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L’ospedalizzazione dell’anziano: conseguenze e possibili interventi

L' ospedalizzazione dell' anziano può comportare un declino in termini di funzionalità e autonomia e stati di delirium, ma vi sono interventi preventivi

Di Roberta Sciore

Pubblicato il 20 Ott. 2017

Aggiornato il 28 Mar. 2019 13:47

Ospedalizzazione dell’ anziano: I dati epidemiologici mostrano come pazienti anziani con una buona valutazione all’ingresso del periodo di ricovero ospedaliero e con diagnosi non riconducibile a patologie direttamente collegate alla riduzione della funzionalità (ad esempio polmonite batterica o infezione alle vie urinarie) mostrano poi, al momento delle dimissioni, una diminuzione generale molto pronunciata della stessa valutazione (Covinsky et al., 2003, Mudge et al., 2010). 

Roberta Sciore, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

L’aumento della popolazione anziana nella società odierna

Nel corso dello scorso secolo, la durata media della vita nei paesi industrializzati è raddoppiata. Nel mondo, la percentuale di popolazione con più di 60 anni è passata dal 9,2% nel 1990, all’11,7% nel 2013 e continuerà a crescere, tant’è che si stima che raggiungerà il 21,1% entro il 2050. In quel frangente, il numero complessivo di persone anziane presenti arriverà ad una cifra massimale di 2 miliardi. Stime di proiezione, considerando le traiettorie medie delle varie nazioni, sottolineano come il numero di persone anziane con condizione di disabilità variabile arriverà nel 2047 a superare per la prima volta il numero dei bambini con meno di dieci anni (United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, 2013).

Mentre complessivamente si vive mediamente più a lungo, la presenza di malattie croniche e di disabilità acquisite sono in aumento proporzionale all’invecchiamento della popolazione. Questa trasformazione ingravescente sta creando in modo sempre più pervasivo ed urgente nuove sfide sotto ogni aspetto (sociale, politico, economico e culturale), con notevoli implicazioni per l’assistenza sanitaria. Una così pronunciata richiesta impellente in termini di costi, numeri e durata nel tempo risulta essere una novità assoluta non solo per le istituzioni quanto anche per l’intera specie umana. Le persone anziane sono definite “fragili”, nei termini di possedere un grado acuito di vulnerabilità maggiore rispetto alle altre porzioni di popolazione.

Tale vulnerabilità assume una dimensione caratterizzante se viene ricondotta allo stato di salute e alla richiesta di assistenza sanitaria a vari livelli di strutturazione negli istituti ospedalieri. La medicina e le professioni di aiuto nel loro insieme dedicano uno sforzo significativo per favorire una buona qualità di vita agli anziani. In tale dimensione rientra sicuramente la possibilità per la persona che invecchia di mantenere la propria autonomia più a lungo possibile. Vista la rilevanza, tale aspetto viene anche spesso utilizzato come misura di outcome e di indicatore di una buona prestazione sanitaria (Balfour et al., 2001).

Inoltre il prolungamento degli anni, in cui la persona riferisce una buona qualità di vita con livelli di disabilità minime, è anche considerato un obiettivo prioritario per chi si occupa di salute, non solo per i costi sociali ed economici che una condizione di non autonomia comporta, quanto anche per le ripercussioni nelle dimensioni psicologiche e di relazione sociale (Manicuci et al., 2011). Sono stati identificati diversi fattori che possono causare una condizione di acquisita non autonomia tra i quali uno dei più pervasivi e significativi risulta essere l’ospedalizzazione acuta (Boyd et al., 2008, Colón-Emeric et al., 2013).

