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Il terapeuta che ride in seduta: osservazioni e riflessioni sul ruolo del riso in psicoterapia

Non esiste un'idea standard sul ridere in terapia, ma è necessario che il terapeuta si interroghi su quello che può rappresentare per lui e per il paziente

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 16 Lug. 2020

Può un terapeuta sentirsi autorizzato in modo sincero e trasparente a lasciarsi andare ad una battuta o a ridere?

 

La mia collega (e omonima) Virginia Failoni tempo fa ci ha regalato un bellissimo articolo sul ruolo che può assumere il pianto all’interno del setting terapeutico, evento che si è meritato il costrutto di ‘Therapists’ Crying In Therapy’. Infatti non stiamo parlando di un pianto qualsiasi ma di quello del terapeuta. Sì sì, avete capito bene: anche lo psicoterapeuta può lasciarsi andare alla commozione e al pianto. La collega riporta, con sua sorpresa, i pochi riferimenti scientifici e i dati di letteratura a riguardo ma le conclusioni hanno normalizzato le lacrime che a volte condividiamo con i nostri pazienti. Sulla scia del suo contributo, ho pensato ad un momento al mio ultimo anno di specializzazione. Chiesi al mio supervisore se era permesso ridere durante la seduta. Cosa mi aspettavo? Che mi dicesse che ero pazza oppure che ridesse a sua volta alla mia domanda? Invece la sua reazione fu: ‘Fammi capire dai…a che stai pensando?

Ed eccoli lì, i frames di turno. In settimana avevo accolto un paziente e qualche secondo prima avevo ascoltato l’audio di un’amica. Gli aprii la porta mentre ridevo ancora. Quando entrò in stanza mi guardò con il volto visibilmente triste e fece un’espressione di disprezzo. Viceversa con un’altra paziente che mi aveva raccontato una storia davvero buffa io risi a stento. Non che non la trovassi divertente. Effettivamente lo era ma subito mi chiesi se era giusto-possibile-corretto-adeguato-ecc ecc ridere durante la seduta. Tuttavia, il mese successivo, una paziente con degli occhi blu molto intensi, aveva appena finito di piangere raccontandomi della morte del padre. Per asciugarsi le lacrime, prese un fazzolettino dalla scatola che si trasformò in un milione di pezzettini che le rimasero incollati alle palpebre. Come se fosse uno sketch comico, iniziai a ridere senza riuscire più a fermarmi. Lei, appena ne comprese il motivo, rise di gusto assieme a me. Il tutto durò la bellezza di qualche minuto.

Tornando al mio supervisore, ricordo che mi disse che se avessi trascorso due ore nel corridoio del suo studio avrei sentito tante risate e tante lacrime sia dei pazienti che dei terapeuti. Aveva ragione: proprio non esistono prescrizioni. Se non quelle che ci siamo costruiti nella nostra mente, durante la nostra storia di sviluppo o durante gli anni della formazione professionale.

Eventi di vita infatti consolidano dentro di noi schemi maladattivi interpersonali (Dimaggio et al. 2013; 2019) con cui conferiamo significato agli eventi. Se, per l’appunto, ci rincorre e domina l’idea di doverci mostrare sempre seri, composti e aderiamo all’immaginario collettivo che vede il terapeuta imperturbabile a tutto, allora sarà più difficile lasciarci andare. Potremmo vergognarci all’idea di trasmettere una risata sfacciata nello stesso modo in cui può essere difficile condividere qualche lacrima. Magari ci ritornano scene in cui ci è stato detto ‘Fannullone…sii concentrato a lavoro, non c’è spazio per altro’. Potremmo provare paura all’idea di non saper gestire le conseguenze e le ricadute nello spazio relazionale della terapia. D’altro canto, potremmo notare conseguenze nella relazione anche quando, con l’intento di soffocare una determinata reazione emotiva, ad esempio cercando di fare abortire una risata, inibendone l’emersione, appariamo inautentici.

