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Violenza domestica: confronto tra due programmi di intervento per gli aggressori

Che cosa si può fare per proteggere le vittime di violenza domestica? Alcuni ricercatori confrontano diversi programmi per il trattamento degli aggressori

Di Margherita Rovida

Pubblicato il 27 Lug. 2020

Il tema della violenza domestica è stato molto discusso recentemente, anche in seguito all’aumento dei casi di violenza domestica avvenuto durante il periodo di quarantena legato alla pandemia di covid-19.

 

Infatti, secondo quanto riportato dall’Istat, le telefonate al numero verde 1522 antiviolenza e stalking sono aumentate del 73% tra il primo marzo e il 16 aprile 2020. Nel 93,4% dei casi la violenza riportata avveniva in casa, ossia veniva perpetrata da parte di persone vicine alla vittima.

Che cosa si può fare per proteggere efficacemente le vittime di violenza domestica?

Negli Stati Uniti, accanto ai provvedimenti della polizia e delle autorità giudiziarie, vengono proposti diversi programmi di intervento per gli aggressori (batterer intervention programs, BIP; Zarling, Bannon e Berta, 2019). Tradizionalmente, questi programmi seguono un protocollo definito Duluth Model. Il Duluth Model si sviluppa da una prospettiva teorica secondo cui la violenza domestica è conseguenza di una visione patriarcale. Pertanto, l’obiettivo generale del trattamento è modificare le convinzioni sessiste degli aggressori, da cui deriverebbero i loro comportamenti violenti. Il protocollo è caratterizzato dall’uso di tecniche psicoeducative, che hanno lo scopo di far comprendere la gravità degli abusi commessi. Il Duluth Model può essere somministrato da solo o in combinazione con un trattamento cognitivo comportamentale (CBT), per modificare credenze problematiche e comportamenti disfunzionali.

Tuttavia i programmi basati sul Duluth Model, sulla CBT o su una combinazione dei due hanno un’efficacia poco soddisfacente, in quanto non riducono adeguatamente i tassi di recidiva (Eckhardt et al., 2013).

Per questo, Zarling e colleghi (2019) hanno studiato l’efficacia di un programma alternativo, definito Achieving Change Through Values-Based Behavior (ACTV), ossia “raggiungere il cambiamento attraverso comportamenti basati sui valori”. L’ACTV trae le proprie radici dall’ACT (Acceptance and Committment Therapy), una forma di psicoterapia che dà importanza al raggiungimento di ciò che ha valore per ciascuno. Secondo l’ACT, la violenza domestica potrebbe essere ricondotta al tentativo di evitare esperienze interiori spiacevoli, ad esempio pensieri o emozioni negativi.

L’ACTV cerca di promuovere il cambiamento concentrandosi non tanto sul modificare il contenuto di pensieri ed emozioni, come nel Duluth Model e nella CBT, quanto sul modificare il modo in cui si reagisce a questi pensieri ed emozioni. Ad esempio, di fronte al pensiero “La mia partner non dovrebbe trattarmi in questo modo”, il Duluth Model e la CBT cercherebbero di sostituire questo pensiero con uno più razionale; l’ACTV invece cercherebbe di insegnare a rispettare comunque l’altra persona, anche se si ritiene che non ci stia trattando come vorremmo. Inoltre nell’ACTV si utilizzano i valori importanti per l’individuo come motivazioni per perseguire il cambiamento.

L’ACTV prevede cinque moduli: nel primo l’obiettivo è individuare i valori importanti per ciascuno e imparare a riconoscere quali comportamenti sono efficaci nel raggiungerli e quali no. Il secondo, il terzo e il quarto modulo si focalizzano rispettivamente sull’insegnamento di abilità di regolazione emotiva, abilità cognitive e abilità comportamentali, ad esempio di comunicazione, assertività e risoluzione dei conflitti. Il modulo finale si concentra sull’identificazione di possibili ostacoli al cambiamento e su come agire per risolvere queste eventuali difficoltà.

Zarling e colleghi (2019) hanno confrontato l’efficacia dei due programmi di intervento sopra descritti in un campione di oltre tremila uomini condannati per violenza domestica. L’efficacia è stata definita come effettività nella prevenzione di recidive, cioè nuove denunce per reati a carico dai partecipanti durante i dodici mesi successivi al trattamento.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti che avevano svolto parzialmente o completamente l’ACTV avevano meno denunce per reati in generale e per reati violenti nei 12 mesi successivi al trattamento, rispetto a coloro che avevano seguito il Duluth Model abbinato alla CBT. Tuttavia non c’erano differenze tra i due gruppi rispetto al numero di denunce ricevute per violenza domestica.

Questo significa che l’ACTV è risultato più efficace nel prevenire la perpetrazione di reati in generale, anche di natura violenta, ma non è risultato più effettivo nel prevenire la violenza domestica, che era invece proprio il suo scopo principale.

Zarling e colleghi (2019) sostengono che ciò possa dipendere dall’ampiezza di abilità insegnate tramite il programma ACTV, che possono essere estese a varie situazioni oltre al contesto relazionale. Ciò è senz’altro utile, tuttavia non mira in modo specifico l’obiettivo di proteggere le vittime di violenza domestica aiutando gli aggressori a cambiare il proprio comportamento.

È comunque possibile che l’ACTV sia efficace nel ridurre anche la violenza domestica per specifici campioni. Per scoprirlo, sarebbero necessari ulteriori studi. La ricerca in futuro dovrebbe anche cercare di spiegare perché, ossia attraverso quali specifici meccanismi, l’ACTV sia efficace.

In conclusione, l’aspetto più socialmente e praticamente rilevante di questo studio è che, sebbene i dati circa l’efficacia dell’ACTV debbano essere approfonditi, esso dimostra l’importanza di adottare pratiche evidence-based nella rieducazione di autori di reato. Infatti, solo attraverso un approccio scientifico è possibile monitorare l’efficacia di un intervento, evitando il rischio di affidare al senso comune gli sforzi per eliminare la violenza domestica.

 

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