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Siamo sempre più sensibili, ma sempre meno tolleranti e maniaci del controllo: cosa è successo a Bessel van der Kolk

La notizia del licenziamento di Bessel van der Kolk dal centro che lui stesso dirigeva ci scatena diverse emozioni ed alcune riflessioni rispetto a quanto vediamo succedere, quotidianamente, intorno a "scandali" di questo tipo. La sensibilità sta diventando educazione forzata?

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 11 Giu. 2018

Da decenni il lavoro di Bessel van der Kolk è fondamentale per capire gli effetti del trauma sulla vita delle persone. Quali riflessioni possiamo fare apprendendo che è stato licenziato dal Trauma Center del Justice Resource Institute, che dirigeva, in seguito a denunce per maltrattamento e bullismo?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su linkiesta il 21/05/2018

Il nome Bessel van der Kolk probabilmente non dirà molto ai lettori, eppure la sua storia ci racconta qualcosa su quello che ci sta accadendo negli ultimi anni. Van der Kolk è uno psichiatra di Boston noto per le sue ricerche nel campo del disturbo post-traumatico da stress sin dagli anni ’70. Da decenni il suo lavoro scientifico è fondamentale per capire gli effetti del trauma sulla vita delle persone. Il suo libro più importante, il successo di vendite “The Body Keeps the Score”, descrive come il cervello sia modellato dalle esperienze traumatiche e come tale conoscenza possa essere integrata nelle pratiche psicoterapeutiche. Il libro è stato pubblicato anche in italiano col titolo “Il corpo accusa il colpo”. E anche tra noi è stato un successo di vendite.

In seguito alle ricerche di Van der Kolk la consapevolezza e la conoscenza dell’influenza delle esperienze traumatiche sul benessere psichico si sono enormemente ampliate. Non solo il cervello ma perfino il corpo sono rimodellati radicalmente dal trauma. Le ricerche di Van der Kolk sull’istinto di sopravvivenza spiegano come le persone traumatizzate sperimentino un’ansia e una rabbia intollerabili, come sia degradata la loro capacità di provare benessere e come sia accentuata quella di percepirlo violentissimamente nella carne del proprio corpo.

Tutto questo è scienza, scienza rigorosa e confermata. Tuttavia è anche cultura, ed è anche grande cultura. Una cultura che ci permea sempre di più, rendendoci sensibili al trauma, nostro e altrui. Malgrado alcune notizie sembrino dirci il contrario, la nostra è un’età altruistica ed empatica, desiderosa di comprendere la sofferenza degli altri e soprattutto dei deboli. Ben prima delle ricerche di Van der Kolk nelle religioni e in letteratura si era propensi a comprendere le ragioni della vittima e del debole. Concepire la vittima come un traumatizzato è il coronamento scientifico di una sensibilità che nasce con i bambini trascurati e maltrattati di Dickens o ancora prima, fino a risalire al trauma della crocifissione o a quel che volete.

In questi giorni uno sfortunato accidente ha colpito Van der Kolk nel luogo che dirige, il Trauma Center del Justice Resource Institute (JRI) di Boston, una organizzazione senza scopo di lucro che fornisce servizi di salute mentale agli svantaggiati. Il 7 marzo il Boston Globe ha riportato che il JRI ha licenziato Van der Kolk in seguito alle denunce per maltrattamento e bullismo che lui avrebbe perpetrato ad alcuni operatori del suo staff.

Le riflessioni che un simile evento possono ispirare sono a mezza strada tra la nobile pietà, l’umana preoccupazione, l’infantile curiosità e infine un’emozione più confusa e indecifrabile, che confesseremo in seguito. La pietà la proviamo prendendo atto che nemmeno le persone più consapevoli della traumaticità del comportamento umano violento -e chi dovrebbe essere più consapevole di Van der Kolk?- sembrano essere in grado di non cadere in quel peccato originale. La preoccupazione ci colpisce di fronte al timore opposto, il timore di una possibile caccia alle streghe che ormai rischia di non risparmiare più nessuno, timore che nasce quando leggiamo l’elenco molto lungo di colleghi di lavoro che hanno dichiarato innocente Van der Kolk. Stiamo diventando una società così desiderosa di difendere la vittima da accettare il rischio di condannare eccessivamente qualunque comportamento meno che appropriato? Dal quel che si capisce, Van der Kolk sembra essere colpevole di un’eccessiva propensione alla rabbia. Un tempo lo si sarebbe definito un tipo scorbutico. Se è così, gli aspetti penali delle sue sfuriate saranno probabilmente futili e si sgonfieranno; intanto però è stato licenziato dal JRI, o almeno così pare.

E si finisce con il sentimento peggiore, che sarebbe bene non nominare: la shadenfreude. Con questo termine i tedeschi nominano un sentimento più inconfessabile dell’invidia: il piacere per le disgrazie altrui. Intendiamoci, non vi è alcun piacere nell’apprendere che un collega ha subito un brutto infortunio. Anzi, si provano pietà e preoccupazione. Quella piccola lucetta ignobile che si accende accanto a queste due più decorose luci va repressa e confessata solo per un attimo e solo perché forse c’è qualcosa da imparare anche dal fango che ci sporca il cuore. Perché è vero che il merito –o la colpa- di aver innalzato l’asticella dei comportamenti accettabili è anche delle trentennali ricerche scientifiche di Van der Kolk, le quali si sono fatte non solo scienza ma anche cultura e costume morale. Se siamo tutti molto più sensibili al minimo sgarro è un bene per il vivere civile e la buona educazione. Al tempo stesso però molti (e molte, è proprio il caso di usare anche il femminile ora più che mai) di noi sono un po’ infastiditi (e infastidite) e preoccupati (e preoccupate) da un ideale che sembra sempre più difficile da rispettare e che rischia di imbalsamare i rapporti umani in una impersonale buona educazione. E fosse solo questo, passi; ma se si aggiunge il rischio di essere denunciati il malumore aumenta e i rapporti umani s’improntano sempre più a un’estrema prudenza e a un soffocante controllo reciproco. La conseguenza è che il giorno in cui questi fastidi finiscono per colpire Van der Kolk, a suo modo uno degli apostoli di questa nuova grande sensibilità all’offesa, per un attimo e solo per un attimo proviamo il guilty pleasure di vedere il prete sul pulpito colto con le mani nel sacco del peccato. Dopodiché torniamo rapidamente a ricomporci, decisi (e decise) ancora più di prima a comportarci sempre meglio, sempre più educatamente. Sempre più perfettamente.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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