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La propensione al rischio nella scelta farmacologica

Sono stati indagati i processi decisionali che inducono la propensione a correre il rischio di assumere farmaci nonostante i possibili esiti negativi.

Di Eleonora Minacapelli

Pubblicato il 12 Apr. 2017

Aggiornato il 05 Lug. 2019 12:05

Fino a non molto tempo fa i processi decisionali venivano spiegati, soprattutto in ambito economico, dalla nota Teoria dell’utilità dell’attesa, in base alla quale la scelta veniva considerata come l’esito naturale di un calcolo delle probabilità del verificarsi degli eventi da parte dell’agente decisionale. E’ stato solamente grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Kahneman e Tversky che si è dimostrato poi come i processi decisionali siano di fatto guidati da euristiche e bias. 

Eleonora Minacapelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La funzione del farmaco e le origini della terapia farmacologica

Non mi riferisco all’uso del paracetamolo o di chissà quale semplice farmaco da banco, anche se, pure in questi casi, ciò che andrò a trattare c’entra pienamente. Qui voglio riferirmi nello specifico a tutti quei farmaci che in un dato momento della nostra vita è possibile che ci vengano proposti come soluzione a un problema organico di natura severa e su cui potremmo essere chiamati a decidere il da farsi.

Partiamo dalle premesse. La parola ‘farmaco’ deriva dal greco pharmakon, un termine semanticamente ambiguo, che, fin dagli albori del suo utilizzo, portava in sé il significato di rimedio benefico, ma nello stesso tempo anche quello di veleno. Se si guarda alla storia, infatti, fino al XVIII secolo non sarebbe stato del tutto errato pensare al farmaco come a un rimedio funzionalmente dicotomico. Le capacità di indurre modificazioni funzionali benefiche all’interno dell’organismo vivente non potevano, di fatti, disgiungersi completamente da effetti potenzialmente dannosi. Con l’introduzione dei farmaci di sintesi e con l’avvento della farmacodinamica e della farmacologia clinica, poi, il concetto di farmaco ha cominciato a mutare, divenendo semanticamente inscindibile da dimostrabili ed efficaci azioni terapeutiche. Il rapporto rischio-beneficio è diventato, così, metro della convenienza di utilizzare alcune sostanze in circostanze specifiche, allo scopo di ottenere alterazioni terapeutiche in presenza di patologia. Anche al giorno d’oggi, tuttavia, in alcune circostanze tale rapporto può risultare non del tutto vantaggioso, ponendo paziente e medico di fronte a scelte terapeutiche di non facile attuazione.

Voltaire sosteneva che la medicina consistesse nell’introdurre medicamenti che non si conoscono in un corpo che si conosce ancor meno per guarire da malattie di cui non sa niente. Pur nel suo estremismo, di fatto dipingeva con semplicità le incertezze cui talvolta siamo sottoposti, quando ci approcciamo a un farmaco importante per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere.

 

Nonostante i rischi si sceglie di effettuare una terapia farmacologica

Potenti azioni terapeutiche, infatti, possono esporre il paziente anche al rischio di eventi avversi gravi e talvolta mortali, in un rapporto rischio-beneficio di difficile valutazione. Soprattutto nell’ambito di patologie croniche invalidanti e degenerative, non sono rari, infatti, i ricorsi a terapie farmacologiche  che possono presentare importanti effetti collaterali, quali danni al fegato, problemi cardiovascolari, infezioni, encefalopatie e chi più ne abbia più ne metta.

Un’ambiguità funzionale che richiede spiegazioni esaustive da parte degli specialisti, ma anche e soprattutto la disponibilità di un paziente capace di comprendere e di vagliare, nell’ottica di una scelta farmacologica condivisa, la strada più adatta per sé e per la sua malattia. A tale ambiguità funzionale, si associa poi un’ambiguità derivante dalla dimensione economica e commerciale dei farmaci disponibili sul mercato. Basti pensare alle vicende relative al Daraprim, il farmaco anti-HIV, il cui brevetto è stato acquistato da quello che poi è stato definito “l’uomo più cattivo d’America”, che ne ha alzato il prezzo del ben 5000%. Ora, chi di voi comprerebbe ugualmente un farmaco del genere se ne avesse bisogno? Chi di voi vi rinuncerebbe? Chi di voi accetterebbe il rischio di una leucemia pur di non “finire” su una sedia a rotelle? Chi di voi preferirebbe un maggior profilo di sicurezza, anche se questo dovesse comportare una maggiore probabilità di perdere l’uso delle gambe? Sicuramente ognuno di noi risponderebbe in maniera differente. Ognuno per le sue ragioni, per il suo istinto e per le condizioni che sta vivendo nel momento in cui si trova a rispondere a queste domande. Bene, quello che voglio fare qui, è analizzare cosa può influire su una tale presa di decisioni, considerando come focus fondamentale il concetto di propensione al rischio.

