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I miei genitori non hanno figli (2015) di M. Marsullo – Recensione

L'autore apre le porte della sua casa e fa osservare le dinamiche emotive di coppia scoppiata dei suoi genitori e del legame familiare confuso

Di Carmen Settanta

Pubblicato il 27 Set. 2016

Aggiornato il 28 Nov. 2016 14:25

I temi dell’aspettativa, del non sentirsi mai abbastanza, dello scontro generazionale e delle difficoltà comunicative tra genitori e figli, sono quelli che segnano una commedia spassosa e divertente, delicata ma al tempo stesso graffiante.

 

– Allora, hai deciso, sì?

– Eh?

– L’università, allora, l’hai decisa? Hai diciotto anni, sei grande, ormai.

L’esordio del libro ‘I miei genitori non hanno figli‘ di Marco Marsullo, è quello di una brevissima conversazione tra madre e figlio. Una domanda che all’apparenza sembrerebbe ammettere risposte aperte ma che segretamente (poi neanche così tanto) cela il bisogno di una risposta che vorrebbe vedere appagato l’io genitoriale: mamma e papà sarebbero compiaciuti all’idea di sentire risposte determinate da un figlio adolescente ma risoluto che sentenzia il proprio giudizio universitario. I temi dell’aspettativa, del non sentirsi mai abbastanza, dello scontro generazionale e delle difficoltà comunicative tra genitori e figli, sono quelli che segnano una commedia spassosa e divertente, delicata ma al tempo stesso graffiante.

L’autore sin da subito ci porta con sé, ci apre le porte della sua casa. Ci fa osservare, senza giudizio, le dinamiche emotive di una coppia scoppiata, quella dei suoi genitori, di un legame familiare confuso e disorientato. La parola è data all’adolescenza e a quell’adolescente, figlio di separati (così si definisce l’autore) che ha varcato la maturità degli anni anagrafici ma che si sente ancora sulla strada della crescita, quella fatta di scelte che fanno maturare e rendono coraggiosi.

E la scelta universitaria fa parte di quella categoria di decisioni esclusive e tortuose, impegnative, dal sapore di assoluto perché sembrano per sempre. Perché in fondo ogni scelta ha a che fare con la storia, con le esperienze che ogni persona ha vissuto e vive, con il modo con cui ci si approccia ai bivi, agli incroci di cui è fatta la vita. Ogni scelta ha a che fare con il modo con cui la nostra famiglia, i nostri genitori primi fra tutti, ci hanno supportato e valorizzato, con il modo con cui ci hanno fatto sentire capaci di poter scegliere, di assumerci la responsabilità delle azioni, di correre il rischio che spesso ne deriva. Ma soprattutto ogni scelta ha a che fare con la dose di fiducia che i nostri genitori hanno voluto regalarci, dono di speranza e crescita.

E dalla trafelata crociata verso la conquista dei primi esami di legge, nel testo si alternano i flashback della separazione dei genitori del protagonista, finita non nel migliore dei modi, a colpi di discussioni rumorose avvenute di sera in cucina, di avvocati che si sfidano, per colpa di una ‘quella là’ che si è messa in mezzo. Confusione, tristezza, rabbia, nostalgia, solitudine, è un testo emotivamente ricco, coinvolgente.

Noi figli dei separati siamo come ostaggi. Merce di scambio, casi diplomatici, dividiamo l’opinione pubblica. Solo che non c’è una nazione con il fiato sospeso che affanna per la nostra sorte. Ci siamo solo noi, e basta.

Parole legittime e provocatorie da parte di un figlio di separati. Ed è chiaro che questo status non protegge e non fa sentire così stabili. In aggiunta c’è la pungente descrizione di un padre evitante in termini di attenzioni e considerazione perché troppo preso da diktat e luoghi comuni che risultano stucchevoli, troppo lontani dalla realtà, spesso mutevole, di un adolescente in corsa.

Un rapporto quello tra padre e figlio, caratterizzato da sermoni sterili, paternali che suonano di superficialità. ‘Abbiamo dovuto proprio metterci d’impegno per non riconoscerci nei pensieri’ la descrizione del loro rapporto, senza parafrasare le parole dell’autore.

Una madre ancora troppo arrabbiata, che fa fatica a fare pace con la vita ma soprattutto una donna ferita. Lacerata da ricordi che stentano a trovare una collocazione in una vita ricca di attività (yoga, pilates, etc) che non bastano per far fronte ad un dolore, quello della separazione, mai metabolizzato. Una madre che mette in atto dei tentativi maldestri di coinvolgere o forse di tenere a sé il frutto di un amore finito, come la creazione di un gruppo su whatsapp (chiamato Family), i cui componenti sono madre e figlio (forse un numero un po’ piccolo per parlare di gruppo che abbia caratteristiche familiari?).

Perché è un po’ così, dal titolo stesso, i genitori non hanno figli se il confronto è sempre con i figli dei propri colleghi che in qualsiasi altra attività risultano più tenaci, escono vittoriosi da qualsiasi battaglia che ingaggiano. I genitori non hanno figli se non c’è un ponte comunicativo, se non c’è empatia che fa da cornice nei rapporti genitori-figli, se non c’è condivisone e spazio di ascolto.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Marsullo, M. (2015). I miei genitori non hanno figli. Einaudi Editore
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