Proprio come Virginia, ho provato anche io a fare un giro su Pubmed, e ho scoperto che nomi del calibro di Ellis, Perls, Erickson, Satir, Rogers sono considerati dei ‘super-therapists’ in grado di usare l’umorismo e le risate nelle terapie con i pazienti gravi, all’interno di terapie sia individuali sia di gruppo, sia in setting privati che in contesti istituzionalizzati (Adams, 2008). Sono, però, tecniche ben precise, volte all’induzione attiva di uno stato mentale positivo attraverso la visione di film immagini o storie, ad esempio (Martin, 2007). Anche Linge-Dahl et al. (2018) hanno mostrato l’importanza dell’uso della risata nelle cure palliative e, scorrendo nella ricerca, si trovano altri risultati circa l’applicazione della risata e dell’ironia in casi di insonnia, dipendenza, attacchi di panico e molto altro.

Quello su cui, invece, voglio puntare l’attenzione è un altro aspetto della risata e fa riferimento alla componente del tutto naturale e sincera, casuale, non lontana da quello che accade durante una cena tra amici. A questo punto la domanda dovrebbe essere posta in modo diverso: può un terapeuta sentirsi autorizzato in modo sincero e trasparente a lasciarsi andare ad una battuta o ad una risata? Ma su questo, nessun dato di ricerca. Ho però trovato un interessante studio in cui i soggetti interpretavano la risata dell’altro (quindi anche quella del proprio terapeuta) come scherno o presa in giro. Ovviamente si tratta di pazienti con idee paranoidee o con ansia sociale che faticano a decentrare e a non interpretare le reazioni degli altri se non in modo autoriferito e negativo. In tal caso però si tratta di un problema metacognitivo o di un bias cognitivo legato alla patologia (Kreifelts et al., 2014).

Ecco sciolto il mistero. Probabilmente non esiste una idea standard né universale sul riso nella stanza di terapia ma è necessario che il terapeuta si interroghi su quello che per lui può rappresentare e, soprattutto, che esplori assieme al paziente cosa gli passa nella mente mentre vede il proprio terapeuta lasciarsi andare alla risata, da quella riservata a quella più fragorosa. Abbiamo una domanda che, nella sua semplicità e sincerità, ci permette di indagare davvero di tutto. Suona tipo ‘Ma lei, in questo momento, come mi sta percependo?’ non molto diversamente da quando noi ci chiediamo come ci risuona quello che sta dicendo o facendo il paziente in un determinato momento. E lì bisogna corazzarsi di apertura mentale per poter incassare ogni tipo di risposta da parte dell’altro. Safran e Muran (2019) spiegano in modo chiaro l’importanza di questa disposizione interna, per certi versi difficile da coltivare, ma importante per sondare quello che accade nella danza relazionale di fronte a delle reazioni emotive fisiologiche e automatiche come appunto le lacrime e il riso, oppure anche il rossore, il sopracciglio alzato del disprezzo, gli occhi spalancati per la paura. Grazie a questo tipo di confronto scoprii che il paziente di cui accennavo prima, si sentì sottovalutato nel suo bisogno di attaccamento nel momento in cui mi vide sorridere alla porta. Viceversa, la paziente con i fazzolettini sugli occhi mi disse che era stato importante notare che, anche un dolore intenso può essere temporaneo e modificabile. Infine emerse anche il tema dell’accudimento nei miei confronti: temeva di avermi appesantito con la storia del padre. E fu così che scoprimmo un ulteriore tassello del suo funzionamento.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Adams, P. (2008). Humor and health. International Journal of Psychotherapy, vol. 12, pp. 21–23.
  • Dimaggio G., Ottavi, P., Popolo R., Salvatore G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale. Milano: Raffaello Cortina.
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore.
  • Failoni V. (2019). Quando è il terapeuta a piangere. State of Mind.
  • Kreifelts, B., Brück, C., Ritter, J., Ethofer, T., Domin, M., Lotze, M., ... & Wildgruber, D. (2014). They are laughing at me: cerebral mediation of cognitive biases in social anxiety. PloS one, 9(6).
  • Linge-Dahl, L. M., Heintz, S., Ruch, W., & Radbruch, L. (2018). Humor assessment and interventions in palliative care: A systematic review. Frontiers in psychology, 9, 890.
  • Martin, R.A. (2007). The Psychology of Humor: An Integrative Approach, Elsevier, Burlington, Mass, USA.
  • Safran, J. D. & Muran, J. C. (2019). Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica. Editori Laterza.
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