Recenti studi hanno identificato l’esistenza di una possibile relazione tra attaccamento disorganizzato infantile e sintomi dissociativi in età adulta, fondando questa ipotesi a partire dalle analogie riscontrabili tra i due aspetti patologici.
Per comprendere la natura di questo legame è necessario definire il concetto di dissociazione come uno stato psichico la cui presenza causa una totale disconnessione tra memoria, attenzione, identità, aspetti che in condizioni non patologiche funzionano a livello sintetico e collaborativo. Freud (1920; 1925) definiva l’episodio di dissociazione come un meccanismo di difesa che intercorre dopo un evento di particolare impatto emotivo, identificabile, nella maggioranza dei casi, con un trauma che spinge l’Io a distanziarsi dall’evento disgregante per non doverlo affrontare né rielaborare, fin tanto da non riconoscerlo come proprio (negazione) o da ritenere che lo stesso sia mai accaduto (diniego).
Janet dà invece una definizione diversa di trauma, che ben poco ha a che vedere col meccanismo di difesa ipotizzato da Freud. La dissociazione che consegue al trauma viene in questo caso definita come un fallimento della sintesi personale, intesa come adattamento funzionale all’ambiente, che costituisce l’obiettivo principale dell’attività mentale (1889; 1907). Questo fallimento non può venir causato solo dal trauma, ma da qualunque altra situazione ad impatto emotivo particolarmente disgregante, come emozioni violente, malattie, lutti: in ogni caso in cui il meccanismo dissociativo viene messo in azione, ad ogni modo, non si tratta di un meccanismo di difesa dell’Io, quanto di una conseguenza del trauma stesso, quel trauma che provoca il crollo della coerenza dei processi mentali adattivi in grado di garantire il mantenimento di un Sé integrato. La memoria dell’evento traumatico assume in questo frangente uno stato subconscio, e non perché la mente la rimuove in un tentativo di autoconservazione, come sostenuto dalla teoria freudiana, bensì perché la memoria stessa non riesce mai a raggiungere una rappresentazione pienamente conscia, verbalizzata, traducibile in elemento narrativo, rimanendo al contrario imprigionata in una serie di memorie implicite non accessibili alla coscienza (1889; 1907). D’altro canto la possibilità di narrare un episodio occorso in un determinato luogo e momento esplicita il maggior successo della sintesi personale teorizzata da Janet, funzione che proprio dal trauma viene impedita. La mente deve creare ordine e coerenza tra i suoi contenuti: ove fallisca in quest’impresa a causa del trauma anche la sintesi personale vedrà il proprio fallimento, e l’elaborazione mentale resterà allo stato confusionale della dimensione subconscia.
Analogie tra disturbo dissociativo e attaccamento disorganizzato
Le caratteristiche del disturbo dissociativo sono afferenti ad esperienze incongruenti, disorganizzate, spesso instabili, confabulatorie a livello cognitivo, anamnestico. Le medesime caratteristiche si riscontrano nei soggetti con attaccamento disorganizzato, tanto che tra i disturbi è stato possibile parlare di una somiglianza fenotipica. Ciò non significa che alla base dei due disturbi ci siano i medesimi processi eziologici, ma la somiglianza tra attaccamento disorganizzato e disturbo dissociativo rende plausibile l’ipotesi che il concetto di Janet, relativo all’esperienza dissociativa come ad un fallimento della sintesi personale, possa risultare applicabile a processi mentali dissociati osservati nei soggetti adulti sottoposti all’AAI e nei bambini considerati disorganizzati nella Strange Situation (Main e Morgan, 1996). In entrambi i casi si sono infatti rilevati aggressività agita e comportamenti incoerenti con il contesto, e per quanto riguarda gli adulti anche deficit metacognitivi nel monitoraggio del ragionamento e del discorso.
Questo aspetto di mancata integrazione, incoerenza e imprevedibilità potrebbe essere dovuto alla mancata verbalizzazione dell’esperienza traumatica che ne impedisce anche la riorganizzazione e la rievocazione mnestica, la cui origine può venir identificata, sia per la dissociazione sia per l’attaccamento disorganizzato, in un mancato coordinamento integrativo tra memoria implicita e memoria esplicita, relativo a ricordi semantici ed episodi (Liotti, 1999). I bambini con attaccamento disorganizzato, esattamente come i soggetti dissociati di fronte al ricordo dell’esperienza traumatica, sono incapaci di sintetizzare in una struttura mnestica coesa la loro esperienza complessiva con la figura di accudimento, e formano al contrario una serie di ricordi composti da significati separati e inconciliabili (Putnam, 1995). Tale incongruenza mnestica a livello verbale e cognitivo non rappresenta un vero e proprio meccanismo di difesa, quanto un meccanismo di sopravvivenza cui il bambino ricorre per evitare la realtà traumatica, e che si traduce immancabilmente in una rottura primaria dei processi intersoggettivi da cui deriverebbe una vera e propria assenza mentale, una dissociazione dal Sé (Stolorow et al., 1992).
