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Come l’etnia del paziente cambia il comportamento del medico

Quando il medico si relaziona con malati terminali di diversa etnia modifica il suo comportamento non verbale e questo ha delle ripercussioni sul paziente.

Di Zeno Regazzoni

Pubblicato il 29 Gen. 2016

Quando un medico si relaziona con un malato terminale può adottare comportamenti diversi a seconda dell’etnia del paziente. Questo è ciò che sembra emergere da un recente studio americano appena pubblicato su The Journal of Pain and Symptom Management, per opera del professor Barnato e colleghi della Pitt’s School of Medicine.

La necessità di questa ricerca, che per la prima volta osserva scientificamente le interazioni tra medici e pazienti a fine vita, è sorta proprio con l’intento di spiegare perché i malati terminali afroamericani scelgono di adottare – più spesso degli americani caucasici – cure straordinarie e invasive e perchè riportano spesso un peggior rapporto con il proprio medico.

Gli autori hanno selezionato un campione di 33 specializzandi in terapia intensiva e li hanno sottoposti ad una simulazione con attori che interpretavano la parte dei malati e dei familiari. Gli attori, afroamericani e caucasici, riportavano condizioni mediche simili (bassi parametri vitali a causa di tumori a stomaco o pancreas) e recitavano tutti un copione simile. I medici erano chiaramente a conoscenza del fatto che si trattasse di un esperimento, ma non erano minimamente consapevoli di cosa l’esperimento volesse misurare. Tutte le interazioni sono state registrate attraverso videocamere e microfoni ed è stata valutata la comunicazione verbale e non-verbale del medico sia nella qualità che nella quantità.

I risultati hanno confermato le ipotesi. Se la comunicazione verbale non ha subito alcun cambiamento significativo a seconda dell’etnia del paziente, le analisi quantitative della comunicazione non verbale hanno riportato un’interazione inferiore del 7% quando il paziente era afroamericano. Infatti, sebbene il dialogo tra medico e paziente fosse sempre il medesimo, sappiamo bene che la comunicazione non è fatta solo di parole, ma anche di contatto visivo, posizione del corpo, gestualità e contatto fisico.

[blockquote style=”1″]Una comunicazione non verbale piuttosto povera – di cui probabilmente il medico non è nemmeno consapevole – potrebbe dunque spiegare in maniera efficace perchè i pazienti afroamericani riportano una discriminazione nei loro confronti da parte dei medici[/blockquote] suggerisce il professor Barnato.

Dando un’occhiata anche alle analisi qualitative, inoltre, ci si rende subito conto del fatto che – come nella maggior parte dei casi – il come conta più del quanto: di fronte ad un paziente caucasico, infatti, i medici erano più portati a porsi accanto al suo letto e spesso ad offrire un contatto fisico di natura empatica; di fronte ad un paziente afroamericano, tuttavia, i medici si posizionavano più spesso vicino alla porta, cercando meno attivamente il contatto visivo e guardando, perlopiù, la cartella clinica del paziente.

Ora, è chiaro che un atteggiamento come quello appena descritto può portare il paziente a percepire il proprio medico come meno coinvolto e solidale nei confronti della propria condizione. Tale impressione iniziale può produrre quindi una serie di incomprensioni e distorsioni a cascata che inducono il paziente ad esitare nel richiedere cure straordinarie e invasive, proprio poiché questi dubita che il proprio medico (che gli ha consigliato cure più leggere) abbia davvero a cuore la sua vita. Analizzando la letteratura presente, emerge effettivamente da parte della popolazione afroamericana una leggera tendenza di natura culturale a richiedere cure terminali più aggressive ed invasive rispetto alla controparte caucasica. Vale la pena notare, però, che tale tendenza viene statisticamente raddoppiata quando il paziente afroamericano deve prendere questa decisione in ospedale!

In conclusione, sembra che il linguaggio non verbale del medico abbia un ruolo determinante nello sviluppo della fiducia (o della sfiducia) del paziente nei suoi confronti e dunque nelle scelte che questi compirà a proposito della sua vita. Lungi dal risuonare come una predica moralista, questo articolo ha il solo scopo di invitare il medico, da un lato, a porre maggior attenzione e consapevolezza anche al linguaggio non prettamente verbale e, dall’altro, a sincerarsi di trattare tutti i pazienti nella medesima maniera, così come richiesto innanzitutto dall’etica professionale. Dentro la propria mente ciascuno di noi è libero di pensare e discriminare chi vuole, al di fuori della propria mente decisamente no.

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