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Joker: il manifesto del narcisismo in chiave Kohutiana – Recensione

Joker: da reietto di una società improntata al successo a idolo di una folla grottesca che lo acclama e lo imita indossando la maschera da clown

Di Maria Adele Capone

Pubblicato il 31 Ott. 2019

Joker offre una critica all’opulenta società odierna, raffigurata in una allegoria tragi-comica, in cui gli ultimi vengono abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati per il male commesso.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

Sin dai primi istanti, il nuovo film di Phillips su uno degli antieroi per eccellenza dell’universo DC comics trascina lo spettatore in un vortice di emozioni quasi fisiche per la potenza evocata: vergogna e umiliazione, tristezza e disagio, nichilismo che diventa rabbia, fino all’apoteosi della rivincita del sé grandioso attraverso il riconoscimento della nuova vita, creativa e criminale, appena iniziata.

C’è una battuta, in particolare, che separa la pellicola in due parti.

Abbiamo accompagnato Arthur Fleck per più di metà film nei toni scuri e sfuggenti, tra le umiliazioni, la tristezza e il fallimento, fino a che il protagonista non reagisce a un sopruso con la violenza, nei confronti di giovani ricchi borghesi, scatenando l’ammirazione degli ultimi e dei derelitti. In tv non si parla d’altro. A quel punto, la rivelazione, davanti a una psicologa/assistente sociale monocorde e inespressiva che non lo sta ascoltando.

Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto, e le persone iniziano a notarlo! (Arthur Fleck)

Cresciuto con una madre che non ha mai riconosciuto i suoi reali stati emotivi, credendolo sempre felice nonostante gli abusi a causa della risata compulsiva che caratterizza storicamente il personaggio, è il rispecchiamento della società nella crudeltà e nell’efferatezza che rende Arthur Fleck il Joker che tutti conosciamo, trasformando, parole sue, la tragedia che sino a quel punto era la sua vita, in una commedia.

Da quel momento, tra rabbia e delirio, il carico per lo spettatore si fa più leggero, i toni diventano più chiari, colorati, delineati: ecco a voi, signori e signore, la folle crudele creatività del Joker, rappresentata nella macabra danza sugli scaloni di Gotham City, rinato dalla cenere e destinato a fare cose grandi, anche se malvagie. Da reietto di una società improntata al successo, di cui Wayne è il portavoce, il Joker distrugge il proprio ideale dell’io, rappresentato dal comico televisivo Murray che lo ha tradito e deluso, fino a diventare egli stesso l’idolo di una folla grottesca che mette a ferro e fuoco la città, lo acclama e lo imita indossando la maschera e il trucco da clown. Egli stesso ora è diventato, per dirla con Kohut, il leader carismatico in cui la gente si riconosce, circondato da gregari che non ha cercato, ma che spontaneamente si porgono al suo servizio.

Uno di questi, alienato nel pensiero distruttivo, uccide il simbolo della società del benessere in cui la maggior parte stenta a riconoscersi. In un vicolo buio, perdono la vita il signore e la signora Wayne, davanti a un piccolo Bruce inerme. Senza volerlo, è il Joker e la concatenazione di eventi da lui messa in moto a creare la sua nemesi: la privazione dall’affetto dei genitori, il senso di colpa per essere sopravvissuto, la rabbia e il bisogno di riscatto, porteranno il narcisismo del giovane Wayne a forgiare il futuro giustiziere della notte, Batman.

Un perfetto caso clinico, quindi, in cui le numerose ferite narcisistiche definiscono la scissione verticale tra la grandiosità infantile apertamente manifesta e la parte debole, improntata alla vergogna e all’impotenza, che sembrano quasi impossibili da coesistere nella stessa persona, tanto da sfociare in questo caso nella psicosi. La mancanza d’ascolto e di riconoscimento, in particolare, sono il lasciapassare verso l’odio e la rabbia distruttiva che abbiamo visto compiersi nell’entrata in scena ad effetto del Joker televisivo.

Lungi dall’essere un’apologia del male, il film di Phillips interpretato da un magistrale Joaquin Phoenix in odore di Oscar, è una critica all’opulenta società odierna raffigurata in una allegoria tragi-comica, in cui gli ultimi vengono abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati per il male commesso, il modo purtroppo naturale e catartico che alcuni trovano per far fronte a ciò che hanno vissuto, in cui si chiede, come scritto nel diario di Arthur, “a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse”.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Kohut, H (1976). Narcisismo e analisi del Sé. Torino: Boringhieri.
  • Kohut, H. (1986). Potere Coraggio e Narcisismo. Astrolabio.
  • Goldberg, A. (2001). La mente che si sdoppia. La scissione verticale in psicoanalisi e psicoterapia. Astrolabio.
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