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I mille volti del drop out

Il drop out della terapia si ha quando il paziente lascia le sedute prima che si siano raggiunti, insieme, gli obiettivi concordati per il percorso

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 24 Mag. 2019

I pazienti se ne vanno. Succede. Non possiamo fingere che nessuno ci abbia mai lasciati così all’improvviso, magari in malo modo e soprattutto che la cosa sia passata sottecchi.

 

Il drop out è, infatti, il fenomeno secondo il quale il paziente abbandona la terapia prima che essa si concluda o comunque prima che si raggiungano gli obiettivi prefissati e può succedere tanto in terza seduta tanto alla 101esima.

Interruzione prematura della terapia: come si sente il terapeuta?

Quello che possiamo chiederci, però, è come ci sentiamo noi terapeuti quando questo si verifica. Abbandonati? Arrabbiati? In colpa? Intimoriti? Beh, ognuna di queste emozioni la dice lunga, su di noi ovviamente. Se, infatti, riuscissimo ad identificare l’emozione che ne segue e ci lasciamo guidare da essa verremmo a capo di cose interessanti. Ma fermiamoci e ragioniamo un attimo: il drop out è un evento che riguarda tutti e due gli elementi della relazione terapeutica. Quando il fidanzato ci molla, è davvero sempre e solo colpa sua? Quando il coinquilino se ne va perché non gli piace più condividere l’appartamento con noi, siamo davvero certi che non abbiamo contribuito a questo addio oppure era davvero solo una sua esigenza di spostarsi in una casa più grande?

Al di là di come l’addio in questione risuoni dentro noi, e delle modalità con sui esso si è esplicato, l’aspetto più importante riguarda la sua gestione. Nella mia pratica clinica ho provato ad identificare diversi tipi di drop out: ci sono pazienti che spariscono e non rispondono più al telefono (a volte tornano dopo mesi ma altre volte no); ci sono quelli che riferiscono che non vogliono più proseguire con le sedute e poi ci sono quei pazienti che richiedono la pausa di riflessione.

Drop out in terapia: alcune esperienze

G. era una mia paziente con Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP). Nella concettualizzazione del caso, come spesso accade, avevamo notato due schemi, uno sovra e uno sotto ordinato. G. aveva lavorato molto sul suo bisogno di sentirsi apprezzata ma nel comprendere che dietro quel bisogno ve ne era un altro che viaggiava sul sistema motivazionale dell’attaccamento, la terapia ha preso una piega diversa e G. ha cominciato a vacillare per il troppo dolore e mi ha chiesto una pausa. Mi sono chiesta, in primis, se fosse un problema relazionale, ovviamente. Ma sinceratami che non ci fosse alcuna rottura non ho potuto fare altro che validarla. Mi sono assicurata che avesse compreso e consolidato gli obiettivi raggiunti fino a quel momento e che fosse consapevole di cosa ci fosse dietro quella decisione. Ho sentito G. alcune volte tramite messaggio dopo l’interruzione, ma la terapia ad oggi è sospesa. Con M. è successo più o meno lo stesso: nel mezzo del lavoro sulle memorie traumatiche di una infanzia basata su abusi e violenza, mi dice che vuole fermarsi. Con lui, però, abbiamo ripreso dopo un mese. Meglio di prima, direi. T., invece, dice che non vuole più continuare la terapia, che si sente devitalizzato in questo periodo e non tollera il percepirsi così anche nelle nostre sedute. A quel punto lo invito per una seduta, eventualmente conclusiva per capire insieme a lui il motivo di quella scelta; non era importante che riprendesse davvero la terapia ma che fossimo coscienti di quello che era successo. Ed infine, considerato che la terapia è pur sempre una relazione di aiuto che si muove sul registro della responsabilità della cura, sentivo che era mio dovere dire cosa ne pensavo io, se fossi d’accordo o meno. Ovviamente se il terapeuta è in grado ed ha la possibilità di ricondurre tutto questo materiale allo schema del paziente (Dimaggio et al, 2013) restituirebbe un’ultima seduta davvero importante perché tradurrebbe l’intenzione di lasciare la terapia in base ad aspetti di un funzionamento interno. Ricordo che una volta, con una comunicazione del genere, un paziente mi disse che non si era mai sentito compreso come in quel momento e decise di non andarsene più: notare che quel voler mollare era legato ai suoi coping e lo aiutò a rivedere la procedura.