L’ ospedalizzazione dell’ anziano: possibili conseguenze negative

I dati epidemiologici mostrano come pazienti anziani con una buona valutazione all’ingresso del periodo di ricovero ospedaliero e con diagnosi non riconducibile a patologie direttamente collegate alla riduzione della funzionalità (ad esempio polmonite batterica o infezione alle vie urinarie) mostrano poi, al momento delle dimissioni, una diminuzione generale molto pronunciata della stessa valutazione (Covinsky et al., 2003, Mudge et al., 2010). La letteratura scientifica ci mostra come sia proprio il declino funzionale nella popolazione anziana una delle conseguenze negative più comuni e di vasta portata per il paziente, la famiglia e a largo spettro anche per il sistema sanitario nazionale.

Questo declino può essere mantenuto fino ad un anno dopo le dimissioni e quando nei tre anni successivi non c’è nell’anziano un recupero in termini di funzionalità, vi è un acuito aumento nel rischio di istituzionalizzazione, di disabilità permanente e di morte (Boyd et al., 2008). I fattori psicosociali, dell’organizzazione ospedaliera, personali e psicologici sono potenziali fattori intervenienti nel concorrere agli esiti dell’ ospedalizzazione dell’ anziano.

Pertanto una corretta rilevazione ed individuazione di tali aspetti può permettere l’individuazione di situazioni target in cui è necessario un intervento preventivo. Tra i fattori psicosociali rilevanti in questo contesto di fragilità acuita, c’è sicuramente il sostegno sociale da parte di caregiver informali, soprattutto quando questi sono i familiari del paziente ricoverato. I congiunti rappresentano infatti una risorsa importante in quanto fungono da ponte tra l’ambiente del quotidiano e l’ambiente disorientante, sconosciuto e complesso dell’ospedale. Spesso infatti, nei contesti strutturati che adottano una lettura del paziente di tipo multidimensionale (considerando non solo gli aspetti medico-clinici, ma anche quelli psicologici e sociali), i membri della famiglia divengono parte integrante dell’équipe coinvolta nella cura. Infatti ad essi possono anche essere delegate alcune attività basilari come ad esempio l’igiene personale (Hui et al., 2013, Li et al., 2004).

Tuttavia, le evidenze presenti in letteratura rispetto a tale collaborazionismo mostrano risultati discordanti, analizzando dimensioni peculiari della salute dell’anziano. Mentre alcuni studi hanno dimostrato un effetto positivo del coinvolgimento dei caregiver sullo stato cognitivo (Li et al., 2003) e sui sintomi depressivi dei pazienti ricoverati (Gur-Yaish et al., 2013), altri studi riportano effetti negativi della collaborazione dei familiari alle cure ospedaliere (Alsafran et al., 2013). Relativamente alle peculiarità dell’organizzazione ospedaliera è emerso come la limitazione della mobilità fisica, dovuta spesso alla presenza della terapia endovenosa o dei cateteri urinari, risulta essere correlata con la riduzione della funzionalità a breve e a lungo termine, con la diminuzione delle ADL (Activities of Daily Living, ossia le attività della vita quotidiana in cui la persona è autonoma) e con l’aumento del rischio incrementale di morte (Brown et al., 2004). Anche la sotto-nutrizione e la malnutrizione sono associate al declino funzionale dell’anziano al momento delle dimissioni (Volpato et al., 2007) in quanto sono spesso il risultato di periodi prolungati di ricovero, in cui da prescrizione medica l’assunzione orale di cibo liquido e solido è limitata nell’accesso o è altra rispetto alle preferenze del paziente.

Nell’organizzazione ospedaliera, inoltre, per i pazienti fragili, confusi o immobili viene spesso preferito l’utilizzo di dispositivi specializzati per la diuresi e la defecazione, quali pannoloni e cateteri urinari. Per motivi di economicità, di tempo, di risorse e di sicurezza, spesso per il personale è più facile offrire tali dispositivi temporanei piuttosto che elicitare sforzi su interventi conservatori dell’autonomia. L’uso di questi dispositivi, anche se limitato alla durata del ricovero, è stato collegato alla riduzione della funzionalità dell’anziano nel ritorno alla propria abitazione, all’innalzamento della pressione arteriosa, a ricorrenti infezioni delle vie urinarie e a depressione clinicamente significativa (Zisberg et al., 2011).

