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Nel mare c’è la sete (2020) di Erica Mou – Recensione del libro

"Nel mare c'è la sete" mostra vividamente quanto un trauma passato possa condizionare in modo sostanziale i rapporti, gli affetti e le scelte di vita

Di Laura Lambertucci

Pubblicato il 06 Mag. 2020

Aggiornato il 28 Lug. 2021 16:35

Nel mare c’è la sete è un romanzo sulla possibilità di guardare in modo diverso al proprio passato, con uno sguardo più compassionevole verso noi stessi, approdando a quell’accettazione di sé, fondamentale per poter dare valore alle proprie scelte.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Io sono una spiaggia che a un certo punto, a furia di
pressare e compattare e archiviare, si è ritrovata montagna.
Più alta persino di una giraffa.
Voglio tornare a essere mare, voglio tornare all’acqua certa che mi riconoscerà.

 Nel mare c’è la sete è il romanzo d’esordio della cantautrice Erica Mou, in cui al centro della narrazione c’è la complessità del mondo delle relazioni, in particolare quando un trauma passato condiziona pesantemente rapporti, affetti e scelte di vita.

Nel mare c’è la sete: quattro pasti

La vicenda si svolge apparentemente nell’arco di 24 ore, scandite da quattro pasti che cadenzano il libro come strofe di una canzone. In realtà, in questo lasso di tempo, ripercorriamo insieme a Maria, la protagonista e narratrice della storia, i suoi ultimi venticinque anni di vita, a partire dal momento in cui sostiene di aver ucciso sua sorella minore Estate.

Il libro inizia proprio con l’anniversario della sua morte.

Nel mare c’è la sete: vedersi attraverso gli altri

Maria è una ragazza di 32 anni, che ha messo su un bizzarro negozio, in cui la sua mansione è quella di pensare e confezionare regali per persone importanti, per conto di chi non riesce a farlo per insicurezza o per pigrizia. Un lavoro quindi rivolto alla soddisfazione dei desideri altrui, che è una costante nella vita di Maria. Le sue scelte personali infatti sembrano più sintonizzate su gusti, desideri e bisogni degli altri che su quelli propri (“E’ una vita che rubo vite”). La stessa idea del negozio era stata della sua cara amica Ruth, dei tempi del soggiorno a Londra, e in fondo a Maria nemmeno piace e cova l’intento di volersene disfare.

Maria convive con Nicola, un ragazzo molto diverso da lei. Maria si definisce imperfetta, una di quelle persone che nella borsa non trova mai niente. Nicola invece, pilota di aerei, è secondo sua madre il ragazzo perfetto: strutturato e preciso nelle sue abitudini, molto attento alla forma e alla superficie delle cose, senza andare in profondità, nemmeno degli stati mentali dolenti di Maria.

In questo rapporto, Maria sente di non aver costruito niente insieme a Nicola: vivono in una casa che a loro non piace, hanno una cane solamente immaginario e non riescono ad avere un dialogo autentico. La decisione di andare a vivere insieme era stata presa subito dopo essersi conosciuti

con la fretta che hanno i complici di un reato con il motore acceso, senza il tempo di pensare, con la rapidità di chi deve sopravvivere e dunque scappa. Io da una casa troppo vuota, lui da una sovraffollata.

Maria ha difficoltà a lasciare Nicola e, probabilmente, il suo non chiederle troppo dei suoi malesseri (lui stesso esprime l’ansia attraverso dolori fisici notturni) le rinforza la tendenza a non voler affrontare i propri temi dolorosi, ma piuttosto a evitarli e sfuggirne.

Nel mare c’è la sete: un trauma in famiglia

A segnare profondamente la vita di Maria e della sua famiglia è un evento tragico avvenuto quando aveva 7 anni: mentre stavano giocando insieme nella loro cameretta, un incidente domestico causa la morte della sorellina di 5 anni, Estate (titolo della canzone preferita dai suoi genitori).

Da quell’evento traumatico, si costruisce granitica in Maria la credenza di essere la responsabile della morte di Estate, come

un blocco di marmo in mezzo al petto, tra le costole e lo sterno.

