo, riportarono risposte affermando di essere maggiormente in controllo rispetto al loro comportamento di consumatori di sostanze e di avere maggiore margine di scelta nell’assunzione e astensione dal consumo.

In una successiva discussione di questo esperimento, Davies (Davies, 1997) scrive:

Le persone sono capaci di costruire le loro spiegazioni sulla base della conoscenza e dell’esperienza delle attribuzioni che gli altri probabilmente faranno su di loro; e quando questo succede, si può dire che l’attribuzione abbia una componente strategica.

In seguito, altri esperimenti di Davies e colleghi rafforzarono la dimostrazione che ciò che le persone dicono circa la loro dipendenza, varia a seconda della persona con cui stanno parlando e del contesto in cui si trovano, invece di produrre narrazioni costanti delle proprie condizioni somatiche, nervose, psicologiche e sociali.

Questi risultati non sono nuovi, né in filosofia della mente né in psicologia generale: l’affidabilità del racconto, delle narrazioni di sé, è infatti stata da tempo messa discussione anche al di fuori della clinica delle dipendenze.

Generalmente, le persone riferiscono di se stesse molte cose distanti dal loro effettivo modo di essere e di fare.

Ciò può accadere nel tentativo di presentarsi in maniere accettabili per se stessi o per gli altri, o per se stessi in relazione agli altri. Forse ancor più frequentemente questo succede senza intenzioni malevole e spesso senza scopi consapevolmente strumentali, cioè al fine di ottenere vantaggi particolari, credendo anche alla veridicità del proprio racconto e cadendo nell’autoinganno.

Un po’ come la menzogna di chi si pettina con il riporto.

Anche se Davies sottolinea la componente strategica, i soggetti non necessariamente mentono sul loro stato.

Ovviamente, non si può escludere che qualche soggetto menta in modo consapevole quando presenta se stesso in maniera diversa a seconda dell’interlocutore.

Questa capacità dell’esperienza umana di farsi catturare da reti concettuali diverse a seconda dei contesti sembra però anche offrire una opportunità terapeutica che passa anche attraverso una revisione del modo di rappresentare e di raccontare la propria condizione clinica.

Non sembra un caso, infatti, che i soggetti intervistati nell’esperimento si concepiscano e si raccontino come fortemente dipendenti proprio di fronte al ricercatore che suppongono esperto della loro condizione: questo li predispone, di fatto, ad affidarsi alla scienza, alla pratica clinica, a esperti accreditati, piuttosto che continuare a ingannare se stessi circa la loro capacità di controllare il consumo della sostanza.

Il passaggio nel riconoscimento di aver problemi col controllo dell’uso di una sostanza è evidentemente cruciale per avviarsi a una riabilitazione ed ad una autonomia.

Le narrazioni di sé non sono solo il semplice strumento con cui comunichiamo agli altri i nostri stati mentali, le nostre impressioni, il nostro rapporto e le nostre interpretazioni dei fenomeni che ci riguardano o ci interessano.

È infatti attraverso il racconto, e per mezzo del linguaggio con cui può prendere corpo il racconto, che noi costruiamo un senso e un’identità riconoscibili.

Sono le parole che rendono possibile concepire un’immagine di noi stessi, dar un senso alle nostre azioni, giudicare in modo consapevole il valore che queste hanno per noi e la nostra vita, elaborare ragionamenti e dar peso esplicito ai processi motivazionali che indirizzano le nostre decisioni.

Sono le parole che ci permettono di provare a scegliere azioni diverse da quelle verso cui ci spingono gli impulsi, gli appetiti, le abitudini, le cose da cui dipendiamo.

Un’idea potrebbe essere quella di favorire allo stesso tempo lo sviluppo della consapevolezza di aver problemi con il consumo di sostanze e il racconto di questa condizione, anche usando la narrazione che ne fa la scienza.

Si potrebbe cioè tentare di utilizzare il modo con cui la ricerca scientifica spiega i processi biologici e mentali di controllo del comportamento, le ragioni del discontrollo, che può derivare dall’esposizione a certi stimoli o dal reiterare di certe azioni, le dinamiche con cui certe pratiche terapeutiche e rieducative possono portare a ristabilire una funzionalità personale soddisfacente.

Tutto ciò peraltro è riferibile non solo al consumo di droghe ma a tutti gli ambiti problematici dei comportamenti.

La narrazione scientifica, inoltre, si sviluppa attraverso un sistema di concettualizzazione per determinismi, modelli esplicativi razionali di processi funzionali, quindi per mezzo di una forma di conoscenza causale.

Un grado più elevato di coerenza e comprensione causale del proprio comportamento aumenta il controllo delle proprie dinamiche impulsive, dei propri appetiti, della tendenza a cadere negli automatismi e in generale di tutte le proprie azioni, non solo del desiderio e del consumo delle sostanze.

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Addams, C. (1938). La Famiglia Addams. The New Yorker. Condé Nast.
  • Nietzsche, F. (2015). Su verità menzogna in senso extramorale. Adelphi.
  • Nietzsche, F. (2015). La Gaia Scienza. Einaudi.
  • Saramago J. (2000). La Caverna. Feltrinelli Editore.
  • Davis, J. B. & Baker, R. (1987). The impact of of self-presentation and interviewer bias effects on self-reported heroin users. British Journal of Addiction.
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