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Trattamento del disturbo da deficit di attenzione/ iperattività (ADHD) tramite Neurofeedback Training

Oltre a psico-educazione e trattamenti farmacologici e psicoterapici in caso di ADHD, sembrano esserci miglioramenti anche con il Neurofeedback training

Di Guest

Pubblicato il 23 Mag. 2017

Vi sono ancora molti dubbi e critiche per quanto riguarda il trattamento utilizzabile in casi di ADHD, uno dei trattamenti meno conosciuti, fruibile anche in aggiunta al trattamento farmacologico e psicologico, è il Neurofeedback Training.

Flavia Costantino – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

 

La diagnosi del disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (ADHD) è spesso considerata controversa e vi sono associati ancora molti dubbi e critiche anche per quanto riguarda il trattamento utilizzabile. Uno dei trattamenti meno conosciuti, fruibile anche in aggiunta al trattamento farmacologico e psicologico, è il Neurofeedback Training.

Per comprendere come funziona e come agisce questo tipo di intervento, innanzitutto, è necessaria una breve descrizione del disturbo.

L’ ADHD è un disturbo che coinvolge due diversi ambiti (DSM-5, 2013):

  • Disattenzione;
  • Iperattività e Impulsività

Vi sono altre difficoltà ad esse associate, tra le quali la pianificazione, l’organizzazione, lo spostamento attentivo connesso ad un’iperfocalizzazione e all’incapacità d’inibizione, la difficoltà di regolazione emotiva e la bassa tolleranza alla frustrazione.

La prevalenza di ADHD riscontrata nella popolazione, secondo le ultime indicazioni del DSM-5, è del 5% in età infantile e nel 2,5% in età adulta.

Il decorso di tale disturbo prevede che vi sia una maggiore evidenza della sintomatologia in età scolare, periodo nel quale iniziano le prime richieste di autonomia e di organizzazione, aumenta la necessità di mantenere l’attenzione per lunghi periodi e la complessità dei compiti da eseguire.

A seconda delle caratteristiche individuali della persona che soffre di ADHD e del contesto nel quale è inserita, le problematiche, nel corso dell’adolescenza, posso mantenersi relativamente stabili ma, se non prese in considerazione, a tali difficoltà possono sommarsi problematiche comportamentali e relazionali. L’iperattività motoria solitamente diminuisce con la crescita, i sintomi permangono invece sotto forma di un senso di irrequietezza interiore, persistono le difficoltà organizzative e di attenzione (DSM-5, 2013), difficoltà che il paziente con ADHD può imparare a gestire tramite l’uso di strategie.

Il grado di severità della sintomatologia varia da persona a persona lungo un continuum, sulla base del grado di compromissione della qualità di vita del soggetto, da una sintomatologia più facilmente gestibile ad una di complessità maggiore. Anche il livello di disregolazione all’interno delle diverse aree coinvolte nel disturbo è variabile tra gli individui, configurando diverse sottocategorie diagnostiche: a prevalenza disattentiva, a prevalenza iperattiva/impulsiva, o in combinazione (attentiva e iperattiva/impulsiva) (DSM-5, 2013).

Per diminuire i fattori di rischio nell’andamento del decorso dell’ ADHD è bene effettuare una diagnosi il più possibile precoce ed iniziare il trattamento della sintomatologia, tramite psico-educazione ed eventuale trattamento farmacologico e psicoterapico.

 

Il Neurofeedback

Oltre ai trattamenti più comuni appena citati, alcuni studi hanno evidenziato dei miglioramenti prestazionali in seguito all’utilizzo dell’elettroencefallogramma (EEG) biofeedback, meglio conosciuto come Neurofeedback. Si tratta di uno strumento che permette di rilevare l’attività elettrica cerebrale e presentarla visivamente ed in tempo reale al paziente tramite uno schermo, basandosi sul fatto che ad ogni attività corticale corrisponde una diversa tipologie di onde cerebrali. Tramite il feedback osservato sul monitor l’individuo potrà imparare a conoscere “il comportamento cerebrale” e successivamente provare a modificare la propria attività elettroencefalica ricercando lo stato cognitivo voluto (www.neurofeedback-italia.it; Masterpasqua & Healey, 2003). L’individuo acquisisce in questo modo una strategia di autoregolazione.

Il Neurofeedback rileva, tramite l’utilizzo di elettrodi posizionati sul capo, l’attività elettroencefalica, acquisendo frequenza e ampiezza delle onde cerebrali relative all’attività svolta. I dati rilevati vengono trasmessi ad un computer che li trasforma in un formato visualizzabile sul monitor e quindi codificabile dall’utente. In questo modo il soggetto che si sottopone a tale trattamento potrà osservare e successivamente imparare a “gestire” il feedback relativo all’attività cognitiva e raggiungere volontariamente gli stati desiderati.

Solitamente vengono previste diverse sedute, gli studi indicano un trattamento che varia dalle 20 alle 40 sedute con caduta bi- o trisettimanale, a seconda del centro che lo propone. Si tratta quindi di un percorso impegnativo che richiede costanza e motivazione.

Le sedute prevedono livelli a complessità crescente che varieranno in parallelo all’acquisizione della metodologia e alla capacità di auto-regolazione della persona. Al raggiungimento della soglia di concentrazione e di rilassamento richiesta corrisponde l’attivazione delle immagini visualizzate sul monitor che saranno il feedback del raggiungimento dell’obiettivo.

