Da piccolo, avrò avuto tra i 5 e i 10 anni, mi trascinavano a comprare i vestiti (la biancheria immancabile regalo di Natale proveniva dalle bancarelle del mercato rionale) in un negozietto all’angolo di via Piave che si chiamava “La Madre di famiglia”.
Si andava lì sia perchè molto più economico dei grandi magazzini adiacenti (la lussuosa Rinascente di piazza Fiume con il suo avverinistico palazzo con le scale mobili, orgoglio della ricostruzione del dopo guerra che aveva aperto da poco) e sia perché i gestori regalavano ai clienti bambini un palloncino gonfiato con l’elio con il nome del negozio. Era esattamente per questo secondo motivo che si aggiungeva alla più generale insofferenza di ogni bambino alle prove degli indumenti, che cercavo in ogni modo di evitare “La madre di famiglia”.
Potrei proporre argute interpretazioni psicoanalitiche sulla mia avversione, collegando la perdita di mia madre e il nome del negozio. Sarebbe bello e commovente ma falso come una moneta da 3€. Non era ciò che mi dicevo allora almeno coscientemente, anzi quello era il tempo in cui dell’essere orfano di madre avvertivo soprattutto gli innumerevoli vantaggi sociali che mi hanno poi indirizzato alla efficace strategia relazionale del “poveretto me!!”.
Il fatto è che durante il percorso verso casa il palloncino legato con un filo al mio polso sinistro si librava guizzante proteso verso il cielo (talvolta il filo si spezzava e mi struggeva vederlo scomparire in quell’infinito azzurro dove mi dicevano, senza che li abbia mai creduti, si collocavano gioiosi tutti gli assenti insieme agli angeli, i babbi natali e le befane della compagnia del bambinello sempre vigilante e pronto a lacrimare ad ogni mia disobbedienza), ma una volta giunti a casa veniva staccato dal polso e raggiungeva il soffitto nello sgabuzzino in fondo al corridoio. Siccome spettava un palloncino per ogni capo di abbigliamento acquistato di importo superiore alle cinquemila lire a volte tornavo a casa anche con tre e persino quattro palloncini di colori diversi tanto più sbiaditi quanto più gonfiati e con la superficie tesa. Gagliardi si spalleggiavano affollandosi verso il soffitto ed immaginavo si tenessero compagnia l’un l’altro, soprattutto la notte con la luce spenta. Col passare dei giorni (metafora della vita?) perdevano turgidità, si ammosciavano e la superficie si increspava di rughe. La visione di questo progressivo avvizzimento mi procurava una melmosa malinconia in cui mi pareva di sprofondare specialmente al tramonto. Almeno due volte, mosso da pietas raggiunsi con uno sgabello il filo del palloncino più sgonfio – e dunque più calato degli altri- per porre fine con uno spillo da balia di nonna a quelle che reputavo le sue indicibili sofferenze. Ero evidentemente fin da allora favorevole all’eutanasia.
Quando compravo un nuovo disco in vinile a 45 o 33 giri lo facevo ascoltare a tutti gli altri che già avevo perché non si sentissero trascurati e lo accogliessero benevolenti tra loro. Procedura analoga quantunque più sbrigativa valeva anche per i libri: la presentazione si limitava alla lettura della copertina e ad un rapido sfogliare per tre volte le pagine in cui sarebbe stato facile intuire la tendenza ossessivo-compulsiva in seguito perfezionatasi.
Alle elementari durante la ricreazione la maestra Maria Eleonora Vincenti mi chiamava alla cattedra a raccontare una storia che dovevo inventare in diretta con due o tre elementi che mi forniva lei per tenere buoni gli altri bambini. Il giorno successivo la storia continuava come in una serie tv aggiustata secondo le richieste degli amichetti e soprattutto delle ragazzine più carine.
