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Interazione sociale e sincronizzazione corticale: cervelli sulla stessa lunghezza d’onda

E' stato recentemente indagato se e come avvenga la sincronizzazione corticale tra i cervelli di due o più persone impegnate in un'interazione sociale

Di Serena Pierantoni, Mariasilvia Rossetti

Pubblicato il 28 Set. 2020

Con l’avvento di nuove tecniche, si è potuto indagare se durante un’interazione sociale, a seguito di una sincronizzazione a livello fisiologico e comportamentale, avvenisse lo stesso meccanismo anche a livello neurale, tanto da poter parlare di sincronizzazione corticale tra due cervelli.

Serena Pierantoni e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi CognitivI San Benedetto del Tronto

 

Più di 2300 anni fa, il filosofo greco Aristotele, nel primo libro della sua Politica definì l’uomo come un ‘animale politico’ (ζωον πολιτικόν) che tende per sua natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. Con il termine politico Aristotele sintetizzò una delle caratteristiche proprie dell’essere umano: il bisogno di confronto e di rapporto (Berti, 1997).

L’uomo possiede, infatti, la straordinaria capacità di coordinarsi con l’altro per raggiungere un obiettivo comune. Questa capacità, che potremmo definire ‘sincronizzazione sociale’, richiede abilità molto complesse come predire comportamenti, comprendere stati d’animo e pensieri altrui e tenere in considerazione tutti i punti di vista per pianificare e attuare l’azione (Sebanz et al., 2006).

Mentre alcuni aspetti dell’interazione sociale collaborativa si trovano anche nei primati (la comprensione delle intenzioni altrui, una rudimentale teoria della mente, la caccia cooperativa di gruppo), l’uomo è motivato nel suo comportamento sociale da meccanismi molto più sofisticati, quali: giudizio morale, fiducia, agentività, bisogno di condividere emozioni, esperienze e attività (Tomasello et al., 2005).

La complessità e la portata delle interazioni sociali che ci distinguono dalle altre specie animali spiegano il tipico sviluppo della neocorteccia nel cervello umano; si tratta dell’area cerebrale più recente ed estesa, a cui dobbiamo gran parte del nostro successo evolutivo (Dunbar, 2009).

Nonostante siamo esseri profondamente sociali, le neuroscienze hanno iniziato a studiare la neurobiologia dell’interazione umana solo negli ultimi vent’anni. Con l’avvento delle nuove tecnologie di neuroimaging, come la fMRI, si è infatti potuto indagare il ruolo di alcune regioni cerebrali nei compiti di cognizione sociale. Diverse meta-analisi riportano i risultati di tali ricerche (Babiloni & Astolfi, 2014).

In particolare, oltre 200 studi di fMRI ipotizzano che la giunzione temporo-parietale (TPJ) si attivi durante la stima di intenzioni, desideri, obiettivi altrui; è pertanto responsabile di inferenze mentali transitorie sugli altri. Quando si necessita invece, di informazioni più stabili e durature circa il comportamento proprio e altrui, da cui evincere qualità e tratti misurabili, sembrerebbe maggiormente coinvolta la corteccia prefrontale (PFC). L’unione delle due strutture TPJ e PFC costituirebbe il nostro sistema di mentalizzazione (VanOverwalle, 2009). Quest’ultimo appare complementare al sistema dei neuroni specchio, strutture situate principalmente nel solco intraparietale anteriore e nella corteccia premotoria. Si tratta di neuroni bimodali che si attivano allo stesso modo sia quando compiamo un’azione sia quando osserviamo un’altra persona compierla (Babiloni & Astolfi, 2014).

I neuroni specchio sottendono alle nostre capacità empatiche, ci permettono di metterci nei panni dell’altro, comprendere le sue intenzioni, dare un significato al suo comportamento, condividere emozioni e sensazioni (Keysers e Gazzola, 2009).

Queste ricerche hanno consentito di far luce sulle caratteristiche strutturali e funzionali dei processi alla base della cognizione sociale, tuttavia presentano due limiti importanti.

Innanzitutto, non hanno valutato direttamente l’interazione dinamica tra due (o più) cervelli. La maggior parte degli studi di neuroscienze, infatti, misura l’attività cerebrale in una sola persona alla volta mentre interagisce con un’altra persona o un computer.

Inoltre, l’interazione sociale nella vita reale avviene in modo molto naturale (come la comunicazione faccia a faccia), mentre questi studi si sono svolti in contesti sperimentali altamente artificiali. Le tecniche di neuroimaging richiedono l’immobilità del soggetto, quindi i partecipanti erano molto limitati nei movimenti o nella comunicazione diretta con l’altro.