Anche la polifarmacoterapia, che è una scelta medica molto comune nel trattamento dei pazienti anziani, rientra tra i fattori intervenienti nella riduzione dell’autonomia da post ospedalizzazione dell’ anziano. Anche quando tale scelta è motivata in termini di cura della persona, spesso essa ha delle conseguenze avverse come ad esempio essere concausa nelle cadute. I risultati negativi connessi all’assunzione dei farmaci si verificano 2,5 volte in più negli ultra sessantacinquenni che nelle porzioni di popolazione più giovani. Tuttavia, come riportato dal lavoro di revisione di Hammond e Wilson del 2013, sembrerebbe che gli effetti collaterali nel trattamento farmacologico siano ricollegati non tanto alla loro combinazione, quanto al tipo di medicinale scelto.

Nel dettaglio, questi studiosi riportano come siano soprattutto i medicamenti con effetti psicoattivi, molto utilizzati nella gestione dei pazienti nei contesti ospedalieri, al fine di favorire il sonno o la sedazione, a causare un aumento del rischio di caduta, lesioni e delirium. Nel dettaglio proprio le benzodiazepine sarebbero collegate con gli esiti a breve e a lungo termine della post- ospedalizzazione dell’ anziano. Anche lo stesso ambiente ospedaliero in termini di strutturazione, ritmi delle attività e sovraffollamento, risulta essere per la persona anziana in presenza o meno di deterioramento cognitivo un luogo rumoroso, sensorialmente e socialmente deprivato, nel complesso quindi disorientante. Tali aspetti ambientali non solo scoraggiano l’anziano nell’autonomia della mobilità, quando concessa, ma incrementano la confusione spaziale e temporale, alterano il sonno, portano spesso all’isolamento sociale, aumentano il rischio di cadute e la possibilità di esordio di sintomatologia psichiatrica (Yoo et al., 2013).

Non solo aspetti esterni alla persona rappresentano fattori intervenienti nella mortalità e disabilità collegate all’ ospedalizzazione dell’ anziano, ma la letteratura riporta come anche variabili individuali e personali siano fattori intervenienti in tale eziopatogenesi. In una revisione Hoogerduijn et al., 2007, riportano come l’età, livelli bassi di ADL all’ingresso e funzionamento cognitivo sotto i livelli normativi siano considerati predittori significativi nella maggior parte degli studi che hanno valutato il declino funzionale durante l’ospedalizzazione. Tali riscontri risultano rimanere significativi anche controllando la gravità della malattia acuta, motivo di ricovero e i punteggi di comorbilità. Lo scenario ospedaliero può essere causa scatenante o incrementante di esiti negativi in termini psicologici e psicopatologici.

I sentimenti che spesso accompagnano il soggiorno ospedaliero degli anziani sono: senso di inutilità, solitudine, paura e non controllo delle pratiche mediche a cui vengono sottoposti che spesso non sono oggetto di spiegazione e di condivisione da parte del personale sanitario. In particolare, i sintomi depressivi tra gli anziani sono molto comuni, anche in assenza di un ricovero, tant’è che spesso si parla di “epidemia silenziosa della vita moderna”.

In questo panorama, un disturbo dell’umore, anche se subclinico, è identificato come un potenziale fattore di rischio nello sviluppo dello stesso in termini clinicamente significativi. I sintomi depressivi sono infatti molto comuni nei pazienti anziani ospedalizzati. In uno studio ad opera di McKenzie et al., 2010, in un campione di 684 pazienti anziani ospedalizzati, il 13,5% aveva una depressione severa, il 18,4% una depressione moderata e il 18,7% soffriva di ansia. In molti casi, inoltre, i disturbi dell’umore legati all’ ospedalizzazione dell’ anziano non si estinguevano con le dimissioni. Al contrario, nel 40% dei casi questi persistevano nei tre mesi successivi.

