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Psicologia in cucina – La sparizione della farina spiegata dalla psicologia

La cucina ha il potere di astrarci da quello che ci circonda, allontana altri pensieri e fa sì che ci concentriamo sul momento presente

Di Annalisa Balestrieri

Pubblicato il 31 Lug. 2020

Cucinare è un modo per dimostrare affetto e attenzione a chi ci è vicino e condividerà con noi quelle pietanze. Ma è anche un modo per prenderci cura di noi stessi ed esprimere il nostro umore.

 

Avrete sicuramente notato come nel periodo di quarantena dovuta al Covid-19 si sia riscontrato un fenomeno curioso: nei supermercati è sparita la farina! Esiste uno stretto legame tra psicologia e arte del cucinare. Non solo per un’indiscutibile necessità di cibo per la nostra sopravvivenza ma anche per il significato evidente che assume sia in campo sociale che come pratica per favorire uno stato di benessere personale. Una sorta di ‘mindfulness’, un percorso interiore per conoscerci meglio e, perché no, per farci conoscere meglio da chi ci sta intorno. Perché il nostro rapporto con la cucina dice molto anche di noi.

Perché è sparita la farina?

Indubbiamente le circostanze hanno avuto il loro peso. Trovandosi a passare molto più tempo a casa, numerose persone, molte più di quelle che lo fanno abitualmente, hanno deciso di utilizzare il loro tempo cucinando. Dolci, pizze, pane, pasta fatta in casa. Anche persone che normalmente non si erano mai dedicate alla cucina non solo per mancanza di tempo ma anche perché non si erano mai sentite particolarmente in sintonia con i fornelli.

Sicuramente cucinare ha un grande valore di condivisione, è un’attività che spesso presuppone un successivo momento in cui un gruppo, che in questo periodo possiamo restringere ad una famiglia, si ritrova intorno ad un tavolo e si guarda negli occhi. Passa del tempo insieme, lasciando da parte almeno per un po’ altre distrazioni, comunica, si confronta. Il poter sottolineare questo momento condividendo qualcosa che gratifichi i sensi, come il gusto, diventa un’occasione in più per far sì che l’umore e la disposizione d’animo dei partecipanti siano quanto di meglio si possa desiderare.

Cucinare ha appunto una forte valenza sociale, come ci spiega il Dott. Antonio Ceresa, neuroscienziato, nel suo libro La Cooking Therapy: Come trasformare la cucina in una palestra per la mente. Applicazioni per pazienti neurologici. La Cooking Therapy, ci spiega nel suo libro, sta diventando un vero e proprio trattamento medico per ridurre la disabilità in varie patologie neurologiche (ictus, demenze, trauma cranico) e psichiatriche (dipendenze da sostanze, schizofrenia, anoressia nervosa).

Cucinare ha infatti il potere di astrarci da quello che circonda, allontana altri pensieri e fa sì che ci concentriamo su quello che stiamo facendo in quel preciso momento. Ci concede una tregua da quello che normalmente occupa la nostra mente, funzione particolarmente utile soprattutto quando questo qualcosa è rappresentato da preoccupazioni e pensieri negativi. Allenta lo stress (manipolare gli ingredienti, come ad esempio impastare la farina, ha la medesima funzione rilassante delle note palline antistress), insegna a gestire il tempo senza ansie, inoltre ci fa sentire padroni della situazione, in grado di controllarla e prevederla, con effetti calmanti e rassicuranti.

Cucinare come forma di espressione

Il modo in cui cuciniamo dice anche molto di noi, ad esempio ci fa capire quanto siamo creativi, quanto siamo in grado di fronteggiare un imprevisto (vi è mai capitato di essere alle prese con una ricetta e nel bel mezzo della sua realizzazione accorgervi che vi manca un ingrediente essenziale?), quanto sappiamo essere pazienti nel differire una gratificazione e quanto siamo capaci di affrontare una delusione, qualora la nostra ricetta risultasse al di sotto delle aspettative o il forno decidesse di giocarci qualche brutto scherzo.

Cucinare è un modo per dimostrare affetto e attenzione a chi ci è vicino e condividerà con noi quelle pietanze. Ma è anche un modo per prenderci cura di noi stessi ed esprimere il nostro umore: oggi cucino questo perché è in sintonia con il modo in cui mi sento. Se cuciniamo solo per noi stessi abbiamo l’occasione di metterci in gioco senza sentirci giudicati, liberi di lasciarci andare ed essere noi stessi, e liberi di valutare i risultati che avremo raggiunto senza paura di essere criticati. Inoltre è risaputo che prendersi cura di sé stessi ha il potere di rendere più felici.

Da soli o in compagnia

A seconda che ci si dedichi all’arte culinaria da soli o in compagnia, obiettivi, effetti e benefici variano.

Cucinare da soli ci permette di ritagliarci del tempo esclusivamente per noi stessi, organizzarci, gestirci, prendere l’iniziativa, decidere come comportarci, ad esempio se seguire un piano prestabilito o mettere in gioco la nostra creatività. E il risultato (se tutto sarà andato bene) sarà una gratificazione alle nostre abilità.

Se cuciniamo in gruppo, condividiamo un’esperienza, ci confrontiamo con gli altri, collaboriamo per il raggiungimento di un obiettivo comune, dividiamo i ruoli e gli spazi, cementiamo l’intesa e otteniamo una gratificazione che riguarda il lavoro di squadra e la capacità di interagire più che le singole abilità.

Addirittura alcune aziende si affidano alla cucina per la loro strategia di team building, ossia quelle pratiche messe in atto nell’ambito delle risorse umane per formare un gruppo coeso e in grado di esprimere al meglio le potenzialità di ciascuno. Colleghi che hanno condiviso un’esperienza ai fornelli ne hanno ottenuto notevoli benefici sia dal punto di una maggiore capacità di collaborare che di una maggiore creatività.

A volte cucinare diventa anche un pretesto per mantenere vivi i contatti con gli amici, persone che magari non sono con noi in questo momento ma con le quali scambiamo ricette, esperienze e consigli. Consolida il nostro ruolo all’interno di un gruppo e allontana la paura di sentirci soli.

Una nuova concezione

Anche la concezione stessa della cucina, intesa come spazio dove sperimentare la nostra abilità ai fornelli, è cambiata radicalmente negli ultimi anni. Se una volta le cucine erano locali a sé dove gli ospiti esterni non avevano accesso, oggi cucinare è sempre più un atto di condivisione. Le cucine sono più aperte, a volte sono un tutt’uno con il salotto, e vedere la padrona di casa intenta a cucinare mentre si aspetta di pranzare, magari collaborando agli ultimi ritocchi, è visto come qualcosa di sempre più normale e piacevole.

Dunque, da soli o in compagnia, cucinare ci aiuta a confrontarci con noi stessi, con le nostre abilità e i nostri limiti, facilita il confronto con gli altri e la capacità di collaborare. E se vi sentite negati per la cucina, è il momento di sfatare questa convinzione: è infatti dimostrato che uscire dalla propria comfort zone e affrontare una situazione che fa sentire a disagio accresce l’autostima e la fiducia in noi stessi! Provare per credere.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ceresa, A (2020) La Cooking Therapy: Come trasformare la cucina in una palestra per la mente. Applicazioni per pazienti neurologici e psichiatrici, Milano, Franco Angeli
  • Roccaro, S. (N.D.) La cooking therapy, (6 luglio 2020)
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