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L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks e la storia di Thompson: se solo tacessimo per un istante

L’uomo che scambiò sua moglie con un cappello di Oliver Sachs racconta tante storie umane che ci toccano profondamente e ci fanno riflettere..

Di Lorenzo Bertuzzi

Pubblicato il 08 Gen. 2019

Aggiornato il 04 Ott. 2019 14:03

Di recente mi sono imbattuto in un libro, molto divertente e profondo, un piccolo best-sellers della bibliografia psicologica. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks. Un libro pieno di storie che, prendendo in prestito la scusa inusuale della patologia neurologica, consegna a noi fortunati lettori un affresco variopinto e folle di umanità.

 

Ci troviamo tante umanità diverse, assurde, esasperate, che Oliver Sacks ha raccolto in anni di attività clinica e ha voluto raccontare, cercando di trovare attraverso ciascuna, al di là del contingente ammasso neuronale compromesso e di volta in volta responsabile, un respiro universale di riflessione su ciò che siamo, su ciò che di meraviglioso, misterioso e terribile comporta l’essere uomini.

Alla ricerca di quella essenza che dimora, imperscrutabile, oltre i deficit e le sindromi, oltre la pretenziosa scientificità delle diagnosi e delle categorizzazioni, invisibile a qualsiasi strumento di valutazione.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: la storia di Thompson

I nostri test, i nostri approcci, pensai osservandola lì sulla panchina, in muto godimento di uno spettacolo naturale che lei sentiva come sacro, le nostre valutazioni sono ridicolmente insufficienti. Ci rivelano solo i deficit, non le capacità; ci forniscono solo dati frammentari e schemi, mentre abbiamo bisogno di vedere una musica, un racconto, una serie di azioni vissute, un essere che si comporta spontaneamente nel suo modo naturale.

Tra le tante storie, una più delle altre mi è sembrata toccante. Leggendola sono riuscito a respirare lo stesso pathos, la stessa tensione drammatica che deve avere stravolto Sacks quando la visse sulla propria pelle, e che egli è riuscito a infondere con sincerità tra le pagine, facendo a tratti librare il suo scritto oltre i confini della narrazione, verso le vette della lirica e della poesia.

La storia racconta di William Thompson, un ragazzo americano con ettolitri di alcol alle spalle, colpito dalla sindrome di Korsakov. Quando Sacks lo incontra e comincia ad occuparsi di lui, egli è già un individuo disintegrato, frantumato da un’amnesia feroce e fulminea, che costantemente distrugge il suo senso di continuità, di esistenza protratta nel tempo. Il suo passato è un cimitero popolato di pochi e pallidi fantasmi, il suo presente è un caotico guazzabuglio di frammenti impossibili da legare.

Sacks rimane subito colpito, quasi ferito, dall’ambivalenza che William trasmette a chi gli è vicino. Egli è, superficialmente, un comico nato, un intrattenitore instancabile, che nella sua disperata ricerca di sé stesso si aggrappa agli appigli che la realtà gli offre, provando a ricostruire con vorticosa foga e rapidità degli striminziti segmenti di identità.

Il tassista con cui parlammo in seguito, disse di non aver mai avuto un passeggero così simpatico. Il signor Thompson gli aveva raccontato una storia dopo l’altra, storie personali straordinarie, piene di avventure fantastiche.

Il delirio di Thompson

La realtà e il senso gli sfuggono subito dalla mente, così egli si ritrova ad essere, nello stesso discorso, nello spazio brevissimo di pochi secondi, intrappolato tra nugoli di identità bislacche e troncate, prigioniero di volti e nomi privi di sostanza. Egli abita un mondo di istantanee che si rincorrono freneticamente senza lasciare alcuna traccia sensibile dietro il loro passaggio.

Lì sostituiva con questa strana e delirante quasi-coerenza, e con il suo fuoco di fila di invenzioni sempre nuove, incessanti, inconsce, improvvisava di continuo un mondo intorno a sé.

Il dramma che Sacks avverte, che lo scuote alle fondamenta, non resta ancorato alla mancanza di senso e memoria che affligge William, ma si annida e raccoglie soprattutto nel disperato affanno, nella furia stremata che accompagna la sua rincorsa.