 

I fattori che guidano i processi decisionali nella scelta dei farmaci

Fino a non molto tempo fa i processi decisionali venivano spiegati, soprattutto in ambito economico, dalla nota Teoria dell’utilità dell’attesa (Von Neumann & Morgenstern, 1947), in base alla quale la scelta veniva considerata come l’esito naturale di un calcolo delle probabilità del verificarsi degli eventi da parte dell’agente decisionale. E’ stato solamente grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Kahneman e Tversky che si è dimostrato poi come i processi decisionali siano di fatto guidati da euristiche e bias. Grazie a queste ricerche nel 1979 veniva formulata dagli stessi autori la Teoria del prospetto, in base alla quale la scelta dell’agente decisionale veniva considerata come fortemente dipendente dal contesto di valutazione. L’effetto di riflessione, un particolare tipo di violazione dell’utilità dell’attesa, è risultato poi essere rivoluzionario nell’indagine dei processi decisionali umani.

In base a quanto emerso, Kahneman e Tversky potevano, infatti, affermare che gli agenti decisionali tendono: 1) a preferire eventi positivi di valore minore con probabilità maggiore, rispetto a eventi positivi di valore maggiore con probabilità minore e, in maniera speculare, a preferire eventi negativi di valore maggiore con probabilità minore, rispetto a eventi negativi di valore minore di probabilità maggiore; 2) a preferire eventi positivi certi a quelli incerti e, specularmente, eventi negativi incerti a eventi negativi certi. Emergeva, quindi, come l’avversione al rischio venisse di fatto favorita dall’eventualità di ottenere dei guadagni, mentre la messa in gioco di possibili perdite, derivanti da condizioni di malattia ad esempio, attivava di fatto una ricerca del rischio. Lo sviluppo di tali evidenze assicurò almeno a Kahneman il premio Nobel per l’Economia nel 2002.

Qui, tuttavia, parliamo di salute e non di conto in banca, e, in effetti, le nostre scelte non funzionano sempre allo stesso modo indipendentemente dall’ambito in cui ci troviamo a prender decisioni. In un interessante studio inglese del 2005 condotto su 2041 soggetti, si è dimostrato, ad esempio, come la propensione al rischio non sia unitaria, ma altresì variabile di persona in persona, anche in base al dominio oggetto di analisi (sia esso il tempo libero, la salute, gli aspetti economico/finanziari, la carriera, la sicurezza o la società). Un trader finanziario ad esempio, potrebbe preferire scelte sanitarie più sicure e meno rischiose, pur effettuando compravendite di strumenti finanziari ogni giorno. Allo stesso modo, veniva dimostrato come il genere e l’età dell’agente decisionale assumessero un ruolo fondamentale nella presa di decisioni, per cui i maschi e i giovani risultavano essere i soggetti con maggior propensione al rischio rispetto al resto della popolazione.

 

Come la personalità influenza l’inclinazione al rischio

Da dove, tuttavia, tali differenze? Sicuramente l’inclinazione al rischio affonda le sue radici nella personalità. Nello studio inglese già citato, ad esempio, veniva dimostrato, come la generale propensione al rischio correlasse con un chiaro pattern del Big Five, costituito da un’alta estroversione e apertura all’esperienza, e da bassi livelli di nevroticismo, amicalità e coscienziosità. Fu il dottor Marvin Zuckerman, tuttavia, a parlare per la prima volta di sensation seeking e cioè di quel particolare tratto di personalità, secondo lui disgiunto da altri fattori di personalità, che può portare alla ricerca di esperienze e sensazioni varie, nuove, complesse e intense, per il cui risultato si è disposti ad accettare rischi fisici, sociali, legali e finanziari.

Attraverso studi di deprivazione sensoriale, Zuckerman aveva, infatti, notato che alcuni individui sopportavano situazioni monotone meglio di altri, i quali divenivano invece fin da subito molto inquieti. Non è mai stata chiarita la causa di tali diversità di base tra gli individui, né le motivazioni che portassero un individuo a una maggiore propensione alla ricerca del brivido e dell’avventura, piuttosto che alla semplice ricerca di esperienze o a una disinibizione generale o a una suscettibilità alla noia. L’ipotesi dell’indipendenza da altri fattori di personalità, tuttavia, è stata spesso screditata, a sostegno dell’ipotesi secondo la quale il substrato personologico generale della persona determini di fatto la soggettiva propensione al rischio.

Propendere per situazioni o scelte rischiose, tuttavia, non dipende unicamente da questo. Chi ha qualche base di neuropsicologia, sa bene quanto i lobi frontali, posti nella parte anteriore del cervello, siano ciò che abbiamo di più importante per la pianificazione, l’organizzazione e il controllo del nostro comportamento. Essi si qualificano come le aree filogeneticamente più recenti del nostro cervello e ci caratterizzano per la nostra peculiare dimensione di esseri umani, in un netto salto evoluzionistico rispetto agli altri animali. Richiedono, tuttavia, un lento processo di maturazione che subisce un picco di criticità in età adolescenziale fino alla finale e più importante maturazione delle aree prefrontali, necessarie per lo sviluppo delle capacità di giudizio sociale e di presa di decisioni. In uno studio di Eshel e colleghi, ad esempio, si dimostrava come gli adolescenti di fatto ingaggiassero strutture regolatrici prefrontali con un’estensione minore rispetto agli adulti di fronte a scelte economiche rischiose.

