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Sieropositività: “dirlo agli altri” fa bene

La scoperta della sieropositività può essere accompagnata da una paura di abbandono o di rifiuto e questo può comportare una difficoltà a comunicarlo.

Di Sonia Sofia

Pubblicato il 26 Giu. 2017

Aggiornato il 16 Ott. 2017 11:42

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo la sieropositività sono la paura del rifiuto o dell’abbandono, la convinzione che il partner non possa reggere alla notizia, che sia un passo troppo difficile o che sia necessario un tempo maggiore per poter affrontare prima le proprie emozioni. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo.

Essere sieropositivi: la difficoltà di comunicarlo agli altri

Nel panorama internazionale dell’epidemia dell’infezione da HIV, suscitano sempre grande preoccupazione i casi di persone contagiate da partner sessuali che non sono a conoscenza, o conoscendolo non rivelano, del proprio stato sierologico.
Spesso, neppure il matrimonio o la convivenza sono sufficienti a proteggere dall’infezione.
Storie che rivelano quanto la difficoltà di accettare la malattia e il dolore di rivelarla agli altri possono influire negativamente sulla sua gestione.

Numerosi studi hanno mostrato che le persone consapevoli della propria sieropositività tendono a ridurre i comportamenti che potrebbero trasmettere l’infezione ad altri, tuttavia ce ne sono altri i quali suggeriscono che i cambiamenti delle abitudini sono difficili da mantenere e che dopo un certo periodo alcuni tra loro riprenderebbero a porre altri a rischio di contagio.

Dai dati di un ricerca relativa ad un campione di persone sieropositive in terapia negli Stati Uniti, emergeva che il 42% degli uomini omosessuali e bisessuali, il 19% degli uomini eterosessuali e il 17% delle donne riferivano rapporti senza rivelazione del proprio stato sierologico.
Secondo una ricerca più recente su omosessuali sieropositivi, i rapporti sessuali non protetti erano riferiti dal 46.7% di coloro che avevano un partner positivo e dal 15.6% di colori che ne avevano uno negativo. I contatti senza profilattico erano significativamente più frequenti con partner casuali.
Molto spesso il sesso non protetto era associato ad assunzioni di alcool o sostanze d’abuso e all’assenza di comunicazione della sieropositività.

Alcune organizzazioni sanitarie internazionali si sono interrogate se la responsabilità della diffusione del virus da parte di persone consapevoli del proprio stato sierologico non sia da attribuire ai principi di confidenzialità e di consenso informato che vigono in molti paesi, ma sono giunte alla conclusione che sono piuttosto il diniego, lo stigma, il senso di colpa, la discriminazione e le problematiche psicologiche a creare i maggiori ostacoli al contenimento della diffusione dell’infezione.

Massimo, 32 anni, da quando è sieropositivo non ha avuto altre relazioni. Da poco ha conosciuto un ragazzo che gli piace molto, si frequentano, stanno bene insieme. Lui decide di lasciarlo prima di avere rapporti sessuali. “Comunicargli la sieropositività avrebbe comportato l’ennesimo rifiuto nella mia vita, mi riporta alla mia infanzia, ad episodi di abbandono e abuso. Non posso sopportarlo. Preferisco lasciarlo prima. Forse l’unica soluzione per evitare questo dolore è frequentare da adesso in poi solamente sieropositivi come me”.

Cristina, 29 anni. “Ho problemi a dirlo agli altri. Allora vado in giro con spruzzino e disinfettante per pulire dove passo io. Ho paura che per causa mia gli altri possano vivere l’inferno che sto vivendo io.”

Gli aspetti emotivi connessi alla difficoltà di comunicare la sieropositività

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo il proprio stato di salute sono la paura del rifiuto o dell’abbandono, la convinzione che il partner non possa reggere alla notizia, che sia un passo troppo difficile o che sia necessario un tempo maggiore per poter affrontare prima le proprie emozioni. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo. Alcuni studi dimostrano che le donne che non informano il partner utilizzano il profilattico con frequenza e regolarità pari a quelle delle donne che lo fanno, ma sono più a rischio di queste ultime di ripercussioni psicologiche negative (disturbi d’ansia o depressione con istinti suicidari).
La capacità di rivelare è legata al grado in cui la persona ha accettato la diagnosi e comunque è molto più difficile raccontarsi a ridosso di questa. Emerge che tra gli eventi stressanti, la rivelazione della propria sieropositività all’altro è seconda solo al ricevimento della diagnosi ed implica il dover affrontare alcune tematiche tra le quali l’immagine di sé, la sessualità e l’autostima.

