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Il paradosso della bontà: la strana relazione tra cooperazione e aggressività nell’evoluzione umana

Il coesistere di aggressività e cooperazione nell'uomo potrebbe essere il risultato non solo di un processo evolutivo ma anche etologico.

Di Laura Stefanoni

Pubblicato il 12 Mar. 2019

Come possono coesistere nell’uomo cooperazione e aggressività? Come mai nella storia umana la violenza diretta verso gruppi nemici è stata così distruttiva?

 

Tante volte i comportamenti umani ci appaiono incomprensibili e fatichiamo a dare loro un senso in quanto si pongono al di fuori di quello schema di azioni che potremmo facilmente ricondurre alla specie umana. Allo stesso tempo, l’uomo dispone di un repertorio comportamentale assai variegato in cui non di rado un’azione risulta essere l’opposto dell’altra. Viene dunque naturale chiedersi come è possibile che la razza umana sia il risultato di questo mix, tendenzialmente ben studiato, di comportamenti, motivazioni e azioni.

E se questa domanda non vi ha fatto passare notti insonni, non preoccupatevi. Al posto vostro, sono stati numerosi gli studiosi, filosofi e antropologi del passato e del presente, che si sono interrogati alla ricerca di una risposta. Per farlo, è venuto naturale ripercorrere la storia evolutiva dell’uomo, alla ricerca di quelle tracce che consentono di spiegare come mai sono stati selezionati alcuni comportamenti e non altri ad eredità del nostro “pacchetto comportamentale”.

Lo studio dei fossili in questo processo è stato di grande aiuto, perchè ha consentito di rintracciare più o meno chiaramente il periodo storico in cui certe azioni possono essere rintracciate nell’essere umano; ad esempio la rilevazione di microscopici segni su ossa vecchie di oltre 2,5 milioni di anni ci suggerisce che tali segni sono stati probabilmente fatti con strumenti di pietra affilati e che dunque l’uomo era già in grado di realizzare attrezzi. Più difficile è invece capire come si sono ad esempio integrati ed evoluti nel tempo tutti quei comportamenti che fanno capo alla cooperazione e all’ aggressività.

È un dibattito in scena da secoli, che trova le sue radici nelle opere di Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau (tra gli altri filosofi), ma tutt’oggi ancora molto vivo. Come possono coesistere nell’uomo cooperazione e aggressività? Come mai la violenza umana diretta verso gruppi percepiti come nemici è stata così distruttiva?

Un recente articolo pubblicato sul The Atlantic, illustra le ipotesi ad oggi più condivise, soffermandosi in particolare sulla teoria di Wrangham.

Alcune ipotesi

Secondo coloro che sostengono una visione hobbesiana della natura umana, radicata nella genetica, l’ aggressività costituisce una caratteristica intrinseca dell’individuo, violento per eredità evolutiva. Ne troviamo prova in numerosi studi e osservazioni condotti sui nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé. Tra gli episodi che raccontano la brutalità che possono raggiungere questi animali, ci colpisce in particolare il racconto di come una madre e una figlia scimpanzé hanno ucciso i bambini di altre femmine del loro gruppo e di come i maschi spesso costringono e picchiano le femmine; ancora, sono diversi gli episodi in cui grandi gruppi di scimpanzé si sono riuniti e, sulla spinta dell’eccitazione e di un’ aggressività crescente, sono andati in “pattuglia” in un modo che sembrava organizzato (hanno camminato lungo il loro confine territoriale) attaccando scimpanzé solitari delle comunità vicine quando li hanno incontrati lungo il percorso.

Ma non tutti gli studiosi si sono lasciati convincere da questa ipotesi, dando fiducia a quella che è la natura buona dell’uomo. Nel corso dei decenni durante i quali ci si concentrava soprattutto sul lato oscuro della natura umana, si sono costantemente accumulate prove che l’uomo, fin dall’inizio del suo sviluppo, è la specie più cooperativa nel mondo dei primati. Infatti, in diversi esperimenti che ricreavano situazioni che richiedevano la collaborazione tra due o più individui per raggiungere un obiettivo, gli essere umani (anche bambini molto piccoli) si comportavano meglio delle scimmie. Nel frattempo, il classico lavoro sugli scimpanzé è stato completato da nuovi studi sui bonobos, l’altro nostro parente stretto.

