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La reazione genitoriale alla diagnosi patologica e la sua influenza nell’attaccamento del bambino

In base alla diagnosi infantile e alle sfide psicologiche e comportamentali richieste, varierebbero la reazione genitoriale e l'attaccamento del bambino

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 16 Giu. 2020

Sono stati condotti studi specifici volti a comparare l’effetto della diagnosi infantile di due malattie -la paralisi cerebrale e l’epilessia- sulla natura dell’accudimento genitoriale succedaneo alla diagnosi.

 

La malattia è un viaggio nell’ignoto, nello sconosciuto, è l’abbandono di una dimensione di sicurezza per approdare in una realtà colma di dubbi e timori, che molto spesso si tramutano in esperienze di dolore e solitudine. Ma accettare che tutto ciò debba accadere al proprio bambino dissesta l’omeostasi emotiva del genitore, costringendolo a confrontarsi con una realtà innegabile quanto inattesa: di colpo si spezzano le aspettative positive e appaganti che il genitore tende a proiettare sul figlio, si interrompono i sogni di positività che per lui si ipotizzavano, così come viene reciso il senso di esistenza che in lui i genitori credevano di poter proiettare.

L’immagine del bambino nella mente si trasforma. La sua malattia finisce col perturbare l’equilibrio dell’intera famiglia, che, nel tentativo di mantenere l’omeostasi si sforza di adattarsi alla malattia attraverso un processo emotivo che implica l’attraversamento dei seguenti stadi (Doka, 2003): fase di shock, subito dopo la diagnosi, in cui si verifica un’angoscia paralizzante che blocca i meccanismi di difesa, unita ad uno stato confusionale e di disorientamento che paralizza qualsiasi reazione funzionale; fase di negazione, in cui l’accaduto comincia a venir realizzato, e si cercano possibili soluzioni volte a mitigare il dolore o a trovare alternative come la ricerca di altre diagnosi e il consulto nuovi medici; fase di depressione, in cui a dominare sono sentimenti di perdita e disperazione, il flusso temporale è immobilizzato così come ogni possibile reazione attiva, i genitori avvertono che tutto è perduto, e iniziano processi di colpevolizzazione auto o etero diretta; fase di rielaborazione, in cui prende forma la modalità relazionale che intercorre tra paziente e famiglia, declinabile o in un atteggiamento iperprotettivo ed eccessivamente coinvolto che comporta livelli maggiori di ansia e apprensione da parte dei genitori, o in un opposto atteggiamento distanziante e negazionista, che vede la delegazione della cura del bambino a soggetti esterni alla famiglia (negazione dell’evento traumatico), o ancora in un comportamento sublimante, che vede la possibilità di pensare alla malattia come ad un’esperienza di crescita interiore; infine la fase di accettazione, che implica la morte del figlio idealizzato e la presa di coscienza di realtà su di lui e sulla sua situazione oggettiva; si tratta della reazione più adattiva, che vede i genitori impegnati a fronteggiare l’evento malattia abbandonando ogni investimento narcisistico sul bambino, al fine di raggiungere una stabilità emotiva che sia capace di tradursi in comportamenti funzionali.

D’altro canto il bambino si rispecchia nel genitore, che, in qualità di adulto della situazione, deve riuscire a contenere le ansie del piccolo malato per restituirgliele in una modalità più accessibile, più accettabile, meno disintegrante, evitando le difese arcaiche e meno produttive per affrontare consapevolmente le eventuali fasi di regressione che in questa dimensione si verificheranno in tutti i soggetti coinvolti (Bonichini, Tremolada, 2013).

Reaction to diagnosis interview: studi comparativi

Marvin e Pianta hanno ipotizzato l’esistenza di un collegamento tra reazione alla malattia e attaccamento, affermando che un’accettazione funzionale e rielaborativa della diagnosi da parte dei genitori consenta lo sviluppo di emozionalità positive nel contesto familiare, in grado di offrire al bambino sostegno contro l’insorgenza di eventuali disturbi psicopatologici al disagio collegati.

Uno degli strumenti maggiormente utilizzati per l’indagine dell’effetto della malattia sui genitori, subito dopo una diagnosi, è la Reaction to Diagnosis Interview (RDI, Marvin e Pianta, 1996), ideata nella cornice della teoria dell’attaccamento e simile nella metodica alla AAI (Main e Goldwyn, 1985-1998), eccezion fatta per l’impiego di videoregistrazioni che nella AAI non sono previste.

