«Mangia! Altrimenti ti prendi un’anoressia!», protestava mia nonna quando cercavo di negoziare con lei la quantità – esagerata – di cibo che mi metteva nel piatto. Lo diceva convinta e io, vent’anni fa, la guardavo perplessa, con il dubbio che se non avessi mangiato tutto mi sarei presa quella strana malattia. Oggi, quando ci ripenso, mi viene da sorridere.
Al tempo stesso si aprono nella mia testa una serie di riflessioni. Per nome, questo disturbo sembra abbastanza conosciuto (lo conosceva persino mia nonna che era nata all’inizio del secolo scorso) e nell’immaginario collettivo delle persone mi sembra ci sia un’idea molto chiara, ma stereotipata, di chi ne soffre: donne che di punto in bianco decidono di mangiare pochissimo, per avere corpi più magri, in linea con gli standard mediatici, a cui poi la situazione sfugge di mano.
Anoressia: una storia al di là dei luoghi comuni
Se si apre il manuale diagnostico dei disturbi mentali alla voce anoressia e ci si sofferma a leggere i principali criteri diagnostici (restrizione dell’apporto energetico, intesa paura di aumentare di peso, anomalia nel modo in cui si percepisce il proprio corpo) si potrebbe essere indotti a credere che quell’immagine di donna, ossessionata dalla magrezza, possa essere la giusta rappresentazione. Tuttavia, questo significa soffermarsi solo sui sintomi, perdendo l’occasione di comprendere realmente questa malattia. L’anoressia è una malattia che può essere fatale, le diagnosi nel nostro Paese sono in aumento ogni anno, i racconti di persone coraggiose, che affrontano con la penna il ricordo di quei giorni di sofferenza, sono una testimonianza importantissima, che possono aiutare questa società distratta e poco incline a guardare oltre l’apparenza. Le loro storie sono un canale per esplorare da vicino questo mondo, fatto di persone che cercano di reprimere dolore, disagio, sentimenti ed emozioni, fino a farli scomparire in un corpo sempre più piccino ed invisibile.
Anoressia: la trama del libro
L’altalena è uno straordinario romanzo d’amore, di ispirazione autobiografica, che associa al racconto della malattia e della guarigione, una trama coinvolgente. Sullo sfondo intricato del traffico illegale dei diamanti africani, in cui è coinvolta la ricca famiglia Rey, leggiamo la storia della figlia, Chiara, che, tradita dal padre e dall’uomo che amava, si ammala di anoressia ed inizia il difficile percorso di cura con il dottor Salvi. Attraverso i flashback, che emergono durante il percorso psicoterapico, al lettore verrà svelata l’intera trama della storia ma verrà anche mostrato l’evolversi e lo sviluppo dell’anoressia, imparando così a conoscerla. Nel suo racconto Ursula ci mostra come un’anoressica cerchi disperatamente di nascondere il proprio disturbo e come reagisca qualora venga scoperta. La mortificazione del corpo non è un semplice desiderio di magrezza ma il tentativo disperato di cancellare un dolore che non trova modo di uscire dal corpo. Allo stesso modo, ci viene fatta capire l’importanza della terapia per ritrovare un nuovo equilibrio e per tornare ad amare sé stessi.
L’altalena è un racconto molto interessante che non parla solo di sofferenza. È un inno all’amore, verso chi ci ama ma anche verso se stessi. È un invito a proteggere il nostro cuore, custode immaginario dei sentimenti, dalle aggressioni esterne e, soprattutto, da quelle interne perché, come scrive Ursula, possiamo essere vittime ma anche i carnefici: noi stessi possiamo diventare i mostri da combattere, poi da nascondere ed infine far sparire. Per questo è importante capire e sforzarsi di andare oltre le apparenze. Non distogliere lo sguardo da chi si nasconde può essere il primo grande passo che possiamo fare per aiutare il mondo a cancellare questa malattia.