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La radicalizzazione islamica di bambini e adolescenti

Cresce il numero dei bambini arruolati e allo stesso si riduce sempre più la loro età. I "leoncini dell’Isis”, indottrinati alla "cultura della morte".

Di Mariateresa Fiocca

Pubblicato il 02 Ott. 2019

Già nel 2006, le Nazioni Unite stimavano che 250 mila bambini erano stati arruolati tra le fila dei terroristi per combattere in venti conflitti sparsi nel mondo. L’allora sedicente Stato Islamico già nei primi mesi del 2015 aveva già oltre 1.500 bambini a combattere in prima linea e ne aveva addestrati oltre mille come kamikaze.

 

Lo scorso 12 luglio, un kamikaze uccideva cinque persone e ne feriva quaranta durante un matrimonio che aveva corso nella parte orientale dell’Afghanistan, nel distretto di Pacheragam, nella provincia di Nangarhar, quartiere generale dell’Isis e dove è concentrata una forte presenza di talebani. Il tentativo da parte dei terroristi è quello di riprendere il controllo dell’Afghanistan. Il kamikaze era solo un bambino di 13 anni.

La tragedia ripropone il problema della radicalizzazione islamica di bambini e adolescenti. Vengono chiamati i “leoncini dell’Isis”, per proseguire la jihād nella prossima generazione, possibilmente in Occidente, Nordafrica e Medio Oriente, dopo la sconfitta militare del sedicente Califfato.

Tale fenomeno dà conto di un duplice problema: l’utilizzo di asset “extra-sistemici” per combattere il nemico (Fiocca, Montedoro, 2006) e la diffusione della figura del kamikaze in strati sociali sempre più numerosi. Le tecniche extra-sistemiche alludono allo sfruttamento da parte dell’avversario degli asset dell’altro. Da parte del terrorismo, nel settore della comunicazione, il progressivo sfruttamento degli asset occidentali è confermato dalla diffusione di siti islamici nei paesi occidentali per esportarvi politiche di separazione e destabilizzazione. La tecnologia è uno strumento sfruttato al massimo dai terroristi islamici in conformità con il mandato dei Fratelli Musulmani di “indebolire l’Occidente anche con le loro armi”. Il terrorismo è perfettamente consapevole della rilevanza dell’evento mediatico, cioè della “spettacolarizzazione” o “democratizzazione” della guerra, con il progressivo coinvolgimento delle popolazioni civili nel conflitto, anche sotto gli aspetti psicologici ed emotivi. Ciò crea un doppio dividendo: accresce sia la percezione di vulnerabilità dalla parte occidentale, sia una sensazione di grandiosità e onnipotenza nei combattenti, attraverso cui il proselitismo si autoriproduce.

Da parte dell’Occidente, un asset extra-sistemico, che crea un forte gap nei vantaggi comparati fra gli avversari, è la “cultura della morte”. Quando per una forma di neoascetismo sacrificale, si è disposti a morire, non c’è spazio per negoziazioni, né per minacce efficaci da parte dell’Occidente. Istituzioni quali charities, moschee, madrassas, campus, bar e altri luoghi di aggregazione sociale diventano gangli dell’intera architettura da cui attingere risorse finanziarie e umane. Costituiscono fucine da cui arruolare burattini del terrore, attraverso l’imperativo categorico della “cultura della morte”.

Sul piano dell’estensione sociale del fenomeno, si osserva che il proprio sacrificio per la causa ha coinvolto donne, che vengono meno controllate poiché esistono remore a perquisirle a fondo e più mimetizzabili. Da anni, poi, il conflitto estende i suoi tentacoli raggiungendo la fascia sociale più debole e indifesa. E, perciò, quella che più si presta alla manipolazione. Già dal 2006 (Daou, 2006), le Nazioni Unite stimavano che 250 mila bambini erano stati arruolati tra le fila dei terroristi per combattere in venti conflitti sparsi nel mondo. L’allora sedicente Stato Islamico già nei primi mesi del 2015 aveva già oltre 1.500 bambini a combattere in prima linea e ne aveva addestrati oltre mille come kamikaze. Nel più recente rapporto in materia, il Combating Terrorism Center, tra il 2015 e il 2016 ha realizzato una capillare indagine per illustrare le modalità con cui le organizzazioni estremiste violente – e in particolare quelle legate all’Islam – da tempo reclutassero bambini (Bloom, Horgan, Winter, 2016).

Sulla base di talune sette occidentali, alcuni psicologi hanno tentato di ricostruire il fenomeno giungendo alla conclusione – tra le regolarità riscontrate – che, in forza della manipolazione operata sugli attentatori, il loro cervello diventa un “dischetto vuoto che richiederebbe solo di essere programmato”. Sorrentino (2004) rileva che detta manipolazione determina i presupposti biologici e comportamentali per una “anestesia della paura” somministrata ai “kamikaze da allevamento.”

Si accresce il numero dei bambini arruolati e allo stesso si riduce la loro età. Vittime sono soprattutto “piccole donne”, perché meno soggette a controlli ai posti di blocco. Sempre più spesso appaiono nei video anche i figli dei foreign fighters, molti dei quali europei. I figli dei foreign fighters vengono separati dagli altri bambini, cosicché chi non conosce la lingua araba possa impararla; dopo questa fase di apprendimento linguistico, essi si uniscono agli altri. Agli ufficiali dell’IS è consentito che i loro figli frequentino le scuole che ospitano i figli dei foreign fighters, poiché frequentemente si avvalgono di insegnanti migliori.

