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Accontentarsi, lamentarsi o andare da un consulente psicologico? – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr 28

Una certa dose di insoddisfazione è funzionale e fisiologica in quanto segnala che qualcosa non va e ci spinge a migliorare. Per chi si occupa di sofferenza emotiva è necessario chiedersi come conciliare una serenità che rischia di essere stagnazione con un attivismo insoddisfatto e rabbioso.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 04 Lug. 2018

L’ insoddisfazione e la rabbia sono direttamente proporzionali al gap percepito tra la propria condizione e le aspettative che si hanno. Solo con questo confronto, un’assenza si trasforma in una mancanza e mentre l’assenza è inconsapevole e non fa male, la mancanza lo è e duole.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Accontentarsi, lamentarsi o andare da un consulente psicologico? (Nr. 28)

 

In un articolo sull’Internazionale di gennaio 2017 veniva esaminato il crescente allarmante sviluppo degli egoismi nazionalisti, populismi pronti ad essere cavalcati da leader populisti sanguinari e ottusi (esperienza già drammaticamente vissuta in Europa nel secolo scorso e da cui credevamo di essere definitivamente vaccinati).

Una prima spiegazione proposta mira a riconsiderare la sottovalutata pulsione di morte che intuita e descritta dai pensatori che avevano conosciuto le due guerre mondiali, è stata poi trascurata per la sua apparente incompatibilità con il paradigma scientifico positivista imperante dell’evoluzionismo. Indubbiamente la pulsione di morte ben si presterebbe a dar ragione ad una serie di comportamenti umani patologici altrimenti inspiegabili, ma rischierebbe di essere usata come ipotesi ad hoc buona per ogni occasione. Consapevoli che l’argomento meriterebbe una ben più approfondita riflessione, lo accantoniamo per ragionare, invece sull’altra causa cui l’articolo accenna.

La tesi, in buona sostanza è questa: la gente anche prima stava male, e forse anche peggio di adesso, ma la globalizzazione e l’informazione hanno fatto scoprire che ci sono molti che stanno molto meglio, e dunque è possibile e lo si può volere.

Ho nella mente e negli occhi persone di molti anni fa che vivevano in condizioni quasi di schiavitù e che tuttavia ritenevano giusta e naturale tale condizione e non finivano di ossequiare i loro padroni. Le cose stavano così ed era giusto fosse così. Loro soggettivamente stavano bene: benessere e felicità solo soggettivi possono essere e ad essi dobbiamo puntare in questo breve transito nella vita.

In effetti, l’ insoddisfazione e la rabbia sono direttamente proporzionali al gap percepito tra la propria condizione e le aspettative che si hanno. Solo con questo confronto, un’assenza si trasforma in una mancanza e mentre l’assenza è inconsapevole e non fa male, la mancanza lo è e duole. Chi non ha mai fumato non soffre per la mancanza di tabacco (personalmente la pubblicità di una nota pasta partenopea che dice “se non la provi non sai cosa ti perdi” mi induce a starne assolutamente alla larga per non trasformare appunto un’assenza in una mancanza). Si può desiderare ogni cosa, ma il desiderio frustrato che duole è possibile solo verso ciò che si è conosciuto e perduto.

L’articolo lascia intendere che non sono tanto le situazioni di povertà attuali, peraltro meno gravi di quelle del passato, a far montare lo scontento e la rabbia, quanto piuttosto l’accresciuta aspettativa di benessere e soprattutto di uguaglianza.

Questa crescente aspettativa di benessere ha generato nuovi campi di intervento in grande sviluppo. Si pensi al desiderio degli anziani di una vita attiva, in salute e densa di soddisfazioni o alle richieste di tutti ed in particolare delle donne di una migliore vita sessuale che si sa essere possibile, auspicabile e dunque la si pretende. Allo stesso modo, molta rabbia presente in pazienti e familiari dei malati mentali è nata da certi miti dell’antipsichiatria che hanno illuso che la malattia mentale non esista e sia completamente risolvibile.

Il desiderio dunque è elemento positivo da coltivare soprattutto nel suo versante motivazionale piuttosto che valutativo della mancanza o della perdita e va incarnato in un progetto di fattibilità realistico che tenga conto delle risorse personali e ambientali.