 

Attivazione elettrica rilevata con il Neurofeedback

L’attivazione elettroencefalica si suddivide in quattro categorie di onde, che variano per la loro diversa frequenza. Le onde theta (4 – 7 Hz) corrispondono allo stato di pre- e post-addormentamento, ossia ad uno stato di rilassamento profondo; le onde delta (1 – 3 Hz) sono connesse al sonno profondo; le onde alpha (8 -13 Hz) sono maggiormente attive durante lo stato di veglia rilassata, mentre i processi di focalizzazione e processamento cognitivo (concentrazione su un compito e sua esecuzione) sono connesse ad un incremento dell’attività beta (14 – 30 Hz) nelle aree cerebrali frontali (Deilami et al. 2016).

Proprio queste aree frontali, insieme alle aree centrali, sono le aree indicate in alcuni studi, nell’avere una differente tipologia di attivazione elettrica in individui con ADHD, rispetto a coloro senza tale diagnosi (Loo & Barkley, 2005).

 

Neurofeedback e ADHD

Un elemento non diagnostico esplicitato nel DSM-5, evidenzia la maggior presenza delle onde lente theta in soggetti con ADHD e una carenza di onde beta, rispetto ai coetanei senza tale diagnosi. Tale dato che si collegherebbe alla diminuzione della capacità di rimanere concentrati su un determinato compito, per la carenza di onde beta nel corso del processamento cognitivo (Wangler et al., 2011), mentre, le onde theta, sarebbero associate a disattenzione e pensiero decentralizzato come sottolineato da Lubar (2003).

Sulla base di tali dati l’obiettivo del training con Neurofeedback, sarà quello di modificare l’attività cerebrale al fine di migliorare le performance cognitive e comportamentali dell’individuo (Becerra et al., 2006).

Un recente studio effettuato nel 2014, su 144 pazienti ADHD in età scolare, ha evidenziato miglioramenti prestazionali in seguito a training con Neurofeedback, in alcuni casi in aggiunta al trattamento farmacologico. Il dato è stato valutato attraverso la somministrazione di una batteria di test che ne rilevasse le variazioni nelle performance inerenti la sintomatologia ADHD comparate precedentemente e successivamente al trattamento (Holtmann et al., 2014).

Un ulteriore studio di Deilami del 2016 ha riportato le medesime differenze prestazionali nei risultati ottenuti da soggetti tra i 5 e i 12 anni sottoposti al training, confermando il miglioramento rilevato in precedenti studi (Fox, Tharp, & Fox, 2005).

Il dato principale nell’ottenere il miglioramento della sintomatologia tramite training con Neurofeedback consisterebbe nella costanza della sua applicazione, necessaria all’acquisizione graduale della metodologia da parte dell’utente.

Diversi studi hanno sottolineato l’efficacia del neurofeedback come rientrante all’interno delle linee guida cliniche delineate dall’APA (American Psychological Association). In particolare, Monastra effettuò un’analisi delle ricerche effettuate in quest’ambito dagli anni ’80 ai primi anni del nuovo secolo, rilevando un livello 3, in una scala di 5 livelli, di “efficacia probabile”, per indicare gli effetti positivi rilevati in più studi.

Nel portale statunitense CHADD The National Resource on ADHD il livello di efficacia raggiunto corrisponde al grado di “efficacia possibile” (livello 2) per le carenze metodologiche a loro avviso presenti negli studi scientifici effettuati, come indicato anche da Loo e Barkley (2005), che riportano l’incompletezza dei dati, ad esempio nel campione di controllo selezionato con il quale sono state confrontate le prestazioni dei soggetti analizzati, nel numero di pazienti coinvolti, nelle variabili considerate.

Altri limiti osservati riguardano l’impossibilità di comprovare l’efficacia del trattamento come connessa esclusivamente allo stesso (Lansbergen et al., 2011; Perreau- Linck et al., 2010).

Nel 2005 Hirshberg et al., indicarono come tale metodologia osservasse invece le “linee guida cliniche” di “forte evidenza empirica e/o con forte consenso clinico” dell’AACAP (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry) nel trattamento dell’ ADHD.

 

Conclusioni

I risultati qui osservati riportano pareri contrastanti. Gli studi più recenti sull’efficacia del trattamento dell’ ADHD con Neurofeedback sembrano esserne a favore (Deilami et al., 2016), come anche l’utilizzo di tale metodologia da parte di diversi centri sul territorio italiano, tuttavia appare necessario effettuare ulteriori approfondimenti per dimostrarne l’effettiva efficacia.

Inoltre sembra che il trattamento sia indirizzato maggiormente ad aumentare le capacità prestazionali nell’eseguire un’attività specifica, tenendo meno in considerazione le altre difficoltà dell’individuo con ADHD, come le capacità organizzative e di pianificazione. Ciò nonostante l’aumento delle capacità attentive potrebbe comunque avere effetti trasversali positivi anche sugli altri ambiti e migliorare le prestazioni individuali.

Importante sarà quindi non sottovalutare la complessità del disturbo, considerando all’interno della possibile efficacia del trattamento anche il grado di gravità della sintomatologia, la motivazione e la capacità individuale nel tollerare la frustrazione.

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