Nel caso dei soggetti con attaccamento disorganizzato vediamo come questo possa essere causato altresì dall’incongruenza dei MOI che il bambino sperimenta attraverso un’interazione genitoriale connotata da aspetti incoerenti e contraddittori: così, se il bambino con attaccamento evitante riesce a predire il rifiuto del genitore e quello con attaccamento ansioso riesce a predirne l’ambivalenza e l’insicurezza, al bambino con attaccamento disorganizzato tale possibilità di previsione è negata dalla presenza di una figura genitoriale disconnessa e instabile. È infatti probabile che in un’occasione il comportamento del caregiver risulti eccessivamente intrusivo o controllante, e in una situazione completamente analoga esso mostri aspetti comportamentali totalmente antitetici. Il bambino, disorientato e confuso da tali cambiamenti, impara così a non fare affidamento sul comportamento del genitore, del quale riflette l’instabilità in una serie di comportamenti contraddittori, scissi e inconciliabili che lo rendono talvolta controllante e iperprotettivo verso il caregiver, e altre volte ostile, scontroso, evitante. Nei casi di maltrattamento la situazione appare ancora più disastrosa: i bambini che ne risultano oggetto non possono esplicitare ricordi in cui stati d’animo come la paura, l’angoscia, la rabbia e il sollievo si succedono drammaticamente sia nel Sé che nella percezione della figura di attaccamento, e le strutture di significato che derivano da queste esperienze sono ancora più incomprensibili e polisemiche (Liotti, 1992; Main e Morgan 1996).
Nello specifico i bambini che non riescono a spiegarsi il comportamento abusante del genitore, si risolvono ad una serie di interpretazioni patologiche che condizionano il loro sviluppo emotivo e cognitivo: così possono, simultaneamente e con la stessa probabilità, ritenersi colpevoli di certi atteggiamenti del genitore, e dunque di meritarli, oppure possono considerare la figura di attaccamento come causa diretta della loro paura, o al contrario possono ritenere se stessi in grado di salvare la figura genitoriale da un pericolo esterno. I MOI tipici di tali contesti evolutivi, anziché apparire coesi ed integrati, sono dunque frammentati in una serie di interpretazioni polisemiche e sconnesse che rendono il bambino vittima, salvatore o aggressore, nel c.d. triangolo drammatico, in grado di ostacolare gravemente la sintesi mentale di un Sé unitario (Liotti, 1999). Questo aspetto della disorganizzazione infantile ha corroborato l’ipotesi che considera l’attaccamento disorganizzato nella prima infanzia come predittore dello sviluppo dissociativo in adolescenza e nell’età adulta. Così il bambino che si sente contemporaneamente vittima e carnefice del genitore potrebbe risultare un adulto il cui Sé appare inconsapevolmente collegato ad aspetti altalenanti tra punizione e accudimento, tra persecuzione e cura: da qui l’origine di microdissociazioni incontrollabili, di esperienze del Sé e del Sé con l’altro non integrate che si sublimano nel disturbo dissociativo (Main e Cassidy, 1988).
Tanto premesso è tuttavia doveroso precisare come il legame tra attaccamento disorganizzato in età infantile e disturbo dissociativo in età adulta non costituisce un automatismo: molti fattori protettivi sono infatti in grado di escludere questa infausta relazione, quali la presenza di una figura familiare di attaccamento diversa e più sicura di quella genitoriale, rapporti extra-familiari funzionali, una comunicazione relativamente libera e sincera con una figura disponibile, la tempestiva presa in cura del caregiver che consenta un recupero dalla disfunzionalità del trauma e della sua sofferenza irrisolta. Questo e altri fattori protettivi sarebbero dunque in grado di consentire, anche in situazioni disorganizzate, un livello di sintesi personale capace di impedire a sua volta la formazione di significati del Sé contraddittori, e dunque dissociati, nell’adulto (Gilbert, 1989; Liotti, 1999).
Conclusioni
Effettuate le dovute precisazioni, sembra che l’attaccamento disorganizzato sia la via prototipica, sebbene non la sola, per la costruzione di ricordi incongruenti che impediscono la sintesi personale del Sé come intesa da Janet, e quindi il legame tra emozioni dolorose e trauma non deve essere considerato necessariamente come una difesa da emozioni dolorose, ma anche e soprattutto come la riaffermazione di significati polisemici e incongruenti concernenti la separazione del Sé con l’altro. Proprio le rappresentazioni del Sé con l’altro che derivano da questo processo si mostrano precoci, instabili, incongruenti, congelate, inflessibili o sin troppo mutevoli, e non alternativamente, bensì contemporaneamente, dando vita a quell’instabilità e a quella mutevolezza patologica tipica dello stato dissociativo.
Secondo questa teoria, le esperienze dissociative quali flashback, depersonalizzazione, amnesia, esperienze extracorporali e vissuti di trance, potrebbero venir intese sia come il risultato di emozioni dolorose e non rielaborate, sia come il fallimento di una sintesi mnestica e cognitiva, quindi della coscienza personale stessa, derivante dalla disfunzione dei processi impliciti nella costruzione dei modelli operativi di attaccamento (Liotti, 1999).