E’ per tali motivi che nei teenager spesso osserviamo comportamenti rischiosi e alti livelli d’impulsività, in realtà destinati a un naturale declino con il completamento della maturazione cerebrale. Alle fasi normali di sviluppo, si aggiungono poi l’abuso di sostanze e le patologie neurologiche, che in un dato momento della vita possono affacciarsi alla nostra esistenza. In tali situazioni, le aree frontali possono risultare purtroppo coinvolte, provocando alterazioni del comportamento e delle capacità di flessibilità mentale, d’inibizione delle risposte automatiche e di problem-solving, con un’inevitabile influenza sulle capacità di prendere decisioni secondo criteri di ragionamento interni. Risulta chiaro, quindi, come persone di giovane età o con un profilo attentivo-esecutivo deficitario possano risultare svantaggiate nella presa di decisioni in ambito sanitario, per l’indisponibilità di un completo assetto cognitivo, utile a una ragionata valutazione degli scenari possibili. Si pensi ad esempio a una giovane paziente con sclerosi multipla con lesioni frontali attive, posta di fronte alla scelta di un ventaglio di farmaci immunosoppressori con minori o maggiori effetti collaterali e con minori o maggiori profili di efficacia per rallentare il decorso della malattia. Quanta parte la sua età e i suoi deficit cognitivi giocheranno nella sua scelta? Quanta parte giocherà il suo tono dell’umore e quanto la sua personalità? Quanto interferirà poi la sua precedente esperienza farmacologica, il suo livello di disabilità e ciò che ha sentito da un paziente con la sua stessa malattia in sala d’attesa? Chissà se vorrà fare un Erasmus a breve, chissà che progetti avrà per il suo futuro e quante montagne vorrà scalare, … e tali progetti influiranno sulla sua scelta?

Per questo tipo di esempi e per le domande a essi correlate, è stato introdotto il concetto di percezione del rischio, un costrutto fondamentale per predire l’ingaggiamento del paziente in comportamenti connessi alla salute. Da letteratura si sa come esso si costituisca in parte di un processo deliberativo, in base al quale i pericoli connessi alla salute vengono analizzati in termini razionali, e in parte di un processo emotivo, attraverso cui gli stessi rischi vengono valutati mediante la valenza percepita dell’evento (positiva o negativa) in associazione con il livello di arousal (basso o alto) esperito. Questo modello bi-dimensionale, tuttavia, si è dimostrato non essere sufficiente a spiegare il nostro comportamento quando ci troviamo a prender decisioni in ambito sanitario.

Per questo motivo, Ferrer e colleghi hanno di recente proposto un modello tripartito di percezione del rischio, il TRIRISK model, aggiungendo alle due componenti sopra descritte, una terza, chiamata esperienziale. Essa qualifica il paziente come un soggetto che valuta i rischi connessi alla salute in maniera né razionale, né emotiva, ma sostanzialmente olistica, basata su associazioni acquisite nel corso del tempo, esplicantisi in immagini concrete, metafore e narrative personali. In particolare, nello stesso studio emergeva come, a mediare il rapporto tra la percezione del rischio e i comportamenti connessi alla salute, fosse il rapporto che le persone solitamente instaurano con le proprie emozioni. La componente esperienziale della percezione del rischio, ad esempio, prediceva meglio le intenzioni dei pazienti che tendevano ad accettare i propri sentimenti, quella deliberativa prediceva meglio le intenzioni di quelli che tendevano a evitare i propri sentimenti, mentre quella emotiva prediceva le intenzioni di tutti i soggetti indipendentemente dalla loro tendenza ad accettare o evitare le emozioni. Come suggerito dagli autori, un obiettivo futuro sarà quello di comprendere la direzione e l’ampiezza dei cambiamenti di comportamento connessi alla salute per ognuno dei costrutti discussi, in modo da massimizzare gli impatti positivi sulle condotte sanitarie.

D’altra parte, per come si evince da quanto appena discusso, la propensione e la percezione del rischio connesse alla salute costituiscono una tematica assai complessa, in cui psicologia e neuropsicologia si intersecano concertando insieme i tempi e le scelte del paziente. Non va dimenticato, tuttavia, come anche il medico, di fatto, sia probabilmente soggetto alle stesse disquisizioni di cui abbiamo trattato finora. La personalità, l’età, il sesso, i fattori concomitanti (esperienze professionali di eventi avversi, personale familiarità con la malattia, il tono dell’umore…), la soggettiva inclinazione ad accogliere o evitare le emozioni potrebbero di fatto giocare un ruolo decisivo, non solo nella scelta, ma anche nella proposta del trattamento.

Incrementare le nostre conoscenze rispetto alla presa di decisioni in ambito sanitario consentirebbe, quindi, di rendere la scelta terapeutica un momento realmente condiviso con la possibilità di aumentare l’aderenza ai trattamenti e di migliorare, in potenza, gli outcome clinici.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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