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Il mondo interno del terapeuta in quarantena

In momenti come questo, in cui le condizioni contingenti mettono a dura prova le nostre competenze, quali tecniche ci vengono in aiuto?

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 31 Mar. 2020

Aggiornato il 03 Apr. 2020 10:45

Come tutti, anche noi terapeuti abbiamo dovuto rinunciare alla routine quotidiana, riorganizzare la nostra vita privata e lavorativa e spesso fare delle scelte terapeutiche diverse con i nostri pazienti. Quale impatto può avere l’emergenza Coronavirus sul lavoro del terapeuta?

 

In alcuni articoli precedenti abbiamo ricordato quanto il terapeuta sia un essere umano al pari dei pazienti che cura, con proprie vulnerabilità, con possibili schemi interpersonali problematici, con emozioni intense.

Lo sto scoprendo ancor di più in questi giorni. Per sentirci meno soli, con i miei amici e colleghi abbiamo creato chat di gruppo e abbiamo regolarmente stabilito di vederci su Skype. Confrontandoci, emergono vissuti simili e la necessità di dover mediare tra il modo in cui noi stessi stiamo affrontando la quarantena e le esigenze dei nostri pazienti. Noi continuiamo a svolgere il nostro lavoro tramite sedute online. Alcuni pazienti, nonostante tutto, sembrano tollerare la clausura forzata e gli impedimenti che ci sono stati obbligati, altri lo fanno con più fatica. Una fetta, sta male. Una fetta di pazienti continua a fare il suo giusto lavoro: il paziente fa il paziente. Però, almeno a me, al 16esimo giorno, diventa tutto più difficile ed è più faticoso essere la stessa terapeuta di un mese fa. Mi sono accorta del mio sovraccarico quando una paziente mi ha cercato per qualche minuto di telefonata ed io le ho chiesto di scusarmi e capirmi, ma che ci saremmo dovute sentire l’indomani perché in quel momento non le sarei stata d’aiuto.

Cosa mi stava accadendo?

Da terapeuta, avevo appena concluso la mia ultima seduta Skype della settimana ed ero sinceramente stanca. Da essere umana in quarantena forzata avevo appena finito di disperarmi per una serie di cose. In quel momento, ero affranta. Triste. Volevo solo leggere. Dedicarmi al mio workout. Volevo scrivere. Forse volevo impastare le zeppole. Accarezzare il mio gatto. O semplicemente fissare il soffitto. Insomma, volevo fermarmi. Si perché, un terapeuta non è risparmiato da quello che stare in casa comporta. La prima settimana ci dicevamo “vabbè, che sarà mai un po’ di reclusione!”. La seconda “vabbè, ne approfitto per riposarmi…”. La terza “forse inizio a non tollerare più niente”. Credo, che, la chiave di tutto stia nell’esserne finemente consapevole e gestirlo alla meno peggio.

Come tutti, anche noi terapeuti abbiamo dovuto rinunciare alla routine quotidiana. Ci troviamo costretti con i nostri familiari e con le dinamiche complesse che ne derivano. Ho colleghe che, con i figli in casa, hanno dovuto ridimensionare di molto le ore dedicate al lavoro. Ho colleghe che, lavorando principalmente con i bimbi, magari con disabilità importanti, hanno dovuto mettere in stand by il loro percorso. Alcune colleghe che lavorano in territori devastati dal Covid-19 cercano a tutti i costi di non crollare nonostante siano in piena emergenza. Altri continuano a lavorare in ospedali e servizi pubblici, dovendo quindi essere continuamente prudenti e dovendo gestire comprensibili paure.

Abbiamo tutti dovuto fare delle scelte che hanno riguardato la vita privata e lavorativa. Ad esempio io ho dovuto rinunciare alla mia indipendenza in casa perché, al settimo giorno, completamente sola, in 50 mq, mi sentivo di impazzire. Dopo due ore, me ne ero già pentita. Ho dovuto riorganizzare il mio lavoro. Assieme ai miei colleghi abbiamo dovuto chiudere lo studio in cui lavoravamo quotidianamente. Ho dovuto mettere in pausa dei progetti lavorativi e di vita, che avevo finalmente realizzato dopo tanta fatica. Abbiamo tutti dovuto fare delle scelte e dei nuovi piani. Anche con i pazienti. Ad esempio, con coloro su cui stavamo lavorando su aspetti interpersonali, e magari avevano appena iniziato ad uscire, a confrontarsi con l’altro, abbiamo dovuto reinventarci. All’inizio, quando mi sono resa conto che stava accadendo questo, ho anche provato frustrazione e rabbia perché certe cose funzionano bene e altre meno. Ma anche in questo caso, accettiamo consapevolmente i compromessi.

In tutto ciò dobbiamo pur far fronte alle richieste dei pazienti. Ma mentre chiediamo loro di differenziare (Dimaggio et al., 2013) e di accogliere e tollerare le emozioni negative, collegate allo schema patogeno, magari vissute intensamente anche a livello corporeo (Dimaggio et al., 2019), mi ricordo che proprio qualche sera fa ho cominciato a lamentarmi di quanto mi sentissi costretta ed impotente. Ruminavo, dimenticandomi io stessa di differenziare. Sappiamo quanto sia tremendamente difficile fare questa operazione nei casi in cui, aspetti reali colludono e aderiscono alle previsioni dello schema. E’ un po’ come quando diciamo ai nostri pazienti: “Prova a non sentirti totalmente incapace neppure quando il capo ti riprende” oppure “Prova a non sentirti abbandonata se il tuo compagno ti molla improvvisamente”. Su di me, dovrebbe suonare così “Prova a non sentirti impotente o incapace anche se devi restare a casa e non puoi uscire. Insomma prova a sentirti libera ed esplorativa anche se tutto, intorno a te, ti dice il contrario”.

E qui viene il bello. Consapevolezza dello schema, coping funzionali e mastery (Dimaggio et al., 2013) sono la combo perfetta per superare questo periodo. L’insieme di queste strategie, dalle più semplici a quelle più raffinate, da quelle automatiche a quelle apprese, configurano quella che si può chiamare “autoregolazione emotiva” (Dimaggio et al., 2019). Ci riferiamo ad una serie di strategie attentive, di mindfulness, di attivazione corporea che fanno da contraltare ad altre modalità ad esempio ruminative o di evitamento emotivo poco funzionali, che possono addirittura intensificare lo stato doloroso. Eppure, in momenti come questo, in cui le condizioni contingenti mettono a dura prova le nostre competenze, tutte le abilità sembrano dimenticate e lontane pur avendole, invece, a portata di mano. Le strategie più complesse chiamano in causa metacognizione, riconoscimento del proprio funzionamento e capacità di elaborare e modificare lì dove possibile, oppure, semplicemente, accettare e tollerare. In momenti di stress generale, facciamo più fatica a mantenere tutto questo a galla.

E quindi, ogni tanto mi ricordo di respirare, di centrarmi e di andare avanti. So che schiacciare nuovamente il play avrà il suo perché. So che avrà un bel gusto poter organizzare il mio prossimo viaggio. Ritornare a vedere i miei colleghi. Riabbracciare delle persone. Non sappiamo, sinceramente, quando accadrà. Ma sarà bello. E ci sentiremo di nuovo tutti vitalizzati ed esplorativi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Raffaello Cortina Editore.
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