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La risata perturbante, straziante ed assordante di Joker

Joker è vittima non solo di violenza familiare ma anche di quell'ingiustizia sociale che causa rabbia e frustrazione, indice di una società malata..

Di Antonietta Germanotta

Pubblicato il 18 Ott. 2019

La risata perturbante, straziante ed assordante di Joker. Il monito dato dalla madre di sorridere e di “mettere una faccia felice”.

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

 

“Sono solo io o in giro tutti stanno diventando più pazzi?” questa la domanda che attanaglia per tutta la vita il protagonista dagli occhi tristi e dalla risata angosciante, penetrante e respingente. Tale sghignazzata (a tratti simile ad un gemito) non è la risposta a situazioni di gioia, divertimento, benessere o stimolazioni fisiche; è, al contrario, una risata patologica che consiste in episodi incontrollati di riso, scatenati da stimoli apparentemente non rilevanti (cioè sollecitazioni che normalmente non causerebbero tale risposta emozionale). Talvolta si passa bruscamente al pianto ed in alcuni momenti non si capisce chiaramente se Joker stia piangendo o ridendo, quasi come se l’uno diventasse l’altro in modo circolare, confuso ed incontrollato.

L’incipit del film, la scena allo specchio, designa quanto possa essere labile la distanza da un’espressione felice ad una triste. Con il fisico scarno ed emaciato da una solitudine corrodente ed affamante e con le espressioni facciali distorte tanto quanto le percezioni della mente che le muove, il film Joker, infastidisce e disturba perché nel suo trasfigurare verso il male riflette un dolore ed una richiesta d’aiuto antica, soffocata e profonda, mai capita, ascoltata ed accolta. Colpisce e permea con le sue esplosioni di violenza e con le sue manifestazioni disperate e sofferte di tormento.

Arthur, il protagonista, è un emarginato con problemi psichici, a tratti dal candore bambinesco, sopraffatto da un’inquietudine pervasiva che convoglia il suo senso di inadeguatezza al mondo in un disturbo psicosomatico: è aggredito da una risata graffiante ed isterica che scoppia tutte le volte che prova disagio. E’ ghettizzato, schernito; più volte viene aggredito. E’ ingaggiato come clown per un’agenzia, divide l’appartamento con la bizzarra madre e anela a diventare uno stand-up comedian. Nel taccuino che porta sempre con sé, dove scrive barzellette, si scorge una scritta “la parte peggiore dell’avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che tu ti comporti come se non l’avessi”. Cerca incessantemente di celare il suo dolore che in realtà lo sopraffà, lo pervade e caratterizza.

Lo spettatore è coinvolto nello straniante stato simil-allucinatorio vissuto da un uomo che è considerato, dai più, invisibile o al massimo un freak e che, a un certo punto, non avendo più nulla da perdere si aggrappa all’idea che niente più potrà ferirlo. La sua volontà criminale si è nutrita sempre e solo di sofferenza ed è nata in seno ad un habitat sociale che fa dell’iniquità, della sofferenza, della povertà e della marginalità il suo humus e la sua normalità.

Due elementi fortemente significativi e peculiari del personaggio sono la risata e la danza. La prima, strozzata in gola, sinistra, fragorosa e stridula, da brivido, sembra essere presente nei suoi momenti di disagio; una sorta di rantolo che tiene insieme lo stupore e l’orrore dell’essere ancora vivo, i traumi di un bambino che traghettano ad un uomo avvolto in una maschera di laconica tristezza. La seconda sembra manifestarsi, in modo ritualistico, potente e misterioso anche per suggellare gli atti violenti che compie; è una sorta di danza ornamentale, leggera, elegante, composta, quasi solenne con passi appena accennati, quasi come se stesse accarezzando il terreno in modo soave così come nessuno ha fatto con lui da bambino.

Il film risulta essere incentrato sulla figura del protagonista, i cui disagi rappresentano il riflesso di una società malata, ipocrita e violenta, nonché di una città, New York, velatamente trasformata in Gotham City, allo sbando, degradata, sporca e respingente, intrisa di malessere sociale e generalizzato in cui tutti, ricchi e poveri, sembrano mancare totalmente di empatia verso il prossimo, una sorta di giungla d’asfalto. Potremmo considerare il film quale riflessione sulla genesi della violenza ai giorni nostri; siamo nell’età degli incel, “celibi involontari” rifiutati perché non attraenti. Arthur per esprimere i propri stati d’animo non usa le parole, ma danza, seguendo un ritmo e una musica che solo lui sembra sentire, come se la musica lo cullasse.

Il film evoca malessere, mette paura, angoscia, inquietudine. La risata incontrollata che anima Arthur prima che diventi Joker, aspirante comico che invece di far ridere è solo oggetto di scherno, rimane addosso; i suoi sogghigni da brivido aggrediscono, il suo malessere corrode.

Il protagonista usa il film come un palcoscenico ed arriverà a un punto di rottura oltre il quale perderà il contatto con la realtà, trasformandosi da reietto, disadattato gentile a killer spietato. È un racconto tragico e la sua deriva violenta è la svolta di un passato di emarginazione e sopraffazione e prima ancora di percosse fisiche, assistite e subite, avvenute in quello che sarebbe dovuto essere un ambiente sano, sicuro accudente. È una sorta di riscatto malato per chi come lui da sempre vive prevaricazioni e deprivazioni affettive e violenze corporee e psicologiche.

Due ore di film, di primi piani, della sua dolorosa risata da iena, di denti storti, lacrime, di un corpo magrissimo che si contorce. C’è una tensione continua, uno strazio omnipresente, un bambino non accudito, un adulto non curato. C’è una solitudine profonda, un assillo quasi tangibile, una richiesta angosciata e straziante di verità, un bisogno ancestrale di risposte, il desiderio di capire, di comprendere, di andare alle origini.

Joker ballerino è spiazzante, ipnotico e terrificante allo stesso tempo. L’intento del film sembrerebbe essere una denuncia di ingiustizie ripetute senza però porre soluzioni; si tende a solidarizzare con chi però alla fine assurge a simbolo di una brutalità dagli ideali anarchici, vittima della violenza sia familiare che della società e di un’ingiustizia sociale che causa rabbia e frustrazione.

Nel film anche i servizi pubblici, che dovrebbero occuparsi del benessere di un soggetto emotivamente debole, fragile e vulnerabile, gli chiudono le porte d’emblée poiché “hanno tagliato i fondi”: Arthur non potrà più essere seguito, sarà lasciato abbandonato a se stesso. Ciò che si potrebbe scorgere, e potrebbe far riflettere taluni in modo proattivo, è magari una possibilità tanto ipotetica quanto bramata di serenità e guarigione che gli viene preclusa in quanto abbandonato dalla società.

 

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