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Come stanno veramente le sex workers?

Prostituzione: il fenomeno è in aumento. Al di là di ideali, morale e stigma sociale, cosa significa usare il proprio corpo per le sex workers?

Di Luigi D`Elia

Pubblicato il 01 Lug. 2019

Cosa c’è di strano quando si parla di sex work e sex workers? C’è di strano che si parla molto poco di come stanno realmente le sex workers (uso il femminile dato l’esigua percentuale di sex worker maschi).

 

Il problema risulta ancor più evidente da queste due considerazioni incrociate: per chi vuole legalizzare totalmente la prostituzione, ci riferiamo ad un’attività che nessuno si auspicherebbe svolgesse la propria figlia (mai sentita e vista, tra l’altro, una bambina o una ragazzina dichiarare questa aspirazione); dall’altro lato si tende a condannare la prostituta assimilandola al mestiere che svolge come intrinsecamente immorale, come se questo servizio prescindesse da una precisa domanda sociale.

I dati sullo sfruttamento della prostituzione

Due forme di ipocrisia che riguardano, da prospettive opposte, lo stesso problema. Questa ipocrisia “parla” chiaramente di qualche scotomizzazione storicamente sedimentata che ancora oggi è difficile mettere a fuoco e che produce di continuo un pensiero fortemente ideologizzato sia da una parte che dall’altra della polarizzazione. Questo accade anche perché il tema della prostituzione si incrocia con mille questioni e mille livelli differenti e quindi fare confusione è molto facile.

Innanzitutto, qualche dato grezzo, soprattutto dati stimati dal momento che è praticamente impossibile vista la posizione al margine sociale di tali attività, censire e conoscere il fenomeno nelle sue reali dimensioni.

Il Codacons ci consegna un aumento dei clienti, che hanno raggiunto quota tre milioni (il riferimento è ai clienti abituali ndr), così come delle prostitute, passate da 70.000 a circa 90.000. Nemmeno la crisi economica ha intaccato il fatturato della prostituzione che risulta cresciuto del 25,8%, passando dai 2,86 miliardi di euro del 2007 ai 3,9 miliardi di euro annui del 2016 (fonte Codacons)

A questi dati, probabilmente fortemente sottostimati, occorre aggiungere un’altra verità statistica: prostituirsi è nella stragrande parte un’attività oggettivamente niente affatto libera e volontaria. Una larga fetta di queste sex workers è intimamente legata ad un’economia criminale “ufficiale” detta traffico della prostituzione. Una forma di schiavismo reale.

I dati dell’OIM e Caritas Migrantes stimano solo le donne vittime di tratta tra le 16.000 e le 29.000. (Alessia Rocco, Sex Worker: autodeterminazione, diritti, lotta alla tratta. Tentativi di dialogo tra schieramenti contrapposti – Tesi di Laurea, Scienze della Formazione, Roma Tre, 2017)

A questa categoria occorre iscrivere specialmente le sex workers africane, cinesi e in parte dei paesi poveri dell’est, dove lo sfruttamento è documentato e esplicito. Esiste poi una enorme galassia di sex workers, specie quelle provenienti da paesi dell’est Europa ma anche Sud America, e a queste aggiungiamo anche le italiane, introdotte alla prostituzione da agenzie specializzate al loro reclutamento, per esclusive ragioni economiche, in poche parole per povertà o per ambizioni economiche. Qui lo sfruttamento è probabilmente molto più camuffato, ma estremamente probabile in quanto inserito in organizzazioni molto strutturate ed efficienti.

Prostituzione libera: un lavoro come un altro?

Non sono però riuscito a reperire dati sul fenomeno “volontario”, spontaneo, se vogliamo vocazionale, se così possiamo chiamarlo. Ma è proprio su questa dimensione libera e volontaria che dobbiamo aprire una riflessione seria e non ideologica, ma basata su esperienza e dati. Secondo quali criteri riusciamo a definire veramente “libera” e volontaria un’attività come la prostituzione? Quanto questa scelta può realmente dirsi tale?