Il primo studio che ha registrato l’attività di due cervelli contemporaneamente è stato realizzato dal gruppo di ricerca del fisico Montague nel 2002. In questa occasione, i ricercatori hanno posizionato due persone dentro due macchine di risonanza magnetica funzionale separate ma sincronizzate tra loro. Mentre i partecipanti erano impegnati in un gioco competitivo, gli scienziati hanno potuto osservare l’attività dei due cervelli in contemporanea. L’acquisizione simultanea dei dati cerebrali di due soggetti che interagiscono tra loro è stata denominata ‘iperscanning’ (Montague et al., 2002).

Attualmente, il termine iperscanning include non solo la fMRI, ma tutte le tecniche che consentono di registrare attività cerebrale simultaneamente da più persone quali l’elettroencefalografia (EEG), la magnetoencefalografia (MEG) e la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS) che permette di realizzare mappe della distribuzione dell’attività emodinamica nel cervello. Queste tecniche piuttosto recenti rendono l’iperscanning molto meno costoso e ingombrante e permettono di realizzare paradigmi sperimentali più ecologici. In particolare, la spettroscopia nel vicino infrarosso funzionale è molto flessibile e non invasiva e consente di studiare l’attività cerebrale in contesti di comunicazione faccia a faccia, manipolazione di oggetti, compiti di cooperazione anche motoria.

Con l’avvento di queste nuove tecniche, si è potuto indagare se durante un’interazione sociale, a seguito di una sincronizzazione a livello fisiologico e comportamentale, avvenisse lo stesso meccanismo anche a livello neurale, tanto da poter parlare di sincronizzazione corticale tra due cervelli.

‘Inter-network’ tra genitore e figlio

Quando l’adulto e il bambino si guardano l’un l’altro, stanno segnalando la loro disponibilità e intenzione di comunicare tra di loro – afferma Victoria Leong.

Osservando uno scambio interattivo tra un neonato e sua madre, ci si meraviglia di come riescano a comunicare senza parole, ma tramite sintonizzazione affettiva. Fin dall’inizio, la diade madre-bambino sincronizza i processi fisiologici, come il ritmo del battito cardiaco o il rilascio simultaneo di ossitocina, ma anche i comportamenti, soprattutto quelli non verbali, ad esempio lo sguardo o il rispecchiamento emotivo tra le espressioni facciali (Feldman, 2007).

Nella relazione di attaccamento, durante questi episodi di sincronizzazione, il bambino impara ad interagire con altri, a coordinarsi, a condividere stati affettivi e regolare le proprie emozioni e sensazioni. Ma a livello cerebrale che cosa accade?

La ricercatrice Victoria Leong ha scoperto che quando genitori e neonati si guardano negli occhi anche i loro cervelli si sincronizzano come se si fondessero in un unico grande sistema cerebrale. Lo studio è stato condotto con 36 bambini di otto mesi di età media e i rispettivi genitori. L’attività cerebrale di entrambi i soggetti è stata registrata tramite doppia elettroencefalografia. L’esperimento includeva due compiti, ciascuno diviso in diverse fasi. Nel primo compito il bambino era posto davanti ad un video che mostrava un adulto che cantava. Nella prima fase, l’adulto guardava direttamente il bambino, nella seconda distoglieva lo sguardo e nella terza voltava la testa ma con gli occhi continuava a guardare il bambino. La più grande sincronizzazione di onde cerebrali avveniva nella terza fase come se, nonostante il volto girato, lo sguardo dell’adulto fosse ancora più intenzionale e quindi comunicativo. Nel secondo compito, era direttamente l’adulto in presenza a cantare in due circostanze: guardando il bambino negli occhi oppure distogliendo lo sguardo. Anche in questo caso si conferma il risultato emerso nel primo compito e non solo: durante il contatto visivo diretto il bambino vocalizzava più spesso e stimolava una sincronizzazione più forte nell’adulto. Lo sguardo diretto rinforza quindi la connettività neurale adulto-neonato, la quale sembrerebbe essere fondamentale per lo scambio comunicativo e l’apprendimento nei primi mesi di vita (Leong et al., 2017).

