Per decenni il corpo si è eclissato dagli studi degli psicoterapeuti, soprattutto cognitivisti e psicoanalisti. Facevano parlare i pazienti soprattutto, anche se noi cognitivisti insistevamo anche sugli esercizi comportamentali. Questa sorta di estremismo del verbo non poteva durare a lungo. Il dolore si scrive nella memoria somatica prima ancora che nei ricordi autobiografici, e dal corpo va scacciato.
Articolo uscito su La Lettura del Corriere della Sera del 27 Agosto 2017
Pochi anni fa sono relatore a un congresso, tra gli speaker c’è Pat Ogden. Mostra il video di una sua seduta con un signore molto spaventato, il cui sorriso cauto maschera un’allerta primordiale, un atavico: “Stai lontana”. Vive, mi è chiarissimo, in un mondo di predatori. Lei è addossata alla parete di una stanza ampia. Il signore schiena alla parete opposta. Lei, dopo avergli chiesto il permesso, fa un passo. E gli domanda per filo e per segno quali siano le sensazioni corporee. “È ok”. Un altro passo. Ancora ok. Un altro ancora, ci saranno tre metri tra i due. “Ecco, ora non sto tanto bene”. Lei sorride, aspetta un attimo e gli chiede se deve fare un passo indietro. “Sì, meglio di sì”. Quello che vedo mi piace. Con un paziente come quello puoi parlare per mesi della sua difficoltà al contatto e del suo terrore primevo. Perdendo tempo. Invece con quei passi progressivi e negoziati ottieni di riattivare gli schemi: “Sono fragile, l’altro è minaccioso” e scoprire poco per volta che non sono veri. Ma è il corpo che lo avverte. Il terapeuta chieda: “È calata la tensione ora?” e ascolti il “Sì”. In quel momento lo schema è disattivato. Un uomo ha lasciato un mondo di rettili giganti ed è saltato nella realtà.