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La Chiesa Cattolica, tra condanne e apologie

La secolarizzazione occidentale è lontana dalle avventure e disavventure della fede cristiana. Preferisce ora inclinarsi a forme di spiritualità interiore.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 01 Apr. 2016

Sulla Chiesa Cattolica è già stato scritto tutto e troppo, e quel che si dice e si ripete, il bene e il male, si ripresenta in un eterno ritorno che sembra non stancarsi mai di se stesso.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 26/03/2016

 

Sulla Chiesa Cattolica è già stato scritto tutto e troppo e, parafrasando Montanelli, tutto è inedito, anche quello che è stato già stato stampato. Non ci si stanca di ripetere, di rileggere e di ristampare quello che abbiamo già letto, detto e stampato e ripetuto più e più volte, in un’infinita ingordigia. E quel che si dice e si ripete, il bene e il male, si ripresenta in un eterno ritorno che sembra non stancarsi mai di se stesso.

Vi è una pubblicistica contraria che risale alle eresie medievali, si rinforza con il luteranesimo e il calvinismo e poi si stabilizza -nei paesi protestanti- in una rappresentazione rinascimentale e barocca della corruzione della Chiesa, schiava del potere e dimentica di ogni missione evangelica, eppure capace di coltivare bellezza e arte. Il prete cattolico vestito di nero diventa un’icona del male per il puritanesimo anglo-sassone e questo si riflette nella letteratura popolare ottocentesca, dapprima in Inghilterra e poi oltremare, in America. L’immigrazione irlandese, la prima con cui fanno i conti gli americani, accentua questa visione negativa.

A metà del secolo scorso, fino a poco prima della secolarizzazione degli anni ‘60, assistiamo a un’oscillazione che in qualche modo corrisponde all’assimilazione degli irlandesi nel tessuto della classe dominante americana. Spencer Tracy, l’attore di Hollywood che conosciamo soprattutto per ‘Indovina chi viene a cena?‘, ebbe ruoli da prete cattolico come eroe positivo in vari film, e fu la prima volta su un mezzo di comunicazione di massa in un paese prevalentemente protestante. Fu padre Tim Mullin nel 1936 in ‘San Francisco‘, fu padre Edward J. Flanagan in ‘La città dei ragazzi‘ (1938) –e vinse l’Oscar- e nel sequel ‘Gli uomini della città dei ragazzi’ (1941) e fu padre Matthew Doonan nel 1961 per ‘Il diavolo alle 4‘.

Tutto questo sfociò nella presidenza Kennedy, cattolico irlandese, e nella popolarità di papa Giovanni XXIII, il primo papa non odiato dai protestanti dai tempi di Lutero. Anni dopo Reagan e Giovanni Paolo II avrebbero rinnovato questa strana alleanza tra l’Imperatore statunitense, stavolta non cattolico, e il Papa.

Poi c’è stato un altro rivolgimento di nuovo in negativo con gli scandali della pedofilia dei preti, e il cattolicesimo ha ripreso il suo ruolo di vilain. Che lo scandalo fosse sessuale confermava le vecchie diffidenze puritane.

Accanto a questa pubblicistica negativa di marca protestante e alle sue oscillazioni, vi è poi un’apologetica che parla a favore della Chiesa Cattolica. Un’apologetica tutta particolare, che punta più sul paradosso che sull’elogio incondizionato e che fa acrobaticamente aggio sui difetti popolarmente attribuiti alla Chiesa Cattolica per farne delle opere buone.

È una sotterranea vena catto-dandy che si ritrova sia nel Chesterton che scrisse ‘Perché sono cattolico?‘ o –in termini più sobri e dimessi- nel Manzoni delle ‘Osservazioni sulla morale cattolica‘, un’apologetica che elogia le contraddizioni e che non nasconde gli aspetti deprecabili del cattolicesimo, anzi additandoli come prova di una santità che vuole incarnarsi nel mondo e non distaccarsi da esso. Il rischio di gesuitismo deteriore e di lassismo morale è dietro l’angolo, ma vi è anche grandezza in questo argomentare, che è poi quello della parabola del fariseo e del pubblicano, in cui il vero credente è colui che è immerso nel peccato e ne è consapevole piuttosto che il fariseo soddisfatto della sua moralità cristallina. E –con buona pace di Lutero- il protestantesimo è a rischio di fariseismo; un fariseismo della fede.

La secolarizzazione occidentale, naturalmente, è ormai lontana anni luce da queste avventure e disavventure della fede cristiana, cattolica o protestante che sia, e stende su esse lo sguardo che si riserva ai residui bislacchi di tempi passati. Preferisce inclinarsi a forme di spiritualità interiore, più attente al benessere soggettivo che ad agire sul mondo.

Il successo crescente del buddismo e della sua forma più operativa, la mindfulness, è un segnale. È vero che la mindfulness, nelle sue accezioni migliori, non è un distacco dai propri pensieri e tanto meno dal mondo ma è consapevolezza. E tuttavia una sensazione di distacco un po’ facile permane legata alle manifestazioni più popolari e naif del buddismo e della mindfulness.

È vero: il buddismo più sofisticato non predica il distacco dal mondo, eppure al tempo stesso nemmeno ha una visione della storia umana come evoluzione dotata di senso. Questa rimane una peculiarità del cristianesimo, peculiarità che non vuole più presentarsi come superiorità, ma che nemmeno possiamo nascondercela in una notte della conoscenza in cui tutti i gatti sono neri e tutte le tradizioni umane, religiose o filosofiche che siano, sono uguali.

Molti autori hanno descritto la capacità del cristianesimo di incarnarsi nella storia e di avere una particolare sensibilità per la rappresentazione realistica delle cose, dalla pittura alla letteratura. Questa nozione che un tempo era patrimonio comune e sapere scontato per chiunque ambisse a considerarsi una persona di cultura, oggi è minacciato da una forma decaduta di egualitarismo culturale in cui tutti saperi sono irenicamente uniformi e tutti, in fondo, dicono la stessa cosa dalla notte dei tempi.

Il critico letterario ebreo Erich Auerbach non ebbe difficoltà ad ammettere questa peculiarità della tradizione cristiana –la sensibilità per la storia e per il realismo nella rappresentazione dei moti umani- e a dedicare a questa sensibilità un libro splendido, ovvero ‘Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale‘. Libro scritto a Istanbul dove Auerbach era fuggito, perseguitato dalla Germania nazista. Un tempo si poteva essere ebrei in fuga da Hitler e comunque comprendere una grandezza del cristianesimo e, di riflesso, della Chiesa Cattolica. Non è detto che non si possa fare anche oggi, in un tempo in cui la Chiesa ancora una volta si incarna nella storia andando a cercarsi un papa gesuita e sudamericano e tentando ancora una volta di morire e risorgere.

Di questa capacità di non distaccarci e di incarnarci nel tempo e nella storia abbiamo ancora bisogno, in un momento in cui forte è la tentazione di fuggire e di isolarci. Anche la psicologia moderna, in fondo, mostra un simile doppio movimento –tra buddismo e cattolicismo?- di ricoperta delle tecniche di meditazione orientale e di ricoperta della carne e del corpo nelle terapie motorie ed esperienziali.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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