Aggressività reattiva: l’ipotesi dell’auto-domesticazione

Wrangham introduce un’ipotesi interessante nel tentativo di spiegare il coesistere di aggressività e cooperazione nell’uomo, percependo queste due tendenze come il risultato di una progressiva selezione di alcuni tratti, in particolare l’ aggressività reattiva ridotta, intensa come la tendenza ad attaccare quando un altro individuo si avvicina troppo, invece di tollerare un contatto abbastanza a lungo da consentire una possibile interazione amichevole.

Nei suoi studi Wrangham si è soffermato in particolare su alcuni esperimenti che esplorano l’addomesticamento di volpi selvatiche, visoni e altre specie attraverso la selezione artificiale diretta dall’uomo di alcuni tratti. Tali sforzi di allevamento, avrebbero prodotto, secondo Wrangham, “la sindrome da addomesticamento” generando un cambiamento in una serie di tratti, non solo la bassa aggressività reattiva che gli allevatori hanno deliberatamente individuato, ma anche una faccia più piccola con il muso accorciato e periodi fertili più frequenti (meno stagionalmente circoscritti), che andrebbero in tandem con la docilità.

Qualcosa di simile potrebbe essere successo, secondo Wrangham, anche nell’evoluzione dell’uomo e può essere indagato attraverso lo studio delle differenze tra scimpanzé, bonobos e uomo. Un tempo considerato un tipo di scimpanzé, i bonobos sono ora noti per essere una specie diversa. Rispetto agli scimpanzé, i bonobos si distinguono per una minore aggressività: i bonobos femminili formano forti coalizioni, in parte basate sul sesso tra loro, che tengono sotto controllo la violenza maschile e poiché le femmine gestiscono le cose, i maschi non le attaccano, e anche la violenza tra maschi è estremamente limitata. I bonobos mostrano anche gli altri tratti comuni alla sindrome da addomesticamento, che suggerisce – come nel caso delle volpi – un’ampia dinamica genetica.

Andando però oltre ai motivi genetici ed evolutivi, Wrangham fornisce una spiegazione distintiva di tale divergenza nel comportamento tra scimpanzé e bonobos, proponendo una visione ecologia secondo cui, nel corso di molte generazioni, le realtà ecologiche creano un comportamento specifico per specie. Nel caso dei bonobos, egli suggerisce, un habitat lussureggiante in cui erano protetti dalla concorrenza di scimpanzé o gorilla, ha offerto loro la possibilità di diminuire la propria aggressività reattiva. Al centro della sua argomentazione, inoltre, l’idea che l’uccisione cooperativa di individui incurabilmente violenti ha giocato un ruolo centrale nell’auto-domesticazione. Così come gli scienziati russi avevano dunque eliminato i cuccioli di volpe feroce dal pool di riproduzione, i nostri antenati avrebbero ucciso uomini colpevoli di ripetuti atti di violenza.

L’idea è intrigante, ed è vero che i cacciatori-raccoglitori umani a volte eliminano collettivamente i cattivi attori. Ma tali azioni sono rare, come ha sottolineato l’antropologo canadese Richard Lee. Potrebbe esserci invece un’altra strada che ha consentito la selezione di questo tratto per vincere l’ aggressività: la scelta femminile. La logica evolutiva suggerisce che le giovani donne e i loro genitori, scegliendo compagni meno violenti di generazione in generazione, potrebbero fornire una pressione di selezione costante verso un’ aggressività reattiva più bassa – una pressione più forte di quanto possano fare i rari drammi di pena capitale.

Per concludere dunque con le parole di Wrangham:

L’ aggressività reattiva ridotta deve essere accompagnata da intelligenza, cooperazione e apprendimento sociale come fattore chiave per la nascita e il successo della nostra specie.

 

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Laura Stefanoni
Laura Stefanoni

Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale

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