Un tale discorso, soprattutto se riferito alle popolazioni rischia di essere estremamente pericoloso perché sembra suggerire di mantenere le masse nell’ignoranza e trascura il fatto che il progresso dell’umanità è sempre mosso dall’ insoddisfazione per la situazione presente ed utilizza spesso la rabbia come motore. Senza aspettative gli uomini sarebbero serenamente ancora nelle caverne. Del resto anche nella vita individuale l’ insoddisfazione sta a segnalare che c’è qualcosa che non va e appunto potrebbe andare meglio e spinge ad operare per migliorare.

Dunque una certa dose di insoddisfazione è fisiologica e funzionale e cessa solo in condizioni di Nirvana o di morte. Dall’altra parte c’è tutta una tradizione secondo cui “chi si accontenta….gode”.

Per chi si occupa di sofferenza emotiva è necessario chiedersi come conciliare una serenità che rischia di essere stagnazione e abulia con un attivismo insoddisfatto e rabbioso. Se la constatazione di ciò che non va è utile per attivare un cambiamento positivo non è necessario che essa sia troppo carica di insoddisfazione che può paradossalmente deprimere e dunque essere paralizzante. Lo stesso l’energia necessaria al cambiamento non necessariamente deve connotarsi come rabbia nella presunzione di un torto subito. L’ insoddisfazione, per essere utile, deve dunque non essere a 360° sulla propria condizione e su se stessi, ma deve identificare aspetti specifici e limitati che possano essere oggetto di cambiamento. Lo stato desiderato a cui tendere, a sua volta deve essere ben definito e ragionevolmente perseguibile. Insomma come recita la preghiera della serenità di Reinhold Niebuhr:

Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
 il coraggio di cambiare le cose che posso, 
e la saggezza per conoscere la differenza.

I rischi che vanno scongiurati sono dunque da un lato un’accettazione passiva e inerme dell’attuale, dall’altro una cronica insoddisfazione rabbiosa altrettanto paralizzante.

Non bisogna dimenticare che non è nostro compito cambiare il mondo, mentre forse lo è quello di essere felici in quest’unica vita che abbiamo; il che certamente implica di cambiare almeno lo spazio a noi più prossimo e la nostra relazione con esso.

Spesso i terapeuti si lamentano di non sopportare i pazienti che, appunto, si lamentano.

È noto l’aneddoto dei marinai genovesi (e dico genovesi) che rifiutarono l’aumento della paga pur di non rinunciare come chiedeva l’armatore, al cosiddetto “diritto al mugugno”, che può essere visto anche al contrario sottolineando come l’armatore (anch’esso genovese) fosse disposto a pagare pur di far cessare le lamentele.

Perché gli umani si lamentano e perché ciò da tanto fastidio agli altri?

Ipotizzo che la lamentazione sia una forma attenuata, domestica, consentita dell’ insoddisfazione rabbiosa di cui abbiamo trattato in precedenza. Lagnarsi con gli altri è una sorta di richiesta di aiuto individuale e anche una richiesta di solidarietà mirante a trasformare un’ insoddisfazione personale in una rivendicazione collettiva. Mi piace immaginare che la presa della Bastiglia e il ruzzolare nel cesto di qualche testa coronata siano iniziate in una bettola sulla riva della Senna per la scarsa qualità del vino a confronto dei nettari pregiati serviti alla tavola reale che si favoleggiava accompagnassero i croissant di Maria Antonietta. Quindi lamentarsi è un modo accettato di manifestare la propria insoddisfazione e la propria rabbia (in effetti nella sua perseveranza e monotonia c’è indubbiamente qualcosa di aggressivo).

L’interlocutore a cui è rivolta la lamentazione sperimenta spesso un vissuto di impotenza di fronte all’altro inconsolabile e nel caso di caregiver (che si tratti di genitori, di psicoterapeuti o di altre professioni di cura) viene sperimentata come una pesante invalidazione del proprio ruolo, o missione o persino identità. Con il lamento è come se il soggetto dicesse al suo care giver “vedi che non sei buono a nulla? la mia sofferenza è una misura precisa della tua incapacità”. Questo vissuto è una delle più importanti cause del fenomeno del burnout, tipico delle professioni di cura, e talvolta motivo di atteggiamenti negativi del cosiddetto controtransfert del curante.

 

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