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L’età dello smarrimento. Senso e malinconia (2018) di Cristopher Bollas – Recensione del libro

L’età dello smarrimento di Bollas denuncia lo stato di disinteresse sulla materia incandescente degli stati d’animo degli ultimi due secoli

Di Angela Niro

Pubblicato il 14 Giu. 2019

L’età dello smarrimento. Senso e malinconia di Cristopher Bollas, psicoanalista della British Psychoanalytical Society, è un interessante contributo in cui la disciplina psicoanalitica s’interroga sulla situazione di crisi in Occidente e segnala una possibilità per invertire quello che sembrerebbe il suo inarrestabile decorso.

 

Sin dalle prime pagine, infatti, si coglie, forte e chiara, l’intenzione dell’autore di denunciare lo stato di disinteresse, o d’interesse mal riposto – nell’analisi dei fatti che riguardano il singolo e la collettività – sulla materia incandescente degli stati d’animo degli ultimi due secoli.

Bollas fa notare come:

Gli esperti del nostro tempo sembrerebbero – in modo opposto alla pioneristica attitudine di William Bradford a incuriosirsi verso il mondo interno – scarsamente stimolati dalla sua esplorazione, e quindi responsabili di perdersi la trasformazione del pensiero e del comportamento di una società, come il risultato di modi di sentire che perdurano nel tempo, fino a evolversi in assiomi inconsci.

L’età dello smarrimento: la rivoluzione industriale

Per renderci osservatori, a nostra volta, di ciò che ha condotto l’uomo ad una perdita di valori senza precedenti, fa partire la sua analisi dallo stato della mente maniaco-depressivo, seguito alle trasformazioni industriali e tecnologiche del XXVIII secolo. In quegli anni, in tutta l’Europa, poi anche in America, si respirò una ventata d’incredibile ottimismo che coinvolse tutte le discipline, l’economia, la politica, la società intera. Sull’onda di un’intensa euforia, si costruì quel “senso di grandiosità” che ci sarebbe costato caro.

Di fatto, una profonda rabbia seguì alle idealizzazioni distrutte dalla guerra, facendo vacillare il carico di fiducia sin lì costruito. Se quest’ultimo resse il colpo, in realtà, fu grazie all’intervento di uno stato mentale in grado di allontanare tutto ciò che diventava indesiderato. Più precisamente, la sua funzione fu quella di “sistemare” le parti depressive portate alla luce dalla guerra, proiettandole sull’altro; il costo richiesto si rivelò molto alto: l’altro doveva essere distrutto e il circolo instauratosi doveva proseguire. Crebbe, così, un vuoto di valori che fu compensato dalla ricerca di produttività.

In un tale clima, di profonde e radicali trasformazioni, una nuova forma di sé fece la sua comparsa. La sua parte positiva, le consentì di idealizzare il mondo, mentre quella negativa, di fare l’opposto, e non sussistendo nessuna possibilità di comunicazione tra queste due parti, si rivelò altamente funzionale per il periodo post-bellico, soprattutto in America.

Tuttavia, per l’uomo questa modalità divenne sempre più debilitante, e sotto l’effetto di un trauma cumulativo, come fa notare più avanti Bollas (2008)

La ricerca di un’esistenza quotidiana più sicura, meno inquietante, aveva spinto le persone a prendere le distanze dalla soggettività, ad abbandonare la propria mente (p.96).

L’età dello smarrimento: la reazione alle guerre

Di fronte al dolore, l’uomo del dopoguerra, riconobbe il sollievo che poteva ottenere allontanandosene. Fu proprio lo stabilizzarsi di questa soluzione a produrre un’anomala normalità che spazzò via l’orrore delle guerre e consentì il diffondersi di un preoccupante interesse nei confronti della vita materiale e un ritiro marcato dal mondo reale.