Tali dati tuttavia vanno inquadrati in un contesto di ricerca clinica in cui non è ben chiaro quanto questo quadro sintomatologico sia legato ad una condizione preesistente o sia conseguenza della patologia acuta motivo del ricovero o dell’ ospedalizzazione dell’ anziano. Nel contesto dello stesso spettro psicopatologico, il delirium è un sintomo molto diffuso, che colpisce più di un paziente su cinque tra gli anziani ricoverati. Questo si caratterizza come un disturbo dell’attenzione ad insorgenza acuta, con decorso fluttuante e nella maggior parte dei casi di breve durata (ore o giorni) fino ad un massimo di 6 mesi. Oltre questo periodo si deve escludere il delirium e pensare ad una probabile demenza (World Health Organization, 1992).

Le persone che sviluppano delirio mentre ricevono assistenza sanitaria per problemi medici, neurologici e chirurgici hanno un elevato rischio di morte, di istituzionalizzazione e di morbilità durante e dopo l’ospedalizzazione (Fong et al., 2012, Koster et al., 2012). Inoltre l’insorgenza di delirium espone i pazienti ad un maggior rischio di sviluppare una demenza come la malattia di Alzheimer. Il delirium e la demenza spesso coesistono e questo rende notevolmente difficoltosa la diagnosi differenziale. In uno studio recente Dharmarajan et al., 2017, hanno provato ad indagare il rapporto tra l’incidenza del delirio durante l’ospedalizzazione e la mortalità nei 90 giorni dopo la dimissione e il ruolo di possibili fattori di mediazione in tale relazione come: uso di dispositivi di limitazione della mobilità, sviluppo di condizioni acquisite durante il ricovero (cadute, aumento della pressione arteriosa, ulcere) e vari fattori assistenziali intervenienti come la privazione del sonno, la malnutrizione acuta, la disidratazione e la polmonite da aspirazione.

Sono stati inclusi nel campione 469 pazienti anziani con più di settant’anni, che non avevano una diagnosi di delirio all’ingresso in ospedale, non avevano malattie terminali e la cui durata del ricovero era maggiore di 48 ore. Dei partecipanti, il 15% ha sviluppato delirium durante l’ospedalizzazione mentre l’8,3% è morto nei 90 giorni in seguito alle dimissioni. Tra quest’ultimi, il 24% aveva sviluppato delirium, rispetto al 22,6% che non aveva presentato sintomi deliranti. I risultati di questo lavoro riportano inoltre come chi ha sviluppato delirium viveva spesso in una struttura protetta dopo la dimissione (13% VS 5%), si registrava una diminuzione nelle ADL (56%VS 5%) e nelle IADL- attività strumentali della vita quotidiana (94%VS85%) ed aveva avuto un esordio dementigeno (23% VS 11%). Tra i pazienti che avevano o meno sviluppato delirium, le restrizioni fisiche erano state usate nel 20% VS 1%, erano sopraggiunte cadute nel 9% VS 2%, avevano sviluppato un’ulcera nel 33% VS 10%, avevano uno stato di malnutrizione 39% VS 13% ed era intervenuta una polmonite da aspirazione nel 4% VS 1%.

Non sono emerse differenze significative per l’utilizzo dei cateteri urinari, la disidratazione e la privazione del sonno. Tali risultati mostrano come la comparsa di delirium sia strettamente collegata con la maggior incidenza dell’indice di mortalità in seguito al ricovero ed identifica i fattori intervenienti coinvolti che possono essere oggetto di maggior attenzione e di possibile intervento da parte del personale sanitario che si occupa dell’ ospedalizzazione dell’ anziano. In letteratura, è noto come tra i fattori di rischio nello sviluppo di delirium legato alla ospedalizzazione dell’ anziano vi sia il livello delle potenzialità cognitive. Tuttavia, in letteratura, per indagare tale correlazione, sono stati spesso utilizzati strumenti brevi, come il Mini Mental State Examination che non permettono di indagare in modo completo la cognizione e che spesso causano nell’elaborazione dei dati un “effetto soffitto” da cui è difficile fare delle riflessioni puntuali e sottili.