La testimonianza nel gennaio 2016 di un dodicenne – che gli jihādisti stavano addestrando per diventare un kamikaze ed è riuscito a fuggire da un campo di addestramento dell’ex sedicente Stato Islamico – in una intervista alla CNN ha raccontato di piccoli di cinque anni tra i reclutati. Alcuni di loro sono stati rapiti nei territori siriani e iracheni conquistati dall’Isis, altri sono i figli degli stessi jihādisti.

All’indottrinamento, al lavaggio del cervello, veniva affiancato l’addestramento militare sul campo condotto dalla c.d. “squadra del califfatto”, dal quale nessuno era esente.

Nel 2016, Khalid Nermo Zedo, un volontario del campo profughi di Esyan nel nord dell’Iraq, ha spiegato alla CNN che questi bambini hanno disperatamente bisogno di un aiuto psicologico:

Hanno sofferto tanto. Riuscite a immaginare un bambino di 12 anni o di 10 o di 8 anni, trascinato via dalla loro madre con la forza, portato nei campi di addestramento militare, costretto a imbracciare le armi, costretto a convertirsi all’Islam, convinti che sono apostati, che i loro genitori sono impuri infedeli? Alcuni bambini si spaventano anche solo se sentono la parola IS. Hanno convulsioni appena viene pronunciata quella parola. Sono tutte situazioni catastrofiche.

Per l’adescamento, ai piccoli venivano promessi soldi, armi e persino automobili. I genitori, temendo le ripercussioni di un loro rifiuto o a cambio di denaro, molto spesso hanno consentito ai loro figli di seguire i miliziani nell’indottrinamento della “cultura di morte”.

Nel 2016, Aziz Abdullah Hadur, comandante peshmerga (forze armate della regione autonoma del Kurdistan iracheno – Peshmerga: combattente-guerrigliero che intende battersi fino alla morte), ha raccontato alla CNN che i bimbi che arrivano al fronte erano in stato disperato: magri, smunti, a malapena con un aspetto umano. Ma Hadur ha illustrato anche il dramma della decisione impossibile da prendere sul campo quando i bambini kamikaze vengono lanciati contro i peshmerga. Questi stessi avevano attimi di dubbio perché “se non li uccidi saranno loro a uccidere te”.

Diversi sono i motivi da parte dei terroristi di scegliere “cuccioli-bomba”. Prima di tutto, c’è l’effetto psicologico: l’allora IS, come qualsiasi gruppo terrorista, ha inteso incutere la paura a livello globale usando tutti i sistemi a sua disposizione. Poi c’era la necessità di catturare l’attenzione dei mezzi di comunicazione. Lo spazio che i media internazionali dedicano a questo tipo di video ha permesso agli estremisti di diffondere più facilmente il loro messaggio. Inoltre, se i ragazzi avessero visto altri come loro integrati nello Stato islamico sarebbero stati più propensi a unirsi agli estremisti.

I metodi e la condotta del reclutatore in queste fasi sono finalizzati a indurre fiducia, amicizia, attaccamento, e, in ultima analisi a far sentire il bambino speciale, particolare. Si tratta di una strategia efficace, poiché le vittime sono bambini orfani, che spesso non possono andare a scuola e a volte devono lavorare per forza. Il reclutatore offre loro una rete di sostegno, attraverso regali e cibo. Una volta guadagnata la fiducia – esattamente come il processo di desensibilizzare i bambini dall’atto del toccare utilizzato dai pedofili – i reclutatori dell’Isis sono stati osservati assoggettare le reclute bambine a materiale ideologico e ad atti di violenza. Gli orfani sono i c.d. “leoncini del Bene”: si tratta di figli di disertori (locali o stranieri), bambini i cui padri sono stati uccisi in combattimento e orfani senza parenti in grado di prendersi cura di loro. Questi bambini vengono generalmente addestrati per farsi esplodere. In un campo dal nome Usama al-Mwahid, gli orfani vengono addestrati all’uso e all’installazione di diversi tipi di IEDs (Improvised Explosive Devices, ordigni esplosivi rudimentali).

Infanzie rubate e gettate via, vite in frantumi, ferite dell’anima difficili da cicatrizzarsi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bloom, M., Horgan, J., & Winter, C. (2016). Depictions of Children and youth in the Islamic State’s Martyrdom propaganda, 2015-2016. CTC Sentinel, 9(2), 29-32.
  • Daou, P. (2006). Study Estimates 250,000 Active Child Soldiers, The Guardian, July 26, 2006.
  • Fiocca, M. (2016). “Economia della paura”, in Limes, n. 10/2016
  • Fiocca, M., Montedoro, G. (2006). Diritto alla sicurezza ed economia del terrore, Luiss University Press, Roma.
  • Fiocca, M. et al. (2016). La jihād 2.0: profili economici, tecnologici, giuridici”, in Ciberspazio e Diritto, Rivista internazionale di informatica, n. 1-2/2016
  • Sorrentino, R. (2004), Chi è per noi il kamikaze?, in “Kamikaze: eroi o assassini?”, Conferenza tenuta presso la Camera dei Deputati, Sala del Cenacolo, Roma, 22 settembre 2004.
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