Dopo un intenso apprendistato autoerotico su zie, cuginette, domestiche e insegnanti con l’aiuto del catalogo di intimo di postal market e qualche esplorazione omosessuale, avevo quasi 15 anni quando la mia ragazza di allora venne a trovarmi accompagnata da un’altra compagna di classe al campo scout nel parco nazionale d’Abruzzo e, sperando che avrebbe dormito nella mia tendina canadese, mi feci insegnare a baciare da un altro caposquadriglia che millantava una maggiore esperienza, dimostratasi inconsistente la notte stessa proprio con la compagna di classe accompagnatrice. Della notte ho ricordi confusi quantunque vi abbia collocato convenzionalmente il mio primo rapporto sessuale (quante date fondamentali nel percorso di una vita e della Storia stessa sono di fatto convenzionali perché la maggior parte delle transizioni sono un continuum senza soluzioni e gradini netti). Molto più nitida è l’immagine della lambretta 125 bianca con l’odore della miscela al due per cento che mio padre mi comprò a patto che lasciassi quella ragazza che giudicava una poco di buono. Cedetti immediatamente al ricatto ma poiché non mi sembrava corretto rispettare gli accordi con un bieco ricattatore utilizzai poi la Lambretta stessa per andare più rapidamente da lei. Non insegnano anche i “Promessi sposi” che persino i voti fatti alla Vergine non sono validi se assunti in stato di necessità?
Il giorno della mia laurea in pieno luglio sono stato rimandato dalla commissione a cambiarmi perché non ero in giacca, tornato a casa ho indossato un abito invernale di mio padre e sono dovuto tornare in università a piedi di corsa perché era finita la miscela nella suddetta lambretta.
Ma tutto quanto scritto sopra sarà vero o è solo nella mia fantasia?
Potrei continuare pagine e pagine con brandelli di ricordi tutti rappresentati con sequenze di parole ma privi di componenti sensoriali ed emotive e inoltre cronologicamente completamente confusi. Macchie oleose confuse e mutevoli galleggianti in un mare di amnesia che mi fa dubitare di aver fatto le elementari e persino il liceo. Ad esempio neppure un piccolo barlume riguardo all’esame di maturità che sento dire ricorra non di rado nei ricordi e persino nei sogni di molti. Dell’ingresso alla scuola di specializzazione o del primo giorno di lavoro a Civita Castellana ricordo il racconto che tante volte ne ho fatto ma nulla di più tangibile o sensoriale. Questo oblio mi insegue. Angosciato lo sento sempre più sopraggiungere al galoppo alle mie spalle e l’allarmante deterioramento cognitivo ovviamente non aiuta. Inghiotte vorace ogni cosa e trasforma in fantasmi inodori, insapori e inconsistenti luoghi, avvenimenti e persone. L’incalzare dell’oblio lo sento più veloce dello scorrere del tempo ed ho il timore che ad un certo punto metta la freccia, mi sorpassi e divori anche il presente. Forse sarà questa la demenza: la working memory di un pesce rosso che ci appiattisce in un’unica dimensione di presente puntiforme e assoluto in cui è rappresentato solo l’ultimo bite informativo. Non è detto che sia poi così male, vedremo!
Sono convinto che la verità sia enormemente sopravvalutata.
Ho sempre detto un sacco di bugie, alcune per perseguire i miei scopi e dunque avere dei vantaggi, e queste mi sembrano le più “ sane” e persino indice positivo di una buona costruzione della mente altrui e delle strategie per manipolarla. Altre per esaltare la mia immagine agli occhi degli altri e soprattutto ai miei. Ricordo da ragazzino che raccontavo di avere una flotta di piccoli aerei telecomandati che facevo volare in formazione su tutta l’Italia. Il loro utilizzo era direttamente proporzionale alle frustrazioni reali. Erano né più né meno che delle fantasie consolatorie come quella che immaginavo nel mio letto se una giornata era stata particolarmente dolorosa. Quella in cui ero un pilota di formula uno che, costretto a partire in ultima fila e con il muletto per le ingiustizie degli arbitri di pista, vinceva il gran premio sebbene si fosse fermato due volte a far pipì a bordo pista ed una volta persino per un picnic.