Per superare tali limiti, in una ricerca recente Jones et al., 2016, hanno voluto indagare il livello cognitivo come fattore di rischio di sviluppo di delirium da ospedalizzazione dell’ anziano, ma non tramite la somministrazione di strumenti globali e sintetici, quanto tramite l’utilizzo di prove neuropsicologiche che indagano l’intero spettro delle abilità cognitive. Nel dettaglio, ai 566 partecipanti che avevano un’età media di 76,5 anni e non avevano diagnosi di patologie neurodegenerative, è stato proposto un assessment cognitivo nelle loro abitazioni due settimane prima del ricovero tramite una batteria che includeva test per indagare: attenzione, memoria, linguaggio, funzioni esecutive e capacità visuo-spaziali. Nel loro insieme, queste prove concorrevano a costruire un punteggio di funzionamento cognitivo generale (GPC). Quotidianamente, durante il soggiorno in ospedale, l’emergere di sintomi deliranti è stato rilevato tramite l’utilizzo di strumenti standardizzati quali Delirium Symptom Interview e Confusion Assessment Method e mediante l’ausilio di interviste fatte ai familiari e al personale sanitario.

I risultati hanno mostrato che il delirium si sia verificato in 135 pazienti (24%) e un punteggio basso del GPC era strettamente e linearmente predittivo dell’emergere di tale disturbo. Il GPC in questo studio risultava essere un forte predittore del rischio di delirio durante l’ ospedalizzazione dell’ anziano anche quando veniva corretto per età, scolarità e punteggio alla prova di vocabolario. Questo studio ci porta quindi a concludere come uno screening preventivo ampio e specifico che miri ad individuare anche funzionamenti cognitivi limite, possa essere un valido strumento d’individuazione di pazienti ospedalizzati a rischio a cui dirigere interventi di prevenzione per il delirio.

Interventi per evitare le complicazioni dovute all’ ospedalizzazione dell’ anziano

In uno studio del 2014, Chong et al., riportano un’esperienza fatta all’interno del Tan Tock Seng Hospital di Singapore in cui all’interno dell’ospedale è stata istituita una unità di monitoraggio geriatrico (Geriatric Monitoring Unit-GMU). Essa è un’unità specializzata con cinque posti letto per l’osservazione ed il trattamento del delirio acuto. Tale approccio non farmacologico, adottato in questa esperienza, si è basata sulla creazione di un ambiente amichevole, su interventi mirati per i disturbi sensoriali, per la disidratazione, per favorire l’orientamento alla realtà e per evitare l’immobilizzazione precoce ma anche sulla proposizione della terapia del sonno, mediante l’utilizzo della light therapy.

Oltre a tali procedure di trattamento, la GMU prevedeva un personale altamente preparato, a cui venivano date indicazioni personalizzate rispetto alle peculiarità del singolo paziente. Lo studio riportato in letteratura su questo approccio ha coinvolto un campione di 320 pazienti (tra pre GMU, GMU e controlli) con più di 65 anni, con delirio rilevato mediante il Confusion Assessment Method (Inouye et al., 1990) ed ha avuto come finalità quella di verificare se il programma GMU migliorasse gli outcomes dei sintomi dovuti all’ ospedalizzazione dell’ anziano.

Le misure utilizzate hanno valutato: le caratteristiche cliniche, lo stato funzionale e l’utilizzo di farmaci con effetti psicoattivi, le possibili complicazioni dovute al delirium incipiente (ulcere, cadute o infezioni) e la soddisfazione dei familiari e degli operatori.