Sara, 37 anni, scopre la sieropositività durante le analisi per la prima gravidanza. “Sono in preda allo sconforto, e dilaniata dalla scelta… comunico adesso la sieropositività al mio compagno o lo faccio alla nascita della bambina?…”

Simona, 46 anni. Viene a ritirare il risultato del test. Quando le comunico la diagnosi di sieropositività è sorridente. “Prima o poi doveva succedere. Anzi meglio così. Sto da 10 anni con il mio compagno sieropositivo. Adesso che lo sono anch’io possiamo condividere proprio tutto. Anche la terapia antiretrovirale e le visite mediche.”

Gli effetti della scoperta della sieropositività sulla relazione di coppia

Starace, nella sua monografia fa luce su alcune dinamiche di coppia confermando che, quando esiste una relazione di coppia, la scoperta della sieropositività determina una destabilizzazione della relazione che, se non conduce alla separazione, necessita di una rielaborazione e di una riformulazione delle dinamiche interne.

Laddove la notizia irrompe all’interno della coppia, fattori come le preoccupazioni circa l’intimità, la difficoltà di parlare di argomenti relativi alla sfera sessuale, il senso di responsabilità, la paura ma al tempo stesso il bisogno di mantenere intatto il piacere di un tempo rischiano di aumentare notevolmente il pericolo della trasmissione.

Inoltre, nonostante la conoscenza odierna delle modalità di trasmissione, spesso all’interno delle coppie consolidate si assiste ad un uso non costante del preservativo, visto come barriera, come distacco, come mancanza di reale e totale intimità con l’altro.

A questo bisogna aggiungere fenomeni diversi come quello dell’abnegazione, dell’accettazione del destino e della malattia dell’altro nel bisogno di dimostrare il proprio amore senza confini.
In queste situazioni, ciò che prevale è il dovere, del partner sieronegativo, di dimostrare all’altro la sua illimitata accettazione attraverso la condivisione dello stesso destino.

A fronte di episodi di sacrificio, si registrano anche casi di coppie che smettono di vivere completamente qualunque forma di sessualità e di scambio intimo, chiudendosi in un mutismo “sessuale” che è distruttivo, che svilisce la coppia, che finisce in taluni casi per distruggere completamente il rapporto.

Dall’altro lato, è dimostrato che ad alti livelli di adattamento coniugale corrispondono migliori livelli di aderenza alle terapie mediche. È emerso, inoltre, che i soggetti in coppia con un partner sieronegativo presentano livelli di aderenza più alti, a sostegno dell’ipotesi secondo cui, spesso, il partner sano – quando non collude con i bisogni di negazione intensa del partner sieropositivo – assume il ruolo di caregiver nella relazione, avvertendo il bisogno di occuparsi dell’altro e di vivere il proprio amore per l’altro come fattore protettivo nei confronti della malattia. La qualità del rapporto di coppia riveste una notevole importanza nell’adattamento psicologico dei due membri all’interno della coppia sierodiscordante per HIV.
D’altro canto, in letteratura è già documentata l’importanza delle relazioni interpersonali per gli esiti clinici a lungo termine e la qualità della vita dei pazienti con malattie croniche quali, ad esempio, il cancro e il diabete.

Allo stato attuale sono pochi gli studi dedicati al ruolo che i fattori relazionali giocano all’interno dei processi decisionali e/o delle strategie comportamentali adottate dalle persone con infezione da HIV in merito a pratiche preventive – ad esempio l’uso del preservativo – che coinvolgono altre persone che condividono col paziente una relazione affettiva stabile. La valutazione di tali elementi potrebbe fare luce sulle difficoltà specifiche sottostanti all’accettazione della convivenza con il virus, al saper riconoscere i propri desideri, al saper mediare con le paure o gli atteggiamenti iperprotettivi del partner, all’attrezzarsi per evitare il contagio senza rinunciare ad una sessualità soddisfacente, al non abbandonare una dimensione progettuale che consenta di vivere con il partner una prospettiva di futuro a lungo termine.

Le sfide per i clinici sono, quindi, molteplici tra cui: incrementare il livello di accettazione, cura e sostegno psicologico per le persone con HIV; creare tra gli individui una maggiore apertura riguardo HIV/AIDS a livello sia familiare che comunitario; promuovere e incoraggiare l’effettuazione del test e la rivelazione dello stato di sieropositività.

