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I legami e il dono. Dalla Good Enough Mother ai processi di differenziazione

Il dono è centrale nella relazione madre-bambino. E’ dal momento in cui inizia il meccanismo del parto che il soggetto tende a differenziarsi dalla madre

Di Mariano Indelicato

Pubblicato il 20 Giu. 2019

Aggiornato il 27 Giu. 2019 11:12

Bowlby, al fine dello sviluppo del sé, individua tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso. Egli sostiene che un attaccamento adeguato influisce al fine di evitare situazioni patologiche future come la depressione e gli stati d’ansia.

 

Le persone che in futuro svilupperanno tali patologie hanno vissuto esperienze di disperazione, di angoscia e di distacco durante l’infanzia. Bowlby, inoltre, introduce il concetto di cicli di privazione e di resilienza per descrivere le persone che hanno vissuto esperienze angosciose e di privazione durante l’infanzia.

In base alle sue ricerche notò che i soggetti che durante l’infanzia hanno vissuto esperienze di deprivazione e di abbandono tendono, una volta adulti, a ripetere gli stessi tipi di comportamento, anche se il vissuto può essere attutito dalla presenza di un fratello e/o di un ambiente particolarmente favorevole che riesca a sostituire le esigenze di caregiver.

Il dono nella relazione madre-bambino

Stern mette in risalto che la relazione madre-bambino non è direzionale ma bidirezionale e il bambino nell’ambito di questo rapporto assume una parte attiva portando all’interno della stessa relazione elementi legati all’ambiente di vita: il sé e l’altro.

Bion, analizzando la definizione di madre sufficientemente buona di Winnicott sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo lei restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

In sostanza la good enough mother riesce a trasmettere al figlio la fiducia e la speranza insita nella capacità di donare sapendo di poter essere ricambiati. Molte volte i genitori chiedono quali sono i comportamenti da adottare per essere buoni padri o madri, potremmo semplicemente rispondere di dare fiducia e speranza ai propri figli nei legami. L’importante non è commettere errori, ma riuscire, come sostenuto da Bettelheim, a imparare dai propri sbagli, di riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando s’incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

Quando la relazione madre-bambino non è all’insegna del dono

A volte, però l’errore non è riconosciuto tant’è che è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre, tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne. Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino, anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile.

Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia, anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua.

L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che

se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero.

Le esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e giacché tali a una relazione di coppia patologica.

Relazione madre-bambino e sviluppo di psicopatologie

Anche le esperienze di abbandono infantile comportano lo sviluppo di esigenze narcisistiche che comportano relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Se volessimo sintetizzare, il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto ed è vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro e a una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato a essere ferito, rifiutato nei rapporti.

La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta. Spesso soggetti di questo tipo tendono a sviluppare il disturbo ossessivo compulsivo in cui la percezione di un abbandono o un abbandono realmente vissuto diventano il substrato su cui si sviluppa lo stesso disturbo.

Nella mia pratica clinica ho sempre ritrovato al di sotto del DOC un vissuto di abbandono. Riporto il caso di un paziente dell’età di 35 anni che da circa 20 anni convive con i rituali e le rimurginazioni tipiche del disturbo. La sua vita è totalmente invasa dal disturbo poiché deve svolgere il rituale all’avvicinarsi di determinati numeri che cambiano di volta in volta. A volte il numero può essere il 6 per cui deve ripetere il rituale per almeno nove volte se lo ha fatto sei volte e cosi via. Il pensiero ossessivo che deve essere sconfitto dai rituali è che in assenza delle ripetizioni si possa sviluppare un’alta velocità che comporterebbe disastri alle persone care e, in particolare, i familiari. Nella fase sociale del primo colloquio il paziente racconta che all’età di 5 anni la mamma, a seguito di una malattia del fratello, lo ha dovuto lasciare per parecchio tempo e che successivamente era rimasto sempre con la nonna poiché ambedue i genitori si sono dovuti trasferire per lavoro. I bambini, non in grado ancora di razionalizzare i motivi che stanno alla base della scomparsa o dell’allontanamento delle figure di attaccamento, reagiscono al vissuto di abbandono attraverso sentimenti di svalutazione e di colpa. I miei genitori sono andati via perché ho commesso qualcosa di grave o non ho fatto qualcosa. E’ evidente che, successivamente, per sfuggire all’angoscia dell’abbandono metaforicamente attraverso i rituali tendono a controllare i vari avvenimenti di vita. Non è un caso che il paziente in questione dopo aver vissuto per anni lontano dalla famiglia e di essersi sottoposto a un percorso terapeutico aveva raggiunto un buon compenso sul piano sintomatologico. Al ritorno in Sicilia e all’interno della famiglia di origine ha avuto immediatamente una ricaduta sul piano sintomatologico. Questo caso non fa altro che sottolineare l’importanza che assume il care giver lungo le fasi dello sviluppo.