Secondo una recente sentenza della Corte di Appello di Bari: «Prostituirsi non è mai una scelta libera» (Linkiesta, 10 giugno 2019)

Ma pur ammettendo in astratto l’esistenza di una quota parte, di sex workers non direttamente sottomesse alle logiche di questa economia criminale e quindi “libere” da essa, comunque si tratta di un lavoro che si iscrive in una logica non solo mercatista, ma anche ricattatoria, che dal lato del lavoratore risponde unicamente a bisogni economici impellenti o ad ambizioni economiche. Pur essendo, ipoteticamente, “libere” dalla tratta, le sex workers indipendenti non lo sono dalle logiche di sistema che ci hanno convinto che un lavoro vale l’altro perché pecunia non olet. Ma è proprio vero che il sex work è un lavoro come un altro?

Cosa compra il cliente della sex worker?

Se dal lato della sex worker l’ambizione di ricchezza è talmente impellente da entrare in un meccanismo di questo tipo, dal lato sociale la crescente richiesta di esperienze sessuali a pagamento risponde ad una enorme domanda di benessere che evidentemente non è esperibile e reperibile in altri contesti sociali.

L’aumento esponenziale del fenomeno dal punto di vista puramente di marketing richiede di spendere qualche riflessione su cosa generi questa penuria di benessere nei nostri attuali stili di vita. Ed utilizzare una prospettiva “economica” non è necessariamente operazione riduzionistica: qui parliamo di economia in senso molto ampio, quindi anche di economia psichica.

L’economia è però la scienza sociale che studia l’allocamento delle risorse scarse. In questo caso la risorsa scarsa di cui si parla è l’intimità, intesa qui come merce sostitutiva della sessualità, ma forse anche come merce sostitutiva dell’amore. Dobbiamo dunque dedurre che i nostri stili di vita rendono l’intimità una merce rarissima e le esperienze piacevoli ad essa legata ancor più rare. Insomma la ricerca di intimità che sostituisce una sessualità reale, compiuta: si compra l’illusione di un’intimità dal momento che la vera sessualità latita.

Chi si prostituisce, si sa, dà piacere ma non ne riceve, vende un prodotto dal quale si deve necessariamente separare per poterlo vendere adeguatamente, lo deve quindi trasformare per rappresentare al proprio cliente l’immaginario che lui sta comprando. In sostanza deve recitare in modo credibile, deve rappresentare quell’immaginario con una certa attendibilità. In fondo chi compra intimità da una sex worker sta comprando teatro di pessima o buona qualità in un corpo reso inerte.

Chi compra intimità da una sex worker compra un pacchetto di esperienze, atmosfere, fantasie, sensazioni, emozioni che sono la teatralizzazione, più o meno credibile, di una esperienza sessuale. E non è un caso che una delle caratteristiche più gettonate dalle escort è la cosiddetta “girlfriend experience”: la sex worker deve mimare il più possibile una dolce fidanzatina innamorata e vogliosa che si mette devotamente al servizio delle fantasie del suo cliente.

Le sex workers in fondo riproducono, come una sorta di evergreen un po’ consumato, l’illusione di un rapporto tra i generi totalmente gerarchizzato e sotto controllo e senza sorprese, dove l’intimità e il piacere sono certi e non sottoposti alla volubilità del caso, alla stanchezza mortale del dopolavoro, alla depressione diffusa nelle nostre condizioni e delle nostre relazioni, ai problemi di comunicazione, al tempo del relax che manca sempre, e così via.

Tutto questo interroga i nostri più comuni stili di vita e ci spiega l’ascesa verticale di questo mercato.

Ma come stanno le sex workers?

Abbiamo detto che nessuna sex worker riceve piacere dalle esperienze che vende, che procura. La scissione del corpo è la condizione necessaria e iniziale per poter svolgere questa attività.

