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Il confine tra religione, delirio mistico e psicoterapia

Delirio mistico e fede religiosa: in psicoterapia può essere difficile distinguerli, specie se non conosciamo bene la cultura di appartenenza del paziente

Di Giada Costantini

Pubblicato il 28 Giu. 2019

Il modo di “guardare” dello psicologo deve necessariamente astenersi da ogni credo politico e religioso per poter curare il paziente secondo una totale laicità intellettuale: il rischio di imporre al paziente valori etico-sociali altri deve continuamente essere valutato. Questo è il presupposto fondamentale da cui partire per ragionare sul confine tra credenze religiose, delirio mistico e psicoterapia.

 

L’Art. 4 del codice deontologico degli psicologi (2006) sottolinea che nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità (in Calvi, 2012).

Con questo articolo, esplicitando il valore dei principi fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo all’interno dell’agire professionale, si è inteso raggiungere il doppio obiettivo di definire i principi etici della professione e la sua natura laica.

Delirio e religione: la distinzione del DSM 5

Capiamo come sia fondamentale che il modo di “guardare” dello psicologo debba necessariamente far riferimento alla letteratura scientifica e, dunque, astenersi da ogni credo politico e religioso per poter curare il paziente secondo una totale laicità intellettuale. Ma il rischio di imporre al paziente valori etico-sociali altri, quindi sostituire la sua capacità critica invece di aiutarla a svilupparsi, deve continuamente essere valutato.

Questa premessa è il presupposto fondamentale da cui partire per ragionare sul confine tra credenze religiose, delirio mistico e psicoterapia.

Il DSM 5 (2013) descrive i deliri come un disturbo dell’attenzione (ridotta capacità di dirigere, focalizzare, sostenere e spostare l’attenzione) e della consapevolezza (ridotto orientamento nell’ambiente), che si sviluppa in un breve periodo di tempo (solitamente ore o giorni). Rappresenta una variazione rispetto alla condizione di base, tende a fluttuare in gravità nel corso del giorno ed è associato ad almeno un altro deficit cognitivo (per esempio disturbo di memoria, orientamento, linguaggio, abilità visuo-spaziali, percezione) (ibidem). Sono convinzioni fortemente sostenute che non sono possibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti e il loro contenuto può comprendere una varietà di temi (per es., di persecuzione, di riferimento, somatico, religioso, di grandezza) (Ibidem). Tra questi, c’è il delirio mistico in cui il soggetto sperimenta un particolare, esclusivo e intimo rapporto con la divinità e in qualche modo ne entra a far parte (Lorenzini e Coratti, 2008).

L’importanza del fattore culturale per la diagnosi

Di fronte a questo tipo di esperienza potrebbe essere a volte difficile riconoscere il confine tra un delirio e un’esperienza profonda di fede. Di fatto, lo stesso DSM 5 (2013) sottolinea l’importanza di considerare il contesto sociale in cui il paziente vive per poter distinguere i sintomi psicotici da modalità di risposte sancite dalla cultura di riferimento. Per esempio, in alcune cerimonie religiose, un individuo può riferire di sentire delle voci, ma queste in genere non persistono e non sono percepite come anormali dalla maggior parte dei membri della comunità di appartenenza (in DSM 5, 2013). Inoltre, fattori culturali e socioeconomici devono essere considerati, in particolare quando l’individuo e il clinico non condividono lo stesso background culturale e socioeconomico (Ibidem). Idee che sembrano deliranti in una cultura (per es., arti magiche) possono essere comunemente diffuse in un’altra: in certe culture, allucinazioni visive o uditive con un contenuto religioso (per es., sentire la voce di Dio) rappresentano una parte normale dell’esperienza religiosa (ibidem).

Anche in questo caso può sembrare limitante e anche poco utile rimuginare su quanto i contenuti dell’esperienza del nostro paziente siano deliranti o meno se poi perdiamo di vista una riflessione sul “se” sono funzionali o meno al suo benessere. Di fatto, dovremmo chiederci se il contenuto delle sue convinzioni rappresentano una libera espressione di sé o il risultato di un intollerabile fallimento il quale mette in discussione aspetti centrali della propria identità che si cercano di salvare (Lorenzini e Coratti, 2008).