Uno studio molto recente (Elise et al., 2019) ha indagato tramite spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS) come i cervelli di bambino e adulto si sincronizzano durante il gioco, in una fascia di età più elevata compresa tra 9 e 15 mesi. I ricercatori interagivano per cinque minuti con i bambini, giocando, cantando filastrocche o leggendo, osservando in volto il bambino oppure distogliendo lo sguardo. Anche qui, durante le sessioni faccia a faccia, il cervello dei bambini era sincronizzato con quello degli adulti in diverse aree cerebrali, in particolare nella corteccia prefrontale. Questa area è coinvolta nell’apprendimento, nella pianificazione e nel funzionamento esecutivo. Questo risultato – che meriterebbe di essere oggetto di future ricerche – è sorprendente, in quanto si credeva che la corteccia prefrontale durante l’infanzia fosse sottosviluppata (Elise et al., 2019).

Studi successivi (Santamaria et al., 2020), mostrano che la sincronizzazione neurale nella diade madre-bambino varia a seconda dello stato emotivo della mamma. Quando la madre esprime emozioni positive, mamma e bimbo tendono a spendere più tempo insieme e ad interagire di più, i due cervelli inoltre appaiono molto sincronizzati. Questo meccanismo promuove una condivisione potenziata e un maggior flusso di informazioni dall’uno all’altra (Santamaria et al., 2020).

Stati emotivi negativi sembrerebbero invece indebolire la connessione inter-neurale, ad esempio un maggiore stato di stress genitoriale appare associato ad una minore sincronizzazione cerebrale nella corteccia prefrontale di sinistra, in aree cerebrali implicate nell’inferenza di stati mentali altrui (Azhari et al., 2019).

Le madri che sperimentano uno stato mentale persistentemente negativo a causa ad esempio di una depressione clinica, sviluppano molte meno sincronizzazioni con il proprio bambino. I bambini di madri depresse possono mostrare meno evidenza di apprendimento proprio a causa della maggiore debolezza della sincronizzazione corticale mamma-bambino (Santamaria et al., 2020).

In coppia sulla stessa lunghezza d’onda

Alla luce delle ricerche sull’attaccamento precoce e la sincronizzazione comportamentale, fisiologica e neurale tipica della diade madre-bambino, altri autori hanno cercato di indagare se meccanismi simili possano essere rilevati anche nelle interazioni tra pari e tra partner affettivi (Kinreich et al., 2017). Lo studio è stato condotto su 104 soggetti adulti di cui metà coppie erano impegnate tra loro in una relazione romantica da almeno un anno, gli altri non avevano alcun rapporto. I soggetti dovevano sedersi a coppie uno di fronte all’altro ed interagire per cinque minuti programmando insieme una giornata piacevole; l’attività cerebrale era registrata tramite doppia elettroencefalografia. I risultati mostrano una maggiore sincronizzazione relativa alle onde gamma nelle coppie di partner rispetto alle coppie di sconosciuti, ad indicare l’importanza dell’attaccamento affettivo anche in età adulta.

Questa sincronizzazione è localizzata in particolare nella giunzione temporo-parietale, nel solco parietale temporale superiore e nella porzione posteriore, aree coinvolte in processi di mentalizzazione quali la differenziazione tra sé e l’altro e lo sguardo sociale.

La sincronizzazione delle onde cerebrali tra i due cervelli sembra essere indipendente dal contenuto della conversazione e correlare maggiormente con i comportamenti non verbali. Risulta infatti particolarmente elevata nei momenti in cui le due persone si guardano negli occhi e, seppure in misura minore, durante dimostrazioni di affetto. I risultati mostrano come la sincronizzazione corticale tra partner adulti si ponga in continuità con i meccanismi tipici del legame di attaccamento madre-bambino, la funzione sarebbe quella di rafforzare il legame che spinge la mente a connettersi socialmente con l’altro (Kinreich et al., 2017).

Sincronizzati per la cooperazione e il lavoro di gruppo

Inevitabilmente, a questo punto ci si chiede che cosa possa accadere tra due persone -che non hanno relazioni strette- quando collaborano per raggiungere un obiettivo comune o addirittura a molti cervelli contemporaneamente quando si è impegnati in attività di gruppo.

I risultati di uno studio realizzato dal gruppo di ricerca del professor Fishburn (2018), indicano una sincronizzazione principalmente delle aree della corteccia prefrontale nei cervelli di chi sta lavorando insieme. L’esperimento ha coinvolto 60 soggetti, che si conoscevano tra loro ma non avevano legami sentimentali, suddivisi in venti gruppi da tre soggetti ciascuno. Il compito era completare un puzzle in due condizioni: nella prima due componenti collaboravano e il terzo osservava, nella seconda tutti e tre individualmente eseguivano il compito. I risultati hanno evidenziato una sincronizzazione dell’attività della corteccia prefrontale (registrata mediante fNIRS) dei due partecipanti nella prima condizione, sincronizzazione assente nell’osservatore e nella condizione di lavoro individuale. Perché si verifichi una sincronizzazione corticale è necessario quindi che più persone siano fisicamente coinvolte nella stessa attività (Fishburn et al., 2018).