Questa mentalità, che Bollas chiama “normopatica”, riprendendo il termine da Joyce Mcdougall, intorno agli anni settanta si manifestò in netto aumento, soprattutto in America. Questi sé normopatici si organizzarono perfino in comunità e alcuni di loro, proprio perché isolati dal contatto con il mondo esterno, pur disponendo di tutte le risorse per poter condurre un’esistenza agiata, iniziarono a manifestare condizioni di sofferenza fino a un forte impoverimento dell’io; una vera e propria “sindrome da compound” che alimentava l’isolamento.

Questo preludio ci sollecita a cogliere la scomparsa del rapporto tra l’uomo e il mondo reale, e dunque tra il sé e l’altro da sé, che l’avvento della globalizzazione non poteva che acuire.

Non sorprende, infatti, come nel suo ambiente virtuale ovattato, quello globale appunto, in cui la velocità diventa assai più importante della riflessione, siano gli stessi sé, come i dispositivi cui ricorrono, a divenire trasmissivi, in altre parole smart, ripetitivi, superficiali.

Si diffondono così nuove forme di pensiero come “l’operazionismo”, “l’orizzontalismo”, “l’omogeneizzazione”, “il pensiero rifrattivo”, proprio per compensare il senso di smarrimento emergente.

L’età dello smarrimento: la gestione della complessità

Di fronte a una complessità che viene percepita però sempre più soverchiante, il ritiro paranoide si afferma come la soluzione migliore, veloce e unificante, capace di offrire una spiegazione semplice; una manovra evacuativa convincente e facile da applicare.

Se pensare a qualcosa faceva stare meglio, quella cosa doveva essere giusta; se qualche idea faceva stare peggio, sicuramente si trattava di un’idea cattiva, che andava eliminata (Bollas, 2018, p.146).

Percorrendo, dunque, i quindici capitoli del testo, l’analisi di Bollas sembra condurci a riconoscere che se ci troviamo di fronte ad un forte impoverimento del processo democratico, al deragliamento della politica verso posizioni estreme e reciprocamente accusatorie, alla perdita di umanità, a vantaggio della velocità e della semplicità, tutto questo va letto seguendone l’evoluzione nel corso delle generazioni. Non solo, e mi piace sottolineare questo aspetto, va letto riconoscendo la responsabilità di ciascuno in quella che sembrerebbe una navigazione inconsapevole in acque soggette a correnti sempre più imprevedibili.

Saltando dal micro al macro, dal singolo ai gruppi e viceversa, e proponendosi con un’ottica interdisciplinare, l’autore stimola il lettore a cogliere, confrontare, esplorare le possibili relazioni tra la vita mentale e la società, che rimangono il più delle volte inesplorate, sconosciute, o probabilmente taciute.

L’età dello smarrimento: serve ricostruire un senso

Se la vita mentale ha perso la capacità di integrare idee contrastanti, di comprenderne il senso, di riconoscerne il valore, è fondamentale assumersi la responsabilità di risvegliare un’attività di pensiero che sia capace di costruire nuovi significati e di interrompere questo “soggetticidio collettivo”.

In contrasto con quel trend autodistruttivo che rifiuta l’insight, Bollas evidenzia il valore della sua disciplina, suggerendone un’applicabilità che appare ancora impensabile, ma che è possibile e quanto mai necessaria. La finestra aperta sulla stanza d’analisi, rappresenta la possibilità offerta al lettore di comprendere in che modo sia possibile riconoscersi soggetti, restituire valore alla vita mentale, al linguaggio, alle emozioni, a quelle capacità riflessive che sono state deprivate e trasformate.

Per concludere, è nell’assistere all’incontro tra paziente e analista e al costituirsi della loro relazione che il lettore si avvicina con più consapevolezza al senso di quella che Bollas chiama coscienza dinamica,

[…] che valorizza, riceve e utilizza il pensiero inconscio con abilità creativa (Bollas, 2008, p.135).

È in questa intersoggettività che si respira un richiamo alla vitalità, all’umanità, che sembra, ma è qui che è richiesto tutto il nostro impegno affinché non lo diventi, come in Meursault, irrimediabilmente perduta.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bollas, C. (2018). L’età dello smarrimento. Senso e malinconia. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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