E in effetti egli non può smettere di correre, poiché lo squarcio nella memoria, nell’esistenza, nel significato non si risana mai, ma deve essere valicato, deve essere rattoppato a ogni istante.

La parte più recondita, segreta e senza voce di William, probabilmente, è in grado di avvertire il dolore che sanguina da quello squarcio. Ma William non lo può sopportare e di conseguenza, vedere. Egli costantemente lo rifugge attraverso il suo tentativo estenuato di “essere qualcosa”. Ma è proprio il suo sistema protettivo di confabulazioni che finisce per allontanarlo sempre di più dal contatto con la sua essenza umana, da quel doloroso e spaventoso reale che ancora potrebbe resistere di sotto allo smarrimento.

Paradossalmente, allora, il grande talento di William per la confabulazione è anche la sua condanna. Se solo tacesse per un istante, viene da pensare, se solo potesse arrestare quell’insulso blaterare: se solo potesse rinunciare all’ingannevole superficie delle illusioni – allora sì che la realtà potrebbe scendere in lui, che qualcosa di autentico, qualcosa di profondo, di vero, di sentito potrebbe penetrare nella sua anima.

Emblematico è in tal senso, l’incontro con il fratello di William, Bob, che Sacks racconta con una penosa estraniazione. Di fronte a “qualcosa di vero” che prova a intrufolarsi e a varcare le fortezze turbinose e volanti del delirio e che prontamente viene ricacciato al di fuori, si sente vacillare la fiducia dell’autore nella concezione vitalistica che sino a quel momento l’aveva sorretto.

“Ecco là mio fratello Bob”…Niente nel tono o nei toni di William, nello stile esuberante, ma sempre uguale e indifferente del suo monologo, mi aveva preparato alla possibilità di, della realtà…Egli non trattò il fratello come “reale”, non mostrò alcuna reale emozione, non fu minimamente orientato nel suo delirio, né da esso distolto; anzi, trattò istantaneamente il fratello come irreale, cancellandolo, perdendolo, in un ulteriore vortice di delirio.

Sembra quasi volersi arrendere, questo neurologo dal volto umano. Nel confronto ideale con Hume che attraversa tutto il libro, sente incombere su di lui lo spettro di quella odiata schiuma humeana fluttuante senza scopo sulla superficie della vita, e stavolta teme, per davvero, di uscire sconfitto. La mancanza di anima che egli percepisce in William, diventa una epidemia mortale che mette a repentaglio la possibilità di un’anima in ogni individuo. La sua assoluta impenetrabilità al vero, rimette in discussione l’esistenza di ogni verità umana che possa trascendere le contingenze meccaniche delle percezioni, delle emozioni e del pensiero astratto.

La pace per Thompson

Alla fine Sacks riuscirà a trovare qualcosa. Niente più di uno spiraglio, un minuscolo appiglio di redenzione a cui aggrappare la sua fiducia nell’umanità. Egli si accorgerà che William, sottratto all’estenuante stimolazione della società degli uomini e restituito ad una dimensione di muto contatto con il mondo naturale, riesce a sua volta a spegnersi, ad acquietarsi. Certo, non c’è in questo nessun miracoloso presagio di salvezza, solo un respiro corto di sollievo nel vedere la disperazione di quella corsa stemperarsi per qualche istante.

Ma quando vi rinunciamo e lo lasciamo tranquillo, a volte egli va a passeggiare nel giardino che circonda la clinica, un luogo calmo e privo di stimoli e lì, in pace, egli ritrova la propria pace. La presenza degli altri, della gente lo eccita, lo esalta, lo costringe ad un chiacchiericcio interminabile, a un vero e proprio delirio di creazione e di ricerca di identità; la presenza delle piante, la quiete del giardino, con il suo ordine non umano che non gli impone obblighi umani o sociali, fanno sì che questo delirio d’identità possa allentarsi, possa placarsi.