Delirio: la sua funzione nella sofferenza dal paziente

L’importanza data dal contesto culturale e sociale per riconoscere il delirio risale agli inizi del ’900, epoca in cui si definisce il delirio come giudizio incrollabile che non può essere accettato dalle persone della stessa classe, educazione, razza ed età della persona che fortemente lo sostiene (Muscillo et al., 2005). Tuttavia, questa definizione non sembra evidentemente esaustiva: alcune opinioni molto personali possono non essere condivise dalla propria comunità, ma non possono essere considerate un fenomeno delirante. Se quindi non è derivabile dal retroterra culturale o educativo della persona, deve assumere più importanza la sua convinzione falsa e incorreggibile che nasce all’interno del processo morboso e in esso trova la sua giustificazione al di là del rapporto con gli altri. Rispetto a esso, alla comunità, il delirio rappresenta la rottura con il mondo, il fallimento dell’intersoggettivo (ibidem). Per Jaspers (1959), il delirio è un’esperienza originaria e inderivabile, un’alterazione del rapporto con la realtà, che coinvolge tutta la personalità; ancora più importanza viene data all’incontro intersoggettivo nell’approccio antropoanalitico, in cui il delirio è la soluzione, inevitabile, a un “errore” dell’incontro interumano, a un progetto mondano ristretto e coartato. La solitudine, l’isolamento e la distanza appaiono, infatti, gli aspetti centrali di molti deliri: l’essere nel delirio è un modo peculiare di essere nel mondo, non corrispondente all’essere nell’amore, bensì all’essere nella fuga, in un separarsi dalla realtà (Muscillo et al., 2005).

Il delirio entra in gioco quando è necessario conservare o recuperare capacità predittiva di fronte alla minaccia di perderla drammaticamente; il bisogno di darsi a tutti i costi una spiegazione nasce proprio dal trovarsi di fronte all’inspiegabile (Lorenzini e Coratti, 2008).

In altre parole anche il delirio è, come sempre, la migliore soluzione che i pazienti sono riusciti a trovare per dare un senso al loro tema doloroso. Di fatti, anche per comprendere il funzionamento del paziente delirante dobbiamo porci la classica domanda che per i cognitivisti rappresenta la guida della terapia: “a cosa gli serve?”. E non ci stupiremo se anche il contenuto stesso dei deliri non è mai casuale, ma sempre coerente con lo scopo di alleviare quel dolore. Comprendere ciò, credo sia il punto di partenza imprescindibile di tutte le psicoterapie: è il primo passo per dare senso alla sofferenza e porsi obiettivi di cambiamento che ridiano al paziente centralità nelle sue scelte di vita.

Delirio mistico: quali sono i fattori predisponenti

Sembrano esserci dei fattori che predispongano alla manifestazione di sintomi deliranti.

La vulnerabilità è un fattore predisponente e precipitante nella manifestazione del delirio: è proprio nella resistenza/impossibilità di cambiare i propri schemi malgrado la loro manifesta disfunzionalità che identifichiamo l’essenza della vulnerabilità al disagio mentale in generale e alla dimensione delirante in particolare (Lorenzini e Coratti, 2008). Il livello di vulnerabilità è sicuramente determinato dalla qualità della relazione d’attaccamento: l’attaccamento sicuro è un fattore predittivo non soltanto in quanto favorisce lo sviluppo della mentalizzazione, ma anche per altre dimensioni quali la possibilità di separarsi (ibidem).

Sembra ormai sufficientemente appurato che l’individuo, nel corso della vita, stabilisca relazioni di attaccamento con figure diverse. Queste relazioni si sovrappongono, per alcuni aspetti, nella funzione di assicurare all’individuo un senso di benessere, sicurezza e fiducia nel mondo che lo circonda.

I dati di ricerca disponibili sull’argomento hanno evidenziato come una relazione significativa col proprio partner, o una profonda esperienza di fede o, ancora, il sostegno del terapeuta che si pone come “base sicura” per consentire al paziente l’esplorazione dei propri modelli di attaccamento, possano apportare cambiamenti significativi nel modello generale dell’attaccamento dell’individuo, e produrre effetti benefici su aspetti dell’esperienza dell’individuo non direttamente implicati in quella specifica relazione (Cassibba, 2003). Ciò avviene perché le esperienze relazionali nuove che confermano le aspettative dei modelli già consolidati vengono immediatamente inglobate nelle rappresentazioni già esistenti. Gli eventi disattesi o che si discostano dalle previsioni del modello, vengono, invece, percepiti inizialmente come eccezioni; qualora tali esperienze si verifichino con una certa ripetitività e consistenza, diventa necessario costruire nuovi copioni e metterli in rete con quelli già esistenti. A questo punto si è prodotto un cambiamento nell’organizzazione dei copioni e, di conseguenza, nelle loro connessioni. Le ripercussioni di tale cambiamento sulla rappresentazione generale dell’attaccamento dipenderanno dalla natura delle connessioni che si saranno create tra i copioni che si situano allo stesso livello di generalizzazione, così come tra i collegamenti esistenti tra questi copioni e quelli situati a livelli di generalizzazione superiore (Aletti 2009). Per questa ragione, eventi autobiografici legati ad una specifica relazione di attaccamento, possono indurre cambiamenti anche profondi (Ibidem). Una conversione religiosa, ad esempio, può lasciare immutati i modelli di attaccamento dell’individuo o, al contrario, può stravolgere il modo di concepire e vivere le relazioni interpersonali a seconda dei livelli di rappresentazione che sono stati toccati dal cambiamento.

