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Attaccamento e self-compassion: proteggono gli adolescenti dal NSSI?

Uno studio esamina la relazione tra attaccamento, autocompassione e non suicidal self-injurynon (NSSI) in un campione di adolescenti

Di Catia Lo Russo

Pubblicato il 14 Mag. 2020

L’adolescenza è una fase evolutiva caratterizzata da rapidi cambiamenti fisici e psicologici; essa si accompagna ad un’elevata attenzione sulle relazioni interpersonali ed emotive con le figure significative della propria vita.

 

Questi cambiamenti potrebbero accrescere la vulnerabilità dell’adolescente nei confronti dell’insorgenza di disturbi psicologici, come ad esempio il disturbo d’ansia sociale, disturbi del comportamento alimentare e depressione (Lerner &Steinberg, 2009), e il non suicidal self-injury (NSSI).

NSSI fa riferimento alla distruzione diretta, volontaria e socialmente non accettabile, del proprio tessuto corporeo, in assenza di un intento letale (Nock, 2010), sebbene incrementi il rischio di futuri tentativi di suicidio (You&Lin, 2015). Secondo una meta-analisi condotta da Swannelle colleghi nel 2014, l’NSSI ha una prevalenza del 17.2% durante l’adolescenza (Swannell, Martin, Page, Hasking, & St. John, 2014). Servendosi di dati self-report di 658 studenti della scuola secondaria, il presente studio esamina, nello specifico, due potenziali fattori interpersonali protettivi per gli adolescenti con NSSI: la qualità dell’attaccamento dell’adolescente con gli altri significativi e la sua autocompassione (Mikulincer&Shaver, 2007; van Vliet&Kalnins, 2011). Infine, è stato esplorato l’effetto di mediazione dell’autocompassione nella relazione tra NSSI e attaccamento alle figure significative.

Innanzitutto, la teoria dell’attaccamento si occupa di interpretare i legami affettivi degli individui in interazione con altri. Gli schemi relazionali ed emotivi che si sviluppano con le figure di accudimento primario, andranno a costituire dei prototipi per le relazioni interpersonali future. Precisamente, ricerche precedenti hanno identificato l’assenza di attaccamento sicuro come un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento di condotte autolesive prive di intenti fatali (Tatnell, Kelada, Hasking, & Martin, 2014).

L’autocompassione può essere considerata una strategia di coping basata sulle emozioni. Essa si definisce come la capacità di essere compassionevoli nei confronti di se stessi e, a sua volta, include la capacità di comprendere e accettare con atteggiamento non giudicante i propri fallimenti o la propria sofferenza (self – kindness), la capacità di riconoscere che gli errori e i fallimenti sono parte integrante dell’esperienza umane (sense of common humanity) e la capacità di essere consapevoli dei propri pensieri e sentimenti dolorosi, senza ricorrere a ruminazione, evitamento o negazione di essi (Neff, 2016). Infine, sulla base dei “modelli operativi interni” della teoria dell’attaccamento (Pietromonaco&Barrett, 2000), l’autocompassione può fungere da meccanismo sottostante attraverso cui la qualità della relazione di attaccamento protegge l’individuo dalle condotte legate al NSSI. Gli individui con attaccamento sicuro percepiscono l’altro come benevolo e considerano se stessi come degni di essere amati, pertanto il loro senso di valore e di connessione sicura all’altro facilitano lo sviluppo di auto compassione (Pepping, Davis, O’Donovan, &Pal, 2015).

I risultati della presente ricerca hanno rivelato che il 13.8% del campione hanno avuto esperienze di NSSI durante l’anno precedente e che le ragazze ricorrono a tali comportamenti più frequentemente rispetto ai ragazzi. Inoltre, confrontando il gruppo dei minori che hanno avuto esperienze di NSSI e il gruppo che non ha mai avuto esperienze di questo tipo, è emerso che differiscono significativamente rispetto all’attaccamento con la madre, con il padre e rispetto al costrutto dell’autocompassione, mentre non sono emerse differenze circa l’attaccamento con i coetanei. Infine, per quanto concerne gli effetti di mediazione, la ricerca ha rilevato che l’autocompassione funge da mediatore tra la vicinanza dell’adolescente ad entrambi i genitori e ai pari con l’insorgenza di NSSI. In aggiunta, l’autocompassione media la qualità della comunicazione con i pari e NSSI.

Nello specifico, i minori del gruppo “non – NSSI” hanno rivelato un attaccamento ai genitori caratterizzato da maggiore fiducia, comunicazione e vicinanza rispetto all’altro gruppo, così come hanno riportato livelli più alti di compassione verso se stessi.

In primo luogo, ciò permette di guardare alla capacità di autocompassione come un fattore di protezione nei confronti dell’attivazione di schemi negativi sul sé, responsabili dell’insorgenza di condotte inadeguate come quelle del non suicidal self-injury. Infatti, individui dotati di self-kindness tenderanno ad astenersi dal punire se stessi (Nock, 2010), così come i soggetti che possiedono un senso comune di umanità non avranno sentimenti di isolamento sociale, spesso correlati a condotte autolesive (Nock, 2010) e, infine, coloro che hanno consapevolezza dei propri pensieri negativi e li accettano in quanto tali, saranno protetti dal ricorrere al NSSI come strategia di regolazione delle emozioni (Heath et al., 2016).

In secondo luogo, appare evidente come le esperienze di attaccamento negative con i propri genitori, aumentino la probabilità di insorgenza e di mantenimento di condotte tipiche di NSSI.

Da un punto di vista clinico, tali risultati suggeriscono l’estrema importanza di intervenire, da un lato sulla relazione genitore-bambino, al fine di migliorarne la qualità e prevenire l’autolesionismo, dall’altro sull’implementazione e sul miglioramento della capacità di essere compassionevoli verso se stessi. A tali scopi, di grande utilità saranno le terapie familiari basate sull’attaccamento, così come è auspicabile, in ambito scolastico, la promozione di progetti che vedano un maggiore coinvolgimento dei genitori e che, al contempo, favoriscono opportunità di interazioni positive tra pari.

 

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