Perché ci sia sincronizzazione neurale è quindi sufficiente essere impegnati insieme in un’attività comune o è necessario collaborare per lo stesso obbiettivo? Lo studio di Liu e collaboratori (2016) mette proprio a confronto le condizioni di cooperazione, competizione e azione individuale. I 22 soggetti, divisi in 11 coppie, si posizionavano ciascuno davanti ad un computer. Nello schermo compariva un cerchio grigio, quando si riempiva di verde (segnale ‘go’), il soggetto doveva premere un tasto il più velocemente possibile. Nella prima condizione la coppia doveva collaborare: minore era la differenza tra i tempi di risposta dei due partecipanti, più punti venivano assegnati loro. Nella seconda condizione il compito era identico ma questa volta erano in competizione l’uno contro l’altro: vinceva chi premeva il tasto per primo. Nelle ultime due fasi dell’esperimento uno svolgeva il compito, l’altro osservava e viceversa.

Un aumento della sincronizzazione cerebrale è stato riscontrato nell’area frontale, solo nella condizione di collaborazione, ulteriore dimostrazione del ruolo di tale meccanismo in processi come la teoria della mente e l’empatia (Liu et al., 2016). Nel momento in cui si collabora in un’attività congiunta per un obiettivo comune, si andrebbe a creare un grande network unico, per cui ogni cervello modifica l’altro: il risultato non può che essere maggiore della semplice somma dei due cervelli.

Tra i meccanismi cerebrali in grado di garantire la sincronizzazione inter-neurale è interessante considerare il circuito della ricompensa e in generale il comportamento prosociale. Uno studio, in particolare, mostra come scambiarsi regali tra due persone prima di impegnarsi in un’attività congiunta aumenti la connettività intercerebrale nella corteccia prefrontale dorsolaterale e migliora la successiva performance (Balconi & Fronda, 2020). Certamente dunque la sintonizzazione cerebrale costituisce un terreno fertile per sviluppare la collaborazione e la crescita degli individui.

Si hanno anche evidenze di sincronizzazione corticale in gruppo, durante lo svolgimento di attività di vario tipo. Diversi studi mostrano ad esempio come la musica sia non solo sincronizzazione di tempi e suoni, ma anche di circuiti neurali ed emozioni. Musicisti che suonano in concerto sembrerebbero sincronizzare le regioni frontali dei loro cervelli, aree note per il loro ruolo nella comprensione dei comportamenti, delle emozioni e delle intenzioni (Lindenberger et al., 2009; Babiloni et al., 2012).

Il gruppo di ricerca di Poeppel (Dikker et al., 2017), dell’Università di New York, ha effettuato uno studio su 12 studenti di un liceo di biologia, registrando simultaneamente la loro attività cerebrale mediante elettroencefalogramma. È emerso che più gli studenti erano impegnati in un’attività comune, più le loro onde cerebrali erano in sintonia. Le variabilità individuali di sincronizzazione cerebrale riflettevano addirittura quanto gli studenti si piacevano tra di loro e quanto apprezzavano lo stile di insegnamento adottato dal professore. Il meccanismo di sincronizzazione corticale sembrerebbe dunque sottendere alla sintonizzazione comportamentale durante le interazioni sociali. Avrebbe lo scopo di rendere più funzionale ed efficace l’azione congiunta, aumentando la probabilità di successo nel raggiungere l’obiettivo.

Approfondire i meccanismi neurobiologici alla base dell’interazione sociale in generale, e della sintonizzazione affettiva in particolare, potrebbe essere molto utile anche in campo psicoterapeutico, in cui la relazione empatica tra terapeuta e paziente acquisisce notevole importanza.

Studi di sincronizzazione corticale in ambito psicoterapeutico potrebbero aiutare a capire ad esempio quale paziente può lavorare meglio con quale terapeuta; o ancora, quali comportamenti non verbali è bene che il terapeuta adotti di fronte al paziente (ascolto profondo, scambio di sguardi, gestualità, mimica) in modo da sfruttare il processo di sincronizzazione corticale e massimizzare la collaborazione e la sintonizzazione con il paziente.

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