L’obiettivo dello strumento è quello di valutare il grado di rielaborazione del trauma associato all’esperienza di dover allevare un figlio gravemente malato, e di rievocare nello specifico lo stato d’animo e mentale che il genitore ha sperimentato nel momento della ricezione della diagnosi, i cambiamenti intercorsi da quel momento, la ricerca del senso di questa esperienza (Gattinari e Pallini, 2015). Al genitore viene chiesto di ricordare il momento in cui ha scoperto che suo figlio aveva dei problemi di salute in grado di modificare l’intero corso della sua vita, quali riflessioni ha fatto, cosa ha pensato in merito alla natura e alla possibile evoluzione della malattia, se i suoi pensieri hanno subito una modifica da allora. Indici di interpretazione vengono considerati non soltanto i messaggi esplicitati verbalmente dai soggetti, ma anche la comunicazione non verbale, la mimica facciale, le espressioni affettive, il pianto.

Al termine dell’intervista i dati raccolti vengo organizzati all’interno di due categorie, risolta e irrisolta. La prima dimensione indica soggetti che si mostrano in grado di fronteggiare la diagnosi patologica, accettando i rischi e la negatività della stessa in un atteggiamento di coerenza e accettazione che non escluda tuttavia la possibilità della ripresa e della guarigione. Le aspettative del soggetto appaiono realistiche, l’atteggiamento verso il figlio è responsivo e al contempo non limitante della sua libertà: vengono riconosciuti i bisogni del bambino e mantenuti al contempo quelli dell’intera famiglia, in una prospettiva di adattamento omeostatico che consente l’equilibrio e il benessere del nucleo malgrado la patologia. Al contrario i soggetti irrisolti non hanno elaborato il trauma, e considerano la malattia come un vero e proprio lutto, la perdita definitiva dell’immagine del bambino nella mente. Le loro interviste sono caratterizzate da aspettative irrealistiche, ricerca di una diagnosi alternativa, diniego e disperazione. Le emozioni negative paralizzano in una stagnazione rielaborativa il contesto emotivo dell’intera famiglia, che non può evolvere in una dimensione adattativa e incoerente rispetto al trauma. Proprio quest’incoerenza può generare risvolti patologici nella psiche del bambino, causando l’insorgenza di attaccamento disorganizzato e psicopatologie.

Sulla base della intergenerazionalità dei MOI si può ipotizzare che anche il genitore disorganizzato sia a sua volta portatore di un disturbo dell’attaccamento infantile, e che la sopravvenienza della diagnosi patologica comporti la rievocazione di vissuti traumatici mai rielaborati perché mai giunti alla coscienza né rielaborati in una prospettiva funzionale.

Due tipologie patologiche: epilessia e paralisi cerebrale

Validata l’ipotesi di Martin e Pianta, si suppone tuttavia che la tipologia della reazione genitoriale alla malattia del bambino non sia l’unica causa dell’instaurazione di un attaccamento infantile disorganizzato, essendo rilevante, a tal proposito, anche la tipologia della malattia diagnosticata e le sue caratteristiche intrinseche.

Studi sulle reazioni dei genitori alla patologia dei figli sono state praticate per quanto riguarda lo spettro autistico (Oppenheim et al., 2012), la fenilchetonuria (Lord et al. 2008), l’epilessia (Marvin e Pianta, 1996), la paralisi cerebrale (Marvin e Pianta 1996; 1999), il ritardo evolutivo (Barak-Levy e Atzaba- Poria, 2013). In tutti questi casi una risoluzione della diagnosi è risultata positivamente correlata all’insightfullness e alla sicurezza dell’attaccamento ( Oppenheim et al., 2012), ma studi ulteriori hanno consentito di rilevare come le stesse connotazioni delle patologie possano avere un’influenza sulla reazione del genitore e quindi su quella del bambino. Quindi ad una malattia diversa potrebbero correlarsi una reazione genitoriale diversa e un differente stile di attaccamento da parte del bambino, aspetto che dipenderebbe dalle diverse sfide psicologiche e comportamentali richieste dalle varie patologie esistenti.

Sulla base di questa ipotesi sono stati condotti studi specifici volti a comparare l’effetto della diagnosi di due malattie -la paralisi cerebrale e l’epilessia- sulla natura dell’accudimento genitoriale succedaneo alla diagnosi (Martin, Pianta, 1999). Le indagini sono state effettuate mediante la somministrazione di RDI ad un gruppo di genitori di bambini affetti da paralisi cerebrale e ad un gruppo di genitori di bambini epilettici, con risultati di evidente differenziazione: i primi sono apparsi molto più propensi ad un accudimento organizzato e coerente rispetto ai secondi, per quanto la reazione alla diagnosi sia risultata per entrambi di difficile rielaborazione.

L’atteggiamento maggiormente organizzato e meno imprevedibile del primo gruppo sembra dovuto alle conseguenze create nel contesto familiare dall’insorgenza della paralisi cerebrale, e alla diretta presa in carico del figlio conseguente alla diagnosi. Si tratta, nello specifico, di una malattia che colpisce lo sviluppo motorio, linguistico e cognitivo del bambino, rendendolo bisognoso di assistenza nell’espletamento delle normali funzioni vitali, e oggetto di frequenti blocchi e rallentamenti, specie in ambito motorio, durante il percorso evolutivo. Ma si tratta di bambini che, fatta salva tale importante difficoltà, tendono a mostrare una dimensione emotiva e comportamentale piuttosto stabile, prevedibile, senza cambiamenti repentini. Questo consente ai genitori una migliore gestione della malattia e dei disagi ad essa conseguenti, una più agevole regolazione dello stress e una più stabile organizzazione delle attività quotidiane del bambino, che di tale stabilità risente positivamente.