L’importanza dell’orientamento religioso

Un individuo con un orientamento religioso estrinseco (Allport & Ross, 1967), che tende ad accostarsi alla religione per acquisire sicurezza, conforto, o un particolare status o supporto sociale, potrebbe modificare, ad esempio, in seguito all’esperienza religiosa, la rappresentazione relativa alla sua “posizione sociale”, ma non le proprie rappresentazioni relative al modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri. Al contrario, un individuo con orientamento religioso “intrinseco”, che mette da parte i propri bisogni e fa proprio il modello di relazione basato sull’amore proposto dalla religione, potrebbe mettere in discussione anche le rappresentazioni delle relazioni collocate a livelli più alti di generalizzazione.

Se è vero, del resto, che l’esperienza di fede con Dio viene vissuta come una relazione di attaccamento, l’esperienza di conversione può portare l’individuo a ripensare ai propri modelli mentali delle relazioni e a riorganizzarli, con conseguenti ripercussioni sul proprio modo di vivere le relazioni interpersonali con i propri genitori, con gli amici o col partner.

Un’ultima riflessione sulle condizioni che possono rendere i modelli operativi interni più suscettibili al cambiamento riguarda la considerazione di quei fattori, sia interni che esterni all’individuo, che possono “facilitare” o incoraggiare tale cambiamento (Aletti, 2009). Si può ipotizzare che l’età in cui si verificano particolari esperienze, il temperamento dell’individuo (Belsky, 1997), l’intensità emotiva che caratterizza alcune relazioni possono incidere sulla possibilità di suscitare reazioni emotive forti che riattivano i modelli operativi interni dell’attaccamento e che li rendono più sensibili al cambiamento (Berlin e Cassidy, 1999).

Delirio mistico: il ruolo della famiglia

Ma l’attaccamento non è tutto. Una cultura familiare chiusa, isolata, senza confronti con il mondo esterno, in cui si conosce un solo modo di essere che non ha alternative e non prevede sfumature, è certamente un fattore di rischio (Lorenzini e Coratti, 2008). Altresì, il porsi pochi obiettivi esistenziali, percepire un forte legame tra le prestazioni e l’identità personale (per cui le persone hanno valore per quello che fanno) e il percepirsi vittime impotenti di forze esterne (mentre è fattore protettivo considerarsi attivi costruttori della propria realtà e artefici del proprio destino) sono fattori di vulnerabilità (ibidem).

Alla luce di queste riflessioni, ritengo fondamentale porre attenzione alla sofferenza del paziente e costruire una base sicura dove tutto acquisisce un senso, un porto sicuro da cui partire per sperimentare nuove competenze flessibili e coerenti con i suoi bisogni.

Lo scopo ultimo della terapia sarà ricostruire una nuova storia di quanto accaduto, una storia dove ciò che era impensabile sia ora possibile e accettabile; una narrazione con più gradi di libertà che consenta di progettare per il futuro un’esistenza con meno vincoli, costrizioni, divieti (Lorenzini e Coratti, 2009).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Aletti, M. (2009). Psicologia della religione e teoria dell'attaccamento. Aracne.
  • Allport, G. W., & Ross, J. M. (1967). Personal religious orientation and prejudice. Journal of personality and social psychology, 5(4), 432.
  • American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5®). American Psychiatric Pub.
  • Belsky, J. (1997). Theory testing, effect‐size evaluation, and differential susceptibility to rearing influence: The case of mothering and attachment. Child development, 68(4), 598-600.
  • Berlin, L. J., e Cassidy, J. (1999). Relations among relationships: Contributions from attachment theory and research.
  • Calvi, E. (2012). Il codice deontologico degli psicologi: commentato articolo per articolo: con appendice di aggiornamento 2012. Giuffrè.
  • Cassibba, R. (2003). Attaccamenti multipli. Milano: Unicopli
  • Jaspers K: (1959). Psicopatologia generale. Ed. it., Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1994
  • Lorenzini, R., e Coratti, B. (2008). La dimensione delirante: psicoterapia cognitiva della follia. Raffaello Cortina.
  • Muscillo, M., Valchera, A., Rusconi, N. C., e Callieri, B. (2005). Aspetti psicopatologici del delirio. Rivista di psichiatria, 40(4), 241.
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