La segretezza, lo stigma, il diniego e la discriminazione che circondano l’infezione da HIV possono essere efficacemente contrastati attraverso una maggiore diffusione della rivelazione della sieropositività che rappresenta un importante obiettivo sanitario, ma soprattutto individuale; la rivelazione deve essere volontaria, rispettosa dell’autonomia e della dignità della persona e deve assicurare la giusta confidenzialità.

De Rosa e Marks hanno rilevato che le percentuali di comunicazione crescono con l’aumentare del numero di incontri con lo psicoterapeuta su questo tema.

Nello studio di Maman e colleghi sono stati gli stessi intervistati a sottolineare il ruolo dello psicoterapeuta nella loro decisione di informare altre persone della propria sieropositività.

Le conseguenze positive della rivelazione sono numerose: le persone intervistate hanno citato un aumentato sostegno e una maggiore accettazione, un rafforzamento dei legami con familiari e amici, la riduzione dell’ansia e dei sintomi depressivi, nonché la semplificazione della vita con l’eliminazione dei sotterfugi nella frequentazione dei centri ospedalieri e nell’assunzione della terapia antiretrovirale, con conseguente maggiore aderenza terapeutica.

Contrariamente alle aspettative, si è evidenziato anche che la comunicazione non è associata alla rottura delle relazioni stabili. Ed è interessante constatare che le conseguenze negative temute solo raramente si sono concretizzate nelle storie di coloro che hanno deciso di comunicare la propria sieropositività.

Tuttavia, approcci ed interventi mirati esclusivamente ad incoraggiare le persone con HIV a rivelarsi ai partner sessuali per ridurre la diffusione del contagio nella comunità non sono sufficienti a ridurre la diffusione del virus, ma piuttosto infondono false sicurezze in coloro che sono negativi e non si sono mai sottoposti al test.

Così come l’inserimento troppo precoce dei pazienti in gruppi di mutuo-aiuto incentrati sui benefici dell’aderenza terapeutica e sull’utilità della rivelazione della propria sieropositività agli altri spesso non ha raggiunto gli obiettivi desiderati ma piuttosto ha favorito l’abbandono del gruppo da parte di alcuni pazienti con specifici bisogni.

La terapia metacognitiva interpersonale con i pazienti sieropositivi

Tra le psicoterapie cognitive di ultima generazione la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha la caratteristica di adattare gli interventi terapeutici alle capacità metacognitive del paziente dedicando grande attenzione alla cura della relazione terapeutica usata come fonte di informazioni e come luogo dove sperimentare per prima le modalità adattative di relazione.

La TMI, sviluppata principalmente per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essi associate, è già stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e di riduzione dello stigma e al caso di un paziente sieropositivo con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza terapeutica ai regimi prescritti.

Questa si basa sull’idea che i pazienti sono guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, delle quali molto spesso non sono consapevoli e che mettono in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani e bisogni. A causa di queste aspettative le persone soffrono ancora prima di entrare in relazione con gli altri oppure compiono azioni che da un lato impediranno loro di realizzare tali desideri, dall’altro non indurranno gli altri a rispondere in modo positivo.

Il paziente teme la critica e l’abbandono (stigma interiorizzato) e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto ed utilizza l’evitamento ed il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma e la condizione di segretezza nonché la costante paura della perdita.

Questa formulazione del caso in TMI è un principio di partenza per creare un piano terapeutico che abbia come scopo iniziale il miglioramento della comprensione di sé ed in seguito il cambiamento dei processi cognitivo-affettivi sottostanti il tratto di personalità. La TMI descrive procedure formalizzate passo dopo passo per arricchire le narrazioni dei pazienti e promuovere la metacognizione fino a quando cominceranno a vedere le proprie descrizioni delle relazioni interpersonali come pattern interiorizzati e non più come riflessi della realtà.

Recentemente alcuni studi hanno rilevato un alto tasso di tratti alessitimici (anche per via dello specifico tropismo del virus) e disfunzioni metacognitive nella popolazione HIV-positiva.

Esempi di atti metacognitivi disfunzionali includono: difficoltà nel descrivere i propri stati interni; difficoltà nel riconoscere le emozioni nel volto degli altri; problemi nella comprensione degli eventi interpersonali e difficoltà nel comprendere le motivazioni sottostanti ai comportamenti.