Drop out: può essere questione di motivazione

Poi ci sono i pazienti che puf…non vengono alla seduta concordata, non avvisano e non c’è più modo di sentirli dopo l’interruzione. Lì restiamo con mille dubbi su mille aspetti e le pensiamo un po’ tutte: problema relazionale? errore tecnico? studio brutto? poltroncina scomoda? altro terapeuta? problemi a lavoro o economici? Beh, possiamo rifletterci un po’, provare ad escludere almeno le prime due opzioni ma non ne avremo mai la certezza così come non sapremo mai perché il paziente in questione non ha condiviso con noi quello che aveva maturato nella sua mente prima ed agito in terapia poi. Anche rispetto a questo ci potrebbero essere mille spiegazioni: vergogna? Paura? Paura di cosa? Del giudizio? Di ferirci? Di deluderci? Oppure semplicemente scarsa motivazione (questo lo si vede bene nei pazienti inviati da terze persone) o sintomatologia troppo attiva? Questi ultimi fattori, e gli studi lo dimostrano bene, impattano notevolmente sulla compliance al trattamento quindi, a quel punto, potremmo farci ben poco.

Infine, ci sono i pazienti che ammettono, apertamente, che la terapia non gli piace, che non si sentono a loro agio, che non vedono miglioramenti. Possono addirittura dirci che siamo noi a non piacergli. Anche lì, in primis, se abbiamo abbastanza elementi, proviamo a riportare la questione sul funzionamento. Se ce la giochiamo bene e siamo bravi ad esplorare insieme al paziente, forse alla fine non se ne va davvero. Un’ultima situazione che a volte ho vissuto è quella con il paziente che vuol cambiare terapeuta: dopo averne esplorato le motivazioni, consigliare un eventuale collega, ha sempre avuto un notevole impatto nel paziente che sente che non ci mettiamo a difendere la nostra posizione a denti stretti.

Drop out: quando l’errore è del terapeuta

Per finire, c’è lui, il drop out da errore terapeutico. Come dimenticare quel mio paziente con cui, presa dalla mia necessità di dare prova della mia bravura, gli mostrai il suo ruolo nei cicli interpersonali senza avergli neppure ancora parlato di schema. Eppure so bene che i cicli interpersonali sono un argomento da tenere in riserva per fasi avanzate di terapia!!! Lì me lo potevo aspettare. Il paziente spostò per tre volte appuntamento e poi mi disse che sarebbe partito per lavoro per un tempo indeterminato. In quel caso, però mi ha ricontattato e l’ho rivisto dopo 10 mesi. Ripartimmo da lì, dal mio errore. Dalla sua depressione dopo aver creduto che fosse colpa sua se gli altri lo allontanavano e dal mio spiegargli cosa fosse successo nella mia mente in quella seduta. Ripartimmo da quell’evento, incorso 10 mesi prima ma ancora vivo come se fosse accaduto la settimana precedente. È in casi come questo che mi viene in mente Gazzillo che ci rincuora quando dice che siamo comunque esseri umani e non macchine perfette e nell’incontro con l’altro possono succedere tante cose tra le quali anche la mancata sintonizzazione (Gazzillo, 2016).

Questo è il mondo degli abbandoni terapeutici. Un unico fenomeno, mille chiavi di lettura. Il fascino della psicoterapia mi stupisce ancora. Quello che sento molto forte è la necessità di provare a tollerare frustrazioni ed incertezze, di mettersi sempre in gioco e di essere davvero aperti mentalmente. Tanta supervisione, in questi casi, aiuta e non poco per sviluppare una buona capacità di disciplina interiore. Unitamente a questo aspetto, credo che la riflessione principale debba soffermarsi sugli aspetti del funzionamento del terapeuta e su quello del paziente che a volte si incastrano meravigliosamente ed altre volte, invece, in modo problematico. Questione di cicli interpersonali, direi! A questo punto potremmo chiederci addirittura se esistono delle classi di pazienti con cui abbiamo più difficoltà a lavorare. Se ad esempio tutti i pazienti evitanti droppano, forse ci sarà un qualche fattore che non riusciamo a tenere sotto controllo. Individuarlo è il primo step, cercare di risolverlo e di non incapparci potrebbero essere i successivi.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G. Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore.
  • Gazzillo, F. (2016). Fidarsi dei pazienti. Introduzione alla Control-Mastery Theory. Raffaello Cortina Editore.
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