Questa storia, a leggerla tra le pagine del libro, commuove. Il dramma di William si rifrange e diffonde attraverso la soggettiva di Sacks e diventa nostro, in maniera amplificata, a tratti persino esasperata. Ma c’è pure qualcos’altro, credo, che ci rende così partecipi di questa vicenda, che smuove dentro di noi un senso strano di appartenenza. Forse sentiamo il destino di William intrecciarsi con il nostro perché il suo dramma, la sua patologia potrebbe essere, con le dovute proporzioni, la patologia del tempo che viviamo, come fu l’isteria nella lontana Vienna di fine 1800.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello: stiamo diventando come William?

La nevrosi è strettamente collegata al problema del tempo e configura un tentativo fallito dell’individuo di risolvere in se medesimo il problema generale.

La società collegata in cui siamo immersi è, o perlomeno sta diventando, il non-luogo della comunicazione esasperata, incessante, del chiacchiericcio interminabile. Per apparire e per esistere siamo costretti a comunicare e chi non comunica si rassegna a scivolare invariabilmente ai margini, nel limbo grigio della non esistenza. Il mondo che viviamo assume sempre più i tratti del terribile universo che schiaccia William, con la sua sovrastimolazione ci eccita, ci esalta e infine ci piega, costringendoci ad inseguirlo nella sua corsa dissennata e nel suo sproloquiare, per provare anche noi ad esistere, ad “essere qualcosa”.

E alla fine che ci ritroviamo ad essere? Sostanzialmente, come William, dei Confabulanti.

Come lui sentiamo la fatica del definirci, nel mettere organicamente insieme i pezzi del nostro passato e del nostro futuro, troppo velocemente le immagini, le parole e i volti ci scorrono davanti. E lo sforzo che facciamo per rincorrere un’esistenza, un’identità, è paradossalmente ciò che finisce per allontanarci ancora di più da quell’imperscrutabile essenza, dal reale che dimora sotto lo smarrimento. Che necessita tempo, resistenza e fatica per essere esplorato, che è difficile da trovare e da comunicare, che nello spazietto risicato di due righe su un social non ci può stare e che, con ogni probabilità, non interesserebbe comunque a nessuno. Così lo seppelliamo pure noi di un incessante blaterare e torniamo a tuffarci nelle finzioni teatrali di Whatsapp, di Instagram, di Twitter o di Facebook sperando, alle volte pregando, in un appiglio esterno di riconoscimento.

Potessimo almeno tacere, potessimo staccare la spina, sconnetterci, recuperare il contatto con la quiete del giardino. Ma, come ci insegna William, non è facile. Perché non è solamente perdendosi due ore nel silenzio maestoso di un bosco, in un weekend alla SPA o in uno chalet di montagna, in una corsetta sulla spiaggia o tra le pagine di un libro la sera, che possiamo sperare davvero di ritrovarci. Occorrerebbe ripensare e ridisegnare completamente il tempo della nostra vita, dei nostri incontri con l’altro e dei nostri silenzi. Recuperare lo spazio sacro della noia, del non aver niente da fare e nessun cicaleccio indistinto nelle orecchie, per poter semplicemente sprofondare nell’oceano frammentato dell’esistere, lasciando rifluire le immagini e le sensazioni che troppo lievi si celano sotto le pieghe della nostra coscienza e che continuamente soffochiamo con i nostri affanni quotidiani.

Occorrerebbe fare uno sforzo attivo, individuale e collettivo, per combattere ogni giorno la frustrazione inquieta che ci afferra quando proviamo a staccare dal mondo, a rallentare, a dare spazio a quelle parti di noi che solo attraverso un processo lento di introspezione, possono maturare e generare un modo diverso, più autentico, più vivido e più profondo, di percepirci e di vivere il contatto con il reale che ci circonda. Restituendoci, in ultima istanza, non solo una rinnovata capacità di definirci e di comprenderci, ma anche il senso propriamente umano del nostro esistere.

 

L’UOMO CHE SCAMBIO’ SUA MOGLIE PER UN CAPPELLO – LEGGI ANCHE:

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Sachs O. (1985), L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi.
  • Jung C.G. (1993), Opere. Vol.7: Due testi di Psicologia analitica, Bollati Boringhieri.
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