Un elemento chiave della disfunzione metacognitiva è la scarsa differenziazione, cioè la mancanza di consapevolezza che la propria opinione su se stessi e gli altri è solo un punto di vista, che può cambiare quando le cose vengono osservate da un’altra angolazione. In questo caso il paziente è guidato da aspettative stereotipate riguardo a come comportarsi per raggiungere i propri obiettivi, riguardo a come si comporteranno gli altri e a quale sarà il destino dei propri desideri intimi.

In terapia, quindi, il paziente avrà bisogno di essere aiutato a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza può essere parzialmente vera, ma riflette anche un suo schema in cui si sente costantemente rifiutato e danneggiato, uno schema fondato su memorie di figure di riferimento ingiuste ed episodi traumatici.

La TMI si focalizza sulla promozione della metacognizione utilizzando i seguenti passi:
1) promuovere la consapevolezza delle emozioni; 2) comprendere la causalità psicologica, per esempio come le azioni degli altri evochino una credenza che a sua volta suscita un’emozione e come quell’emozione attivi un comportamento; 3) evocare una serie di episodi associati per promuovere una consapevolezza di pattern stabili e di conseguenza riformulare gli schemi; 4) ottenere una differenziazione da pattern di attribuzione di significato presi come specchio della realtà.

Quando comunicare agli altri la sieropositività

Rivelarsi agli altri può essere realizzabile, se il paziente lo desidera, dopo che paziente e terapeuta hanno percorso i passi sopraelencati e raggiunto una conoscenza dei processi cognitivo-affettivi che determinano la sofferenza.

La decisione di raccontarsi è preziosa per la persona sieropositiva e per le persone significative e non deve essere messa in atto con fretta.

Serovich lo definisce un processo di decision-making diviso in sei passaggi che comprende dilemmi, barriere e decisioni per ognuno di essi. Il primo passo consiste nell’incoraggiare i pazienti a fare una ricognizione circa coloro che fanno parte della loro rete familiare e sociale e del tipo di supporto che ciascuno di essi può offrire. Il secondo sta nell’aiutare a valutare la natura della relazione che hanno con le figure individuate. Il terzo passo prevede la determinazione di qualunque circostanza che potrebbe influenzare la rivelazione, per esempio la capacità di alcuni possibili destinatari dell’informazione di mantenere la segretezza in proposito. Il quarto comprende la riflessione per ogni persona presa in considerazione circa le conoscenze e gli atteggiamenti riguardo HIV. Il quinto consiste nello sviscerare le ragioni per cui è importante comunicare ad alcune persone. Infine, il sesto passo include l’inserimento di tutte le persone identificate come potenziali destinatari in tre categorie: coloro da informare per primi, coloro da informare in un secondo momento, coloro per i quali è preferibile aspettare e vedere.

Molto utile, a questo punto del percorso terapeutico, può rivelarsi l’utilizzo di tecniche di Skills Building che aiutano a costruire e rinforzare capacità e strumenti necessari per adottare e mantenere comportamenti coerenti con il proprio desiderio di salute e che proteggano gli altri dal contagio.

Un modello di psicoterapia incentrato sulla relazione terapeutica in HIV e con interventi adattati alle capacità metacognitive dei pazienti sarebbe una pratica sanitaria necessaria a determinare il miglioramento di molteplici outcomes. In particolare, la disponibilità di programmi centrati sul paziente e sulle sue sofferenze relazionali incrementerebbe: 1) l’azione di vigilanza e prevenzione dell’epidemia e dei rischi secondari HIV correlati; 2) l’adesione alle cure mediche ed alle pratiche di cura ad esse correlate; 3) l’utilizzazione ed il mantenimento di una rete di supporto sociale.

L’infezione da HIV ha una declinazione relazionale per eccellenza, in quanto è nell’ambito della relazione sessuale che essa si trasmette e si diffonde. Inoltre è nell’acquisizione e nel mantenimento di comportamenti, da contrattare e gestire necessariamente all’interno di una relazione, che essa si previene e/o si cura. La persona sieropositiva ha una forte necessità di adottare comportamenti che contribuiscano notevolmente alla determinazione della qualità della vita e forniscano la costruzione di nuclei relazionali stabili che svolgono una forte azione di motivazione verso l’accettazione di malattia, l’adozione od il mantenimento di pratiche di sesso sicuro per sé e per gli altri, la gestione e l’aderenza alla terapia” (Starace).

 

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