Credo che per queste mi meriti la diagnosi ormai poco usata di “pseudologia fantastica” o “ mitomania” o “ bugiardo patologico” considerato che la pseudologia fantastica è una categoria nosografica descritta per la prima volta da Anton Delbrück nel 1891, caratterizzata dal ricorso abituale alla bugia che può riguardare i più disparati eventi o argomenti (per esempio: luoghi diversi, avventure galanti, situazioni improbabili, ecc.), talora amplificati parossisticamente fino a raggiungere gradi altissimi di inverosimiglianza. Viene giudicata un prodotto diretto dell’immaginazione le cui caratteristiche principali sono:
- Le storie raccontate sono di solito avvincenti e fantasiose, ma non vanno mai oltre la realtà. La possibilità di verità è la chiave di sopravvivenza del bugiardo patologico.
Durante il confronto il bugiardo patologico può ammettere che le storie non sono vere, anche se controvoglia e vergognandosi un po’ mentre si arrampica sugli specchi per giustificarsi, il che lo porta a sviluppare notevoli doti dialettiche - La tendenza ad inventare storie è cronica; non è provocata dalla situazione immediata o da pressioni sociali, ma più da un innato tratto della personalità.
Un motivo totalmente personale, e non esterno, serve a discernere la patologia clinicamente: es., situazioni pericolose o di stress possono indurre una persona a mentire ripetutamente, ma in questi casi non si può considerare patologico - Le storie raccontate tendono a dipingere come positiva la persona del narratore. Il bugiardo “decora la sua stessa persona” raccontando storie che lo presentano come eroe o come vittima. Per esempio, la persona si presenta nelle storie come estremamente coraggiosa, dice di conoscere persone importanti e famose o di guadagnare più soldi di quanti ne guadagni in realtà. In un verso o nel verso opposto comunque “esagera”.
Un ulteriore motivo del mio mentire che peraltro lo giustifica ai miei occhi come un semplice adeguamento per meglio comunicare è il bisogno di ingigantire i fatti per renderli all’altezza dell’intensissima emozione che mi hanno suscitato e che altrimenti l’interlocutore non capirebbe. E’ come se per far davvero capire il mio vissuto interiore, ciò che più conta, debba ingigantire i fatti per renderli ad esso proporzionali. Si tratta dunque di ricercare una comunicazione davvero autentica e sincera attraverso la menzogna.
Al di là delle diverse cause che giustificano il mentire, una delle conseguenze più allarmanti è che non riesco più a distinguere il vero dal falso, ciò che è davvero accaduto da ciò che ho e mi sono raccontato. Inizio ad avere il dubbio che proprio la circostanza che alcuni fatti sembro ricordarli sia la prova certa della loro irrealtà e costruzione per via della pseudologia fantastica mentre la realtà vera sia l’assoluto nulla. A volte mi chiedo se sia mai nato o tutto questo sia il farneticare di un feto ancora al calduccio nel ventre materno.
In questo vuoto pneumatico della mia esistenza che cresce con l’aumentare dell’età si espande rigogliosa la tendenza alla confabulazione, sintomo frequente in alcune malattie psichiatriche, dovuto alla falsificazione dei ricordi per cui il malato colma lacune di memoria con invenzioni fantastiche e mutevoli, oppure trasforma in modo non intenzionale i contenuti della memoria stessa. E’ frequente in alcune forme di schizofrenia, nella sindrome di Korsakov, nella lue cerebrale, durante l’uso di droghe e nella sindrome da astinenza da esse (la totale sospensione di ogni forma di alcolico non ha per nulla mutato la situazione). Nella demenza senile è associata a falsi riconoscimenti di persona, perché è assente la memoria dei fatti recenti: ai ricordi perduti il paziente sopperisce con invenzioni fantastiche.
La confabulazione subentrante, intrecciandosi con la preesistente pseudologia fantastica, crea non pochi problemi di diagnosi differenziale quantunque entrambe non siano che due obbedienti orchestrali agli ordini del direttore d’orchestra: il maestro “narcisismo”.