I bambini epilettici tendono invece a condurre un processo evolutivo piuttosto normale, e non necessitano di particolari aiuti esterni, ma al contempo sono soggetti ad attacchi improvvisi, imprevedibili, non gestibili, che disorientano e spiazzano i genitori. Il bambino può subire un attacco epilettico in qualsiasi situazione, senza alcun preavviso, e questa impossibilità di pianificazione e in un certo senso di organizzazione dell’attacco, pone i genitori in una situazione di ansiosa impotenza, costringendoli a vivere nella continua attesa di un nuovo episodio: fatto questo che tende ad impedire una focalizzazione chiara e diretta sulla condizione attuale del bambino (Pianta, Marvin, Morog, 1992; 1999), e a mettere gravemente in discussione la percezione che il caregiver può avere di sé come figura protettiva. Inoltre i bambini epilettici tendono a manifestare disturbi della regolazione, oltre a tremori motori e mancanza di coordinamento, e questo rende la loro gestualità particolarmente imprevedibile, incoerente e scollegata ai loro reali bisogni. Questo non consente ai genitori di identificare attivamente i segnali dell’attivarsi della crisi, né di mostrarsi responsivi all’attivazione del sistema di attaccamento che alla stessa consegue. Chiaro come in queste circostanze possa mostrarsi meno agevole la conduzione di un accudimento coerente e organizzato da parte dei genitori, e come il bambino, di fronte a tale disorganizzazione e insicurezza, possa rispondere con analoghi stati d’animo.

In questo frangente è stato dunque riscontrato che l’elaborazione della condizione della malattia del bambino da parte del genitore, e dunque la reazione alla diagnosi, è maggiormente correlata alla sicurezza che non all’organizzazione dell’attaccamento, aspetto nel quale la prevedibilità e la possibilità di gestione della malattia sembrano giocare un ruolo decisivo.

In conclusione, al termine degli studi svolti sull’argomento, è emersa la chiara presenza di un legame generale tra risoluzione di un evento traumatico (malattia del bambino) e sviluppo di una modalità di attaccamento organizzata, fattore che può essere ulteriormente collegato alla natura dell’attaccamento del genitore alle proprie figure genitoriali e alle caratteristiche intrinseche della malattia oggetto della diagnosi: questo apre alla possibilità di intendere in modo nuovo il rispettivo valore che la risoluzione di eventi passati e presenti gioca nello sviluppo dell’attaccamento, condizionandolo fortemente.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Barak-Levy, Y., Atzaba-Poria, N. (2013), Paternal versus maternal coping styles with child diagnosis of developmental delay. Research in Development Disability, 34; pp. 2040-6;
  • Bonichini, S., Tremolada, M., (2014), Le patologie mediche croniche e acute nel bambino. Fattori di rischio nella genitorialità, in La funzione genitoriale, Simonelli A. ( a cura di), Raffaello Cortina, Milano;
  • Doka, K.J., (1993), Living with life-treathening illness: a guide for patiens, their families and caregivers, Lexington Books, New York;
  • Gattinara, P.C., Pallini, S. (2015), “Avere un figlio gravemente malato: la reazione dei genitori alla diagnosi” in MEDIC, Metodologia didattica e innovazione clinica, 23(1), pp. 9-15;
  • Lord, B., Ungerer, J., Wastell, C. (2005), Implication of resolving diagnosis of PKU for parents and children. Journal Pediatrich Psychology, 33; pp. 855-65;
  • Marvin, R.S., Pianta, R.C.(1996) Mothers’ reactions to their child’s diagnosis: relations with security of attachment. Journal Clinical Child Psychology, 25; pp. 436-445;
  • Oppenheim, D., Koren-Karie, N., Dolev, S., et al. (2012), Maternal sensitivity mediates the link between maternal insightfulness/resolution and childmother attachment: the case of children with Autism Spectrum Disorder, in Attachement Human Development;14:6, pp. 567-84;
  • Pianta, R.C., Marvin, R.S., Britner, P., Borowitz, K. (1996), Mother’s resolution of their children diagnosis: organized patterns of caregiving representations, in Infant mental health journal, 17, pp. 239-256;
  • Pianta, R.C., Marvin, R.S., Britner, P., (1992), Attachement Security in children with epilepsy, Charlottesville, University of Virginia;
  • Pianta R.C., Marvin R.S., Morog, M.C. (1999), Resolving the Past and the Present: relation with attachment organization. In Solomon J, George C, eds. Attachment disorganization. New York, Guilford Press.
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