Anche se le persone intorno a lei (tranne suo padre) cercano di rassicurarla, a parole, ripetendole che non è stata colpa sua, l’atteggiamento della sua famiglia le conferma, nei gesti e nel clima relazionale, questa convinzione profonda e dolorosa. Il padre cade in una profonda depressione e attua un serrato silenzio nei suoi confronti, interrotto solo da occasionali rimproveri; sua madre intrattiene con lei un rapporto meramente formale, dove non c’è spazio per l’ascolto dei bisogni emotivi di Maria, ma solo per preoccupazioni di carattere materiale, a partire da quella per il poco appetito mostrato da sua figlia.

Maria si sente incollata addosso l’etichetta della colpevole, dell’ “assassina” e sembra non sentirsi degna di desiderare e decidere il meglio per sé. Inoltre, l’abitudine costante a non essere vista, fa in modo che anche Maria stessa non veda, riconosca e accetti il suo mondo interiore. Filastrocche e giochi di parole composte nella sua mente l’aiutano, in certi momenti, a dissociarsi da un mondo percepito come non comprensivo, indifferente e giudicante.

Nel mare c’è la sete: riconoscersi

Le 24 ore, attraverso cui seguiamo Maria, la conducono a un altro momento cardine della sua vita: la decisione di continuare o meno la gravidanza, che ha scoperto poco più di una settimana prima. Maria, col suo profondo vissuto di indegnità, credeva di essere sterile, pensava che da lei non potesse nascere alcun essere umano e che la natura gliene avesse dato conferma fino a quel momento .

Maria è combattuta tra diversi scenari: c’è una parte di lei che vorrebbe conoscere la creatura che potrebbe dare alla luce e che, nella sua fantasia prevalente, è una bambina di nome Libertà, libera da nomi assegnati per tradizione di famiglia, da etichette, aspettative e condanne; allo stesso tempo, sente anche di non essere pronta a questo importante momento, pensa di non aver costruito nulla e di condannare la bambina o il bambino che nascerà ai condizionamenti del trauma vissuto. Teme infatti il rischio che possa diventare un gesto di espiazione per sé stessa e per la sua famiglia, una nuova nascita per simbolicamente assolverli dalla morte di Estate. D’altra parte, immaginando di dire a tutti di aver abortito, percepisce il loro sguardo critico e disprezzante e la conferma, una volta per tutte, che è davvero lei l’assassina e l’unica da condannare nel “processo”.

Tuttavia, di fronte all’immensità del mare (“spazi grandi, adatti alle decisioni grandi”), Maria percepisce dentro di sé una nuova voce che le dice:

Io non sono un’assassina. Io sono una bambina che stava giocando nella sua cameretta.

A poco a poco, prendendo contatto con la bimba che è stata e prendendosene finalmente cura, sente sgretolarsi dentro di sé quel “pregiatissimo” blocco di pietra al petto, al di sotto del quale c’è

una bussola, proprio come quella di Ruth, che trova il nord di dove voglio andare.

Finalmente libera, emerge in lei il pensiero che ci sia un’altra strada da percorrere: scegliere per la prima volta senza dover rendere conto agli altri e temere costantemente il loro giudizio, ma dando legittimità al proprio sentire.

Maria sceglie di interrompere la gravidanza e, insieme a questa importante decisione, inizia a sentire il bisogno di dare una svolta a quella patina piatta e apparentemente confortante che era diventata la sua vita: come un immenso e calmo mare, che tuttavia non può nutrire la sete perché la sua acqua non si può bere.

Nel mare c’è la sete è un romanzo, che ha il suono di “una lunghissima canzone”, sulla possibilità di guardare in modo diverso al proprio passato, con uno sguardo più compassionevole verso noi stessi, approdando a quell’accettazione di sé, fondamentale per poter dare valore alle proprie scelte.

 

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SCRITTO DA
Laura Lambertucci
Laura Lambertucci

Psicologa clinica, Psicoterapeuta in formazione

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Mou, E. (2020). Nel mare c'è la sete. Fandango Libri
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