Il sesso nella prostituzione, come nella pornografia, da cui trae trame immaginarie, è un sesso ipercodificato e socialmente sovrascritto, frutto di una necessaria scissione in origine che si trasmette sulla stessa linea di frattura: dal corpo all’immaginario colonizzato. La condizione affinché tale immaginario ipercodificato sia adeguatamente nutrito è che la sex worker si annulli, separi il proprio corpo dalle proprie emozioni, e diventi docile strumento nelle mani altrui.

Questo in che modo ha a che fare con la dignità umana? Il corpo teatralizzato, scisso e inerte della prostituta ha a che fare con la dignità umana o no?

Possiamo perciò affermare che il sex work è un lavoro come un altro e che la dignità umana non è più calpestata rispetto a tanti altri lavori, socialmente più accettabili, nei quali si perde ugualmente dignità e salute?

Qui le posizioni nel dibattito sociale divergono e di molto.

Chi pensa che il sex work e la prostituzione siano un lavoro come un altro, afferma che la sex worker sia la proprietaria del proprio corpo e che quindi ha il diritto di farne ciò che vuole in una società nella quale vendere e comprare qualunque cosa è atto di libera affermazione di sé. Il principio di libertà e di autodeterminazione in tal caso appare come principio assoluto e astorico, e che l’unico problema delle sex workers sia lo stigma morale che la società infligge loro. Si trascura in questa visione ipocritamente libertaria che il corpo di cui la donna si dichiara proprietaria è un corpo sul quale i codici sociali hanno già profondamente scritto ed inciso la loro precisa narrazione. Ed è una storia di dominio e di sfruttamento, una storia dove l’immaginario erotico, anche femminile, è stato totalmente colonizzato e reso consumistico.

Chi pensa che il sex work non sia un lavoro come un altro, crede invece che questa preliminare e necessaria perdita di dignità, scritta nella scissione sopra descritta, seppure socialmente e perfettamente sintonica rispetto al disagio diffuso esistente, non sia mai condizione di una libera scelta, ma che faccia di questo lavoro un lavoro dove la componente alienante è tale da ledere mortalmente in sequenza dignità e salute.

Prostituzione e trauma

È di questo avviso Ingeborg Kraus, psicoterapeuta esperta in trauma e prostituzione, che alla Conferenza sul mercato del sesso organizzata da TALITA il 2 ottobre 2017 afferma:

La vagina può essere usata come uno strumento di lavoro? Dal punto di vista medico non è possibile (…). Lo sviluppo sano e sostenibile di una società dipende dalla salute mentale delle donne. E la salute mentale delle donne è direttamente connessa al rispetto dei loro diritti. (fonte Micromega, Maria Concetta Tringali, Prostituzione: note su un dibattito che non trova sintesi Aprile 2018)

Si dovrebbero ascoltare le storie di vita delle sex workers per comprendere meglio di cosa stiamo parlando. Non solo quelle vittime di tratta e di sfruttamento, la maggioranza di loro: lì è troppo facile dimostrare la perdita di dignità e salute.

No, si dovrebbero ascoltare le storie delle cosiddette sex workers libere e volontarie. Capire da quali esperienze, da quali contesti sociali, da quali culture e da quali rapporti familiari, provengono. Cosa rende loro “capaci” di operare questo taglio reificante con il proprio corpo tale da renderlo merce.

Scopriremmo, molto probabilmente, nella violenza delle relazioni e delle identificazioni, nelle culture incestuali, nei codici di possesso, nella deculturazione radicale dei codici narcisisitici e consumistici della nostra epoca (come testimoniato dalle storie delle prostitute minorenni di alto bordo), come sia potuta avvenire la collusiva colonizzazione dell’immaginario che ancora oggi ripropone la prostituzione come un atavismo culturale ancora non superato.

Ed allora difendiamo le sex workers dalla condanna morale e dallo stigma sociale, ma senza omettere la verità su quanto il sex work sia esperienza alienante e patogena dove ad essere profondamente lesionata è la dignità umana e quindi la salute mentale.

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