I risultati hanno mostrato come i soggetti pre GMU (coloro in attesa di essere inseriti nell’unità specializzata), avevano una maggiore durata del delirium e del ricovero stesso. I pazienti che avevano beneficiato del metodo di trattamento della GMU avevano un indice di funzionamento più alto. Quest’ultimi, inoltre, non avevano avuto bisogno di dispositivi di limitazione della mobilità ed avevano dosaggi inferiori di antipsicotici. Ad incentivare il buon esito di questa esperienza, ci sono anche i buoni riscontri di soddisfazione sia dai familiari dei pazienti che dagli operatori sanitari. Gli autori riportano come i punti di forza di questo approccio di cura, che ha permesso di avere questi buoni risultati, sono da ricondurre alla combinazione e alla messa a punto ad- personam e ad hoc degli interventi, la prevenzione di complicanze dovute all’assenza di metodi di costrizione fisica, il miglioramento e la gestione della qualità del sonno e l’approccio imparziale utilizzato con tutti i pazienti indipendentemente dalla presenza tra questi di persone con demenza.

Nel complesso, questo studio mostra i vantaggi di un’unità specializzata nella gestione dei deliri per i pazienti anziani. Il successo di questa esperienza ha fatto inoltre divenire permanente questo servizio all’interno dell’ospedale che lo ha sperimentato, garantendo agli anziani ricoverati che ancora oggi continuano ad usufruirne, una limitazione della durata del delirium, la riduzione dei risvolti negativi che questo comporta al momento delle dimissioni e una diminuzione delle risorse economiche e di tempo investite da parte della direzione ospedaliera nella gestione di questi pazienti.

Questa esperienza, così come le note “delirium room” (aree ospedaliere molto specializzate dove vengono applicati appositi protocolli di prevenzione del delirio da ospedalizzazione, in cui vengono abbattuti i fattori precipitanti) presenti nel panorama americano, sono sicuramente dei modelli di gestione clinica validi e molto protesici rispetto alle esigenze del paziente anziano ricoverato.

L’importanza della prevenzione degli effetti dell’ ospedalizzazione dell’ anziano

Ma cosa possiamo fare nel nostro territorio in cui siamo ancora molto lontani da questi standard di organizzazione strutturale? Come raccomandato da Fagherazzi, Granziera, Brugiolo in una revisione del 2015, la prima linea deve essere quella della prevenzione mirata all’individuazione e al trattamento dei fattori di rischio associati al delirium, quali: i deficit cognitivi, la deprivazione del sonno, l’immobilità, l’ipoacusia, il rapporto urea/creatinina elevato, i deficit visivi e la disidratazione. Fagherazzi et al., 2015 sottolineano inoltre come il coinvolgimento nel programma terapeutico anche di familiari, badanti ed amici del paziente sia una risorsa importante.

Come riportato nella revisione, viste le caratteristiche dello stato confusionale, sono necessarie alcune raccomandazioni. È importante: garantire la presenza di un parente o di un amico per tutte le 24 ore, evitando un turn over frequente, limitare i visitatori, modulare la voce ed avere un atteggiamento sereno e “validante”, tranquillizzare la persona delirante, orientarlo nello spazio e nel tempo (ripetergli dove si trova, che giorno è), mantenere sempre una luce accesa anche durante la notte (questo permette al paziente di collocarsi nell’ambiente limitando possibilmente il disorientamento) e mantenere il ritmo sonno-veglia. È opportuno inoltre che i familiari siano debitamente formati ed informati su cosa sta accadendo al loro congiunto. È importante infine educare sia gli utenti che i caregiver sulle cause ed i fattori di rischio che favoriscono il delirium, sia per favorirne la comprensione e la gestione nell’immediato, che come modalità corretta di prevenzione per le possibilità future.

In conclusione, è importante che il personale sanitario e gli utenti che afferiscono ai servizi sanitari capiscano che il periodo dell’ ospedalizzazione dell’ anziano è un momento delicato per una persona fragile come l’anziano. In tale contesto, una cattiva gestione e una mancanza di prevenzione possono portare ad un’amplificazione di quelle conseguenze nefaste, non legate direttamente al disturbo motivo di ricovero, che possono non solo diminuire le potenzialità di cura a seguito dell’ ospedalizzazione dell’ anziano ma causare anche disabilità e morbilità con caratteristiche di permanenza e pervasività.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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