Il dono nella relazione madre-bambino secondo la psicoanalisi

La psicoanalisi ha avuto il merito di analizzare in profondità il care giver materno e ha previsto dei modelli predittivi per l’instaurarsi di patologie future. In sostanza ci ha detto che se gli atomi non si differenziano non si può creare, come affermato in precedenza, lo spazio intersoggettivo e quindi, i legami. Al contrario, non ha, se non marginalmente, tenuto conto che il soggetto vive in un ambiente relazionale che può colmare le lacune del cargiver materno.

A questa lacuna sembra rispondere Hartmann, uno psicoanalista americano, che alla fine degli anni ’30, pur affermando l’esistenza del conflitto tra l’Io e l’Es e la forza delle pulsioni, sposta la sua attenzione sul conflitto tra l’Io e il mondo esterno ovvero la relazione tra i bisogni dell’Io, e quindi non necessariamente inconsci, e le richieste dell’ambiente. In quest’ambito la patologia può anche nascere dal mancato adattamento all’ambiente o dalle relazioni con gli altri e dal confronto con i ruoli sociali.

Sullivan, partendo dal presupposto che l’uomo è un essere sociale che cresce in interazione con la comunità in cui vive, afferma che lo sviluppo del bambino dipende dal suo bisogno di essere approvato dalle persone per lui significative in modo da interiorizzare un senso di sicurezza. Al contrario, senza tale approvazione, il bambino prova un senso di malessere che lo porta a costruire un sistema del sé caratterizzato dall’angoscia di base. A seguito delle ricerche cliniche di Sullivan, in America una scuola denominata modello relazionale psicoanalitico, di cui il maggior rappresentante è Mitchel, parte dal presupposto che le persone sono strutturate in maniera tale da essere attratte una dall’altra. Tale modalità è definita da Mitchel “relazionale per destino” e la mutua da Bolwby il quale nella teoria dell’attaccamento sostiene che la relazione è un bisogno fondamentale innato del bambino.

Il dono: seguito naturale della differenziazione con la nascita

Ritornando alla chimica, gli atomi si uniscono tra di loro in base alle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche e, quindi, possiamo senza dubbio affermare che contengono nella loro natura la predisposizione e l’esigenza di legarsi.

D’altronde tutto parte da una serie di atomi, che si legano attraverso il legame covalente per formare il DNA e l’RNA, che costituiscono le basi su cui si costruisce il corpo umano. In sostanza, noi siamo formati da atomi che legandosi costruiscono le molecole, che unendosi a loro volta, fabbricano le cellule. Quest’ultime legate formano i tessuti, che messi insieme danno origine agli organi i quali plasmano gli apparati e, per finire, quest’ultimi legandosi il corpo umano. Questo in sintesi è il formarsi di ciò che definiamo il biologico.

Nel biologico tutti gli elementi tendono a differenziarsi, a riconoscersi per differenza e nel momento in cui s’inglobano o si legano, perdono la loro soggettività in favore di un terzo soggetto al quale si sentono di appartenere: dire mano, al massimo, significa che è formata da cinque dita. A nessuno di noi, se non per interessi scientifici, verrebbe di specificare le singole cellule, molecole o, peggio ancora, atomi che formano la mano. Al contrario, i singoli atomi, le singole cellule o molecole si riconoscono nella mano.

D’altronde, come ci insegna la gestalt, la percezione, e non solo per un fatto culturale, si presenta come un tutto unico, come una struttura e non come la somma dei singoli elementi. Lo stesso accade al biologico che si presenta ed è percepito come una struttura unica e non divisa per singoli elementi. Sempre nel biologico accade un processo che perdendo ci fa acquistare autonomia: il parto, la nascita.

Il feto che vive in totale simbiosi con la madre e che vede tutti i suoi “desideri” soddisfatti arriva al punto in cui per conquistare la sua autonomia “decide” di perdere la sua serenità e, quindi, di nascere. E’ dal momento in cui inizia il meccanismo del parto che il soggetto tende a differenziarsi dalla madre e, se volessimo andare più indietro, è dal momento del concepimento che inizia il processo di differenziazione. Durante la meiosi la nuova cellula, anche se contiene le informazioni genetiche delle precedenti, non ne è la loro somma. Se la nuova cellula è il primordio di un nuovo individuo: ecco l’inizio del processo di differenziazione.

La trasformazione del biologico in culturale abbisogna di un, per dirla con Freud, lavoro psichico che, a mio parere, sta all’interno dei processi di differenziazione che trovano riscontro all’interno degli spazi intra e interpsichici